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Giappone. DA HIROSHIMA A FUKUSHIMA

Chieti, 7 Aprile ’11, Giovedì, S. Ruffino – Anno XXXII n. 118 – www.abruzzopress.infoabruzzopress@yahoo.it – Tr. Ch 1/81


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Ap – Nucleare

DA HIROSHIMA A FUKUSHIMA

di Carlo Bordoni

Il terremoto dell’11 marzo in Giappone fa tornare con agghiacciante attualità la paura nucleare. Proprio nel paese che ha conosciuto, per primo, la capacità distruttiva della bomba atomica. L’incubo ora è la fusione del nucleo della centrale di Fukushima, la più danneggiata dal sisma. Una volta perso il controllo da parte dell’uomo, il nucleare può produrre un disastro di proporzioni immani.

L’uomo non si accontenta di trovare giustificazioni plausibili alle catastrofi naturali. Fa di più. Provoca catastrofi artificiali, più disa­strose di quelle naturali. Da Hiroshima e Nagasaki, dove sono state sganciate le prime bombe atomiche nel 1945, in poi.

Già Voltaire, nel suo Poème sur le désastre de Lisbonne aveva provato a sollevare l’uomo dalle responsabilità delle catastrofi, attribuendole non al caso, ma a un disegno supe­riore, perché il bene e il male sono parti inscindibili del mondo e parimenti necessarie. Si tratta di un ragionamento secondo il quale le catastrofi naturali sarebbero inviate dalla divinità per punire gli uomini per i loro peccati, ma non spiega il sacrificio degli innocenti, accomunati nel me­desimo destino assieme ai malvagi: una distinzione morale assai discutibile: qualcuno potrebbe obiettare che non esistono “innocenti” in senso assoluto, e che lo sguardo divino sa spingersi oltre nel tempo, oppure, al contrario, che nessuno è “colpevole”. Imputare al divino la responsabilità di una catastrofe significa comprenderla come realtà necessaria alla lo­gica dell’esistenza sulla terra, e sopratutto escludere il presupposto della “responsabilità” umana.

Ciò che non è imputabile al divino sono le catastrofi prodotte dall’uomo che, con palese ipocrisia, si definiscono “morali”, tra le quali si collocano i disastri colposi, altrettanto imprevedi­bili, come quello di Viareggio del 29 giugno 2009, o di Chernobyl dell’aprile 1986, che coinvolgono la tecnologia impiantata dall’uomo, ma che si presentano sotto la veste di un accadi­mento accidentale, il cui rischio di avve­rarsi è talmente basso da non essere preso in considerazione. Si definisce allora una “fatalità”, rendendola assimilabile a un fatto naturale. Perché il caso, quando sono state osservate tutte le prescrizioni previste dai protocolli della sicurezza – e, soprattutto, quando non c’è dolo – non può che essere ricondotto tra gli eventi “naturali” ineluttabili.

Avrà ragione Susan Neimann a individuare nel pensiero occidentale un qualche regresso, os­servando come oggi si tenda, più che in passato, a imputare alla natura gran parte delle responsabilità per ciò che accade nel mondo e che non riusciamo a impedire. Una probabile conseguenza della for­zata convivenza con la paura e della sua accettazione. Il che ci porta a riflettere che quando accadono eventi di una portata ben superiore alla comprensione umana, siano essi determinati dalla mal­vagità degli uomini, dall’errore colposo o da cause naturali, c’è la ten­denza a raccogliergli tutti sotto la comune categoria del “destino” o della “fatalità”: che ci sia o meno, dietro tutto questo, un dio crudele e vendicativo, una divinità complessa che distribuisce bene e male se­condo una ricetta ponderata, oppure un disegno casuale che colpisce senza senso, mietendo vittime innocenti assieme ai colpevoli, non ha importanza. L’importante è rimuovere la paura irrazionale e ricondurla a una forma conosciuta. Da una parte si giustificano le catastrofi naturali, imputandole a una volontà superiore che, a differenza dell’uomo, ne conosce le ragioni; dall’altra si riducono le catastrofi umane al rango di quelle naturali, per sottrarsi all’orrore e all’incredulità straziante del male. Così il cerchio si chiude in una perfetta simmetria.

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