Italiani all'Estero

USA. La “missione” della scienziata Cristiana Rastellini

Chieti, 21 Dicembre ’10, Martedi. S. Tommaso – Anno XXXI n. 475 – www.abruzzopress.infoabruzzopress@yahoo.it – Tr. Ch 1/81


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Ap – Dal Texas

La “missione”

della scienziata

Cristiana Rastellini

di Lino Manocchia

GALVESTON (Texas), 22 Dicembre, La dottoressa Cristiana Rastellini, originaria di Roma, sta inseguendo una “missione” che la terrà impegnata per molto tempo, e non l’abbandonerà sino a quando la sua nobile attività sarà realizzata.

Cristiana ha anche accantonato tanti suoi hobby, compresa la passione per la pittura in olio e i colleghi che hanno lavorato con lei nelle ricerche, non dubitano minimamente circa l’abilità di successo della dottoressa, “dotata di una gentile aggressività”. Ecco il pensiero – in esclusiva – della nostra connazionale che fa onore alla Patria in un Pianeta tanto diverso da quello natio.

Cristiana, il trapianto delle insule pancreatiche nel fegato malato quale soluzione per il diabete del quale Lei si occupa, a che punto è?

«Le insule pancreatiche vengono trapiantate nel fegato sano di un paziente diabetico e lì funzionano producendo insulina e controllando il glucosio. Il trapianto di insule  pancreatiche è un valido trattamento del diabete ed ha ormai raggiunto risultati paragonabili a quelli del trapianto di pancreas. Il grosso vantaggio del trapianto di insule consiste nel fatto che è una  procedura minimamente invasiva che può essere fatta in anestesia locale con una durata di infusione delle cellule di circa 30 minuti. Essendo un trapianto ha bisogno di essere accompagnato per sempre dalla immuno-soppressione per far si che le cellule non vengano rigettate. Alcuni gruppi, incluso il nostro, lavorano sulla “tolleranza” cioè su una terapia al momento del trapianto che faccia accettare per sempre le cellule (o l’organo o il tessuto) trapiantate senza dover avere una immuno-soppressione a vita. Il trapianto di insule rimane una promettente  alternativa per i pazienti diabetici ma certamente si può continuare a  lavorare per migliorarla ancora.»

In questi trapianti vengono usate cellule staminali?

«Attualmente no. I trapianti di insule pancreatiche sono effettuati con cellule adulte  ottenute dal pancreas di donatori cadaveri. Molti gruppi che si occupano di questo (incluso il nostro) stanno anche investigando l’utilizzo delle cellule staminali. Queste sono estremamente promettenti ma ci sarà bisogno ancora di molta ricerca e sperimentazione per passare all’applicazione clinica.»

Parliamo di cellule staminali, cosa ci dobbiamo aspettare nel futuro?

«Penso ci saranno molte sorprese a parecchie aspettative verranno raggiunte. Per alcune applica-zioni non sono particolarmente ottimista ma in linea generale continuo a considerare questo un settore da cavalcare al massimo. Sui tempi per le applicazioni cliniche sono molto cauta. Vorrei poter dire che le terapie staminali per le maggiori malattie in studio saranno pronte domani, ma bisogna essere pazienti e continuare a sviluppare ed investire in questo settore. Serve molta sperimentazione per accertarsi che i trattamenti siano sicuri ed efficaci, ma tanti gruppi in tutto il mondo continuano a fare passi in  avanti e questo permetterà di raggiungere le cure per tante  malattie.»

Su questo aspetto, nello specifico, l’Italia  come è messa sullo scenario mondiale?

«In Italia ci sono dei gruppi eccellenti che riescono a fare un ottima ricerca nel settore ma sono

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veramente pochi e lavorano spesso in condizioni molto difficili. Non è certo perché mancano le idee o le menti, ma perché la struttura non permette di condurre la ricerca come noi possiamo fare in America. E’ un vero peccato perché l’Italia potrebbe veramente eccellere anche in questo settore se solo si potesse cambiare il sistema con maggiori investimenti e con più meritocrazia.»

E sul fronte dei trapianti?

«Quello dei trapianti è un settore in continuo sviluppo ed è incredibile vedere come sono evoluti negli ultimi 20  anni. Il trapianto è un trattamento terminale per alcune malattie che  fortunatamente salva la vita a tanta gente. Il trapianto è ancora limitato dalla disponibilità di organi umani e questo spinge sempre di più a cercare delle alternative. Credo che vedremo molto altro in questo settore nel futuro. Nuove tecnologie entreranno a far parte dei trapianti e ci sarà l’innovazione degli organi artificiali e l’utilizzo di organi animali. Insomma ci sarà ancora molta ricerca da fare! In Italia ci sono dei buoni centri trapianti e c’è un buon numero di donatori. Purtroppo la ricerca invece soffre un po’.»

Il  futuro dei trapianti è davvero nelle staminali?

«Le  staminali avranno un grandissimo ruolo nei trapianti ma ci saranno anche gli organi bio-artificiali, la nanotecnologia, e le terapie  genetiche.»

Parliamo di ricerca. Lei ha ottenuto, tra l’altro, un finanziamento di 3.5 milioni di dollari dal National Institute of Hea,lth (NIH) per portare avanti i suoi studi sul trapianto contro il diabete. In Italia Le sarebbe stato possibile?

«Quando ho ricevuto quei fondi (avevo 33 anni e da 7 anni di lavoravo negli Stati Uniti) ho capito che era valsa la pena di aver lasciato il mio paese ed aver intrapreso questa strada così  impegnativa. E’ stato un po’ il momento in cui ho fatto pace con me stessa visto che non sono state poche le volte in cui mi sono chiesta se avessi fatto la scelta giusta. E’ stato come raccogliere dei frutti e riconoscere che in questo paese se lavori bene i frutti arrivano perché il merito viene premiato a prescindere dal nome, dalla faccia, e da tutti quei meccanismi che dilagano in Italia. No, anche con lo stesso impegno di lavoro, io penso che non avrei ottenuto quei fondi in Italia. E’ dolorosissimo ammetterlo ma credo il mio destino sarebbe stato completamente diverso e la mia creatività e curiosità non avrebbero trovato spazio in Italia.»

I motivi per i quali l’Italia è fanalino di coda nella ricerca, secondo Lei, sono solo economici o anche legati alle procedure operative, alla burocrazia? Lei che idea si fatta?

«Sicuramente quello dei fondi è un grosso problema. L’Italia deve capire che per un benessere futuro bisogna  investire di più sulla ricerca e l’educazione. Certo le cose sono poi  un po’ tutte collegate e diventano tutte dei limiti. E’ un po’ retorico, ma anche solo uno stipendio investito male perché dato senza merito è un cattivo investimento e moltiplicato per mille fa sprofondare il  sistema e lascia fanalino di coda. La ricerca ha bisogno di investimenti  da tutti I punti di vista. Nella scienza ci sono i fuoriclasse come nel calcio e se si vuole diventare campioni del mondo si deve investire nei fuoriclasse, allenarsi sui campi migliori ed avere dei buoni dirigenti e allenatori, insomma un intero sistema che permetta di lavorare al meglio. Chi ha fatto esperienza all’estero non ha solo imparato ad isolare le cellule staminali o a leggere i geni e quantificare il DNA. Ha imparato a vivere in un sistema che funziona e  che si basa fondamentalmente sul merito ed è questo che andrebbe importato per aiutare i nostri colleghi. Su questo devo dire che ho un po’ ottimismo visto che per la prima volta dopo 20 anni mi è stato chiesto  di partecipare all’assegnamento di fondi di ricerca in Italia usando il sistema di valutazione che usiamo qui in America. Mi sembra un grande passo avanti e sono veramente contenta di dare il mio contributo.»

Qualcuno sostiene che il futuro della  ricerca sarà in Asia, è vero?

«E’ possibile. Prima di tutto a questo punto ci sono molti fondi e nella ricerca questo è un elemento molto importante. Ma devo dire dalla mia esperienza che c’à qualche cosa di più. Nei vari laboratori in cui io ho lavorato o che ho diretto sono passati centinaia di asiatici che hanno sempre lavorato tantissimo, ma soprattutto imparato tantissimo, costruendo un tesoro che si possono portare via in ogni momento. Fino a poco tempo fa gli asiatici non  consideravano il rientro nel loro paese, adesso lo considerano sempre di più ed ho l’impressione che dietro ci siano dei governi che capiscono l’ottimo affare che possono fare investendo su di loro. Eserciti di potenziali scienziati che hanno fatto il loro training nei migliori posti del mondo, che hanno imparato non solo a lavorare ma anche a sviluppare idee, dirigere laboratori, strutture, gestire fondi. In Asia  potrebbero così nascere centri di ricerca molto competitivi. Inoltre attualmente, mentre noi tutti (inclusa l’Italia e l’America) ci  limitiamo sempre di più con burocrazie, regole e permessi vari, in Asia la ricerca è più liberale e questo da loro dei vantaggi.»

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Avrà visto, recentemente, che in Italia i ricercatori sono stati costretti a salire sui tetti per farsi sentire dalla politica. Al di la’ delle facili considerazioni, non crede che vi sia insensibilità da parte della classe politica italiana per ricerca. E non è forse vero che in America, da questo punto di vista, vi sia maggiore interesse di quella italiana e, forse, Europea?

«Il più grosso problema che vedo è che in Italia la ricerca è controllata dalla polita. In 20 anni in questo lavoro, in questo paese non ho mai avuto la percezione di un controllo politico sulla mia ricerca o quella dei miei colleghi. Io sono sempre stata assunta per fare quello che faccio, mi sono stati dati i fondi promessi e negoziati, e ho sempre rispettato i patti dei miei contratti facendo a diverse scadenze quello che era stato stabilito. E’ cosi che i nostri contratti vengono rinnovati. Questa è la ricerca in America. I dati, i risultati, e quindi i fondi; queste le uniche cose che parlano in questo campo. La politica, i politici non hanno voce sulla ricerca.»

Da giornalista le chiedo: secondo Lei come raccontare la ricerca, che ha un grossissimo appeal, all’audience e ai media, perché il livello culturale in materia in Italia cresca?

«La ricerca va raccontata attraverso i passi incredibili che si sono fatti e che si continuano a fare per curare, e preservare al meglio la nostra specie. Vanno raccontate le storie dei ricercatori, le loro intuizioni, il loro lavoro e i loro traguardi. Anche le persone meno colte sanno che oggi non si muore di polmonite come cento anni fa grazie alla scoperta degli antibiotici. Questo va ricordato in modo costante e va ricordato che la ricerca è dietro a queste scoperte. Il tumore diventerà storia grazie alla ricerca fatta da meritevoli scienziati a cui vengono dati i mezzi. Questo è un processo che non si potrà mai fermare perché avremo  sempre nuove malattie da curare per poter preservare la nostra vita.»

Lei è quella che la retorica nazionalpopolare definirebbe una scienziata italiana all’estero. Si sente così?, o secondo Lei esistono ancora gli italiani all’estero? ha un senso definirli così?

«Io mi sento una scienziata che lavora per l’umanità. Sono orgogliosa del lavoro che faccio, sono orgogliosa di essere italiana, e  sono orgogliosa di lavorare in questo paese. Un pizzico di amarezza è dato dal fatto che il mio Paese di origine non mi ha dato la possibilità di fare il mio lavoro come sto facendo qui, né ha mai dato segni di apprezzamento per i miei traguardi. Lasciare l’Italia ha comportato scelte difficili e sacrifici ma spero alla fine sia una  miscela vincente per aggiungere qualche tassello in più in questo grande puzzle per la cura di una malattia come il diabete.»

Cos’è per lei la vita?

«La vita è un dono che riceviamo e a cui sta a noi dare un senso. Io cerco di dare un senso alla mia vita giornalmente attraverso la mia famiglia (ho quattro figli) e il mio lavoro, le due cose a cui ho deciso di dedicarmi.»

E’ Superstiziosa?

«Non sono superstiziosa ma ogni tanto mi ritrovo a fare dei buffi rituali scaramantici.»

Le piace sentir suonare le trombe della fama?

«Sarei ipocrita se le dicessi di no! In realtà non è fama ma mi piace il riconoscimento di quello che faccio e spero che questo serva anche da esempio per chi vuole seguire i miei passi. Questo è un lavoro dove si possono avere anche tante delusioni, dove anni di studi e ricerche possono risultare in un insuccesso e bisogna avere il coraggio e la forza di alzarsi e ricominciare da capo. Bisogna avere delle forti motivazioni e qualche pacca sulla spalla o qualche riconoscimento quando si fa qualche cosa di buono fa piacere e aiuta ad andare avanti. E poi ci sono i pazienti, le parole dei genitori dei pazienti, le loro lettere, la fiducia e la speranza che hanno in te… quella è la vera energia!

LINO  MANOCCHIA

Campus Hospedale

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