Roma. Martedì, 30 marzo 2010, alle ore 17,00, presso la Sala del Carroccio del Palazzo Senatorio (piazza del Campidoglio, 1) a Roma, dove teniamo la presentazione di Ocean Terminal (Castelvecchi, 2009), romanzo postumo di Piergiorgio Welby.
Castelvecchi, 2009), romanzo postumo di Piergiorgio Welby.
Fin dal settembre 2006, la rivista «línfera» ha promosso lo scrittore Welby ritenendolo una voce unica e straordinaria nell’attuale panorama letterario italiano, una voce che per contenuti e per forme coincide appieno con le esigenze e gli obiettivi del Movimento per la Neorinascenza della letteratura. Ocean Terminal dimostra che un’altra letteratura è possibile e comporta una dimensione viva della cultura, aperta al mondo e alla concretezza dei suoi fatti.
In una sala di rianimazione, nel luglio del 1997, Piergiorgio Welby inizia a concepire Ocean Terminal: un abbandono progressivo di tutte le speranze, un inno alla vita nonostante tutto. Interrotto nel gennaio del 2006 – dieci mesi prima della morte – il romanzo viene oggi per la prima volta alla luce nella curatela di Francesco Lioce. Ocean Terminal è un insieme di prose spezzate che si riannodano a distanza o si interrompono proprio quando sembrano preannunciare altri sviluppi: dall’infanzia cattolica alla scoperta della malattia, fino all’immaginario hippy e alla tossicodipendenza, passando attraverso gli squarci di una Roma vissuta nelle piazze o nel chiuso di una stanza. In un continuo susseguirsi di toni lucidi e febbrili, poetici e volgari, Welby riavvolge il nastro della sua vita, adottando un linguaggio babelico che colpisce per originalità e potenza. Postuma, per volontà dello stesso autore, l’opera avrebbe dovuto ripercorrere l’intera esistenza dell’uomo Welby: rimasta purtroppo incompiuta, ci viene restituita come il frutto letterario di un eccezionale scrittore.
«Chi sono? Un superstite? Dovrei recuperare il lessico infantile e restituire un senso compiuto anche a questi balbettii. Dovrei accartocciarmi, come una foglia di magnolia, e attendere che il maestrale, rotolando sulla brina della notte, mi spazzi via trascinandomi sulla ghiaia, fino all’angolo buio del cancello in ferro battuto che separa il mio guscio d’avorio dalla strada. Dovrei riappropriarmi del mio corpo, delle passioni, come la vergogna e l’ira, per poter piangere e ridere, cercare il limite del dolore smarrito tra il sambuco e le acacie. Dovrei rispondere al fischio che sveglia il pomeriggio di pulviscoli galleggianti sulle scie luminose che tagliano l’incubo della stanza. Dovrei prendere gli scarpini e la Bianchi e pedalare, senza prendere fiato fino al campetto della stazione, sudare, urlare, spingere, bestemmiare e colpire il pallone con il collo del piede… come dicevi tu, papà».
A presto rivederci.
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