Italiani all'Estero

Londra. La vita dietro quella porta Blu’ (Un giorno nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Cisanello di Pisa) di filippo baglini (www.italoeuropeo.com)

La vita dietro quella porta Blu’

(Un giorno  nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Cisanello di Pisa)

di filippo baglini (www.italoeuropeo.com)

Ci sono luoghi al mondo sospesi  tra la vita e la morte. Luoghi, dove non vorresti mai entrare, posti che tu pensi lontani dalla vita quotidiana, dalle urla, da quegli orgogli che riempiono le noie delle nostre vite. E invece quei luoghi sono anch’essi parte della vita, perché stranamente per un buffo scherzo del destino ci si puo’ ritrovare lì, in un luogo sconosciuto,  in un abisso talmente fondo che non riesci a capire quanto sia profondo il tuo mare.

Il reparto di rianimazione dell’ospedale di Cisanello di Pisa è uno di questi luoghi. Per apprezzare la vita forse bisognerebbe sostare anche solo per un giorno come spettatore in quel profondo abisso dove corpi sorretti da zattere metalliche galleggiano vicino alle sponde della morte, ancorati a tubi e alla vera essenza di essere umano.

Salendo le scale al primo piano dell’edificio 31B sopra il pronto soccorso di Cisanello, si ha subito l’impressione di entrare in una dimensione estranea alla nostra vita. Ci sentiamo spaesati lungo quei corridoi interminabili a scacchiera, si capisce subito che non siamo in un normale reparto di una corsia di degenza, ma in un posto silenzioso e isolato. Ci si ferma davanti a una sala di attesa piccola ma accogliente. Le sedie sono occupate da persone, altre hanno ancora l’orma calda di chi vi ha sostato. Alle pareti pendono ritagli di giornale e lettere di ringraziamento di persone che hanno affrontato quell’abisso, c’è anche un’ informativa per i familiari dove si spiegano i macchinari usati per i loro parenti che devono affrontare quel viaggio oscuro, spesso senza ritorno.

E poi davanti a te c’e un porta Blu.

Guardando e leggendo le carte alle pareti, ti viene da pensare che chi lavora in questo posto  non sta pensando solo ai malati, ma  anche  ai familiari, spiegando loro cosa li aspetta, proprio come una di quelle guide che si trovano ai musei, soltanto che qui si descrivono macchinari a cui sono attaccati i malati. Cosi, molte persone , spaesate e impaurite, si fermano a leggere su come e perché viene usato  quel particolare ventilatore artificiale per l’ossigeno o quella determinata pompa per infondere alimenti e farmaci. Un nobile tentativo di avvicinare il mondo da cui si viene al mondo dietro quella porta blu.

Questa sala di attesa io la identifico come un purgatorio, perche’, li ci facciamo tutti un esame di coscienza sulla vita in generale, ed e’ qui che si purgano i nostri egoismi e i nostri errori. Nella saletta  ci sono persone sconosciute, alcune sedute con lo sguardo confinato in un viso stanco, severo, immobile di chi  e’ mesi che frequenta quella stanza, altre persone invece aspettano fuori nel corridoio, intimidite, spaventate, con il viso irrequieto perche’ non sanno ancora nulla, sono i familiari dell’ultima urgenza. Poco dopo per una strana energia che si e’ creata, i familiari iniziano  a parlare, a sfogare il loro male e iniziano a consolarsi a vicenda, uniti dal solito filo di dolore, dalla solita sofferenza silenziosa, di avere un parente in coma, e le relazioni che si instaurano in questi posti difficilmente si dimenticano. Molti sono diventati amici per il resto della loro vita. Ecco che il dolore  come un coltello che si infila nel burro, taglia e pareggia tutto, e tutti si ritrovano ogni girno alla solita ora, nella solita stanza, a consolarsi, a chiedere notizie l’uno dell’altro,  chi per una figlia di sedici anni,  chi per il figlio di trentasei anni, chi per un marito,  e tutti appesi come delle marionette immobili tra la vita e la morte  a fili, tubi e cateteri.

Li in quel purgatorio, si capisce cosa conta veramente nella vita: la vita stessa. Lo sappiamo  tutti che la vita e’ importante, ma in quel posto lo si ricorda veramente e non solo con la mente ma con la sincerita’ del cuore. Li si parla poco, e quando si parla si usano solo le necessarie parole, perche’ e’ li che si percepisce l’odore amaro della morte.

In quella stanza, il lento scorrere del tempo logora. Si puo’ leggere sugli occhi di tutti quei familiari, l’orrore e la disperazione di essere stati inondati da uno  tsunami, il piu’ terribile, il piu’ inaspettato, perche’ quando un malato entra in rianimazione, il destino non ha colpito solo lui, ma anche la sua famiglia, che come cristo si deve prendere la croce sulle spalle e iniziare il suo calvario.

E chi lavora in questo luogo lo sa bene, e si preoccupa di informare e assistere non solo i pazienti lesi, ma anche i loro parenti che diventano a sua volta dei pazienti, molto spesso piu’ dei primi, visto le lunghe attese della malattia.

Poi ecco che un infermiere della tribu’ degli zoccoli, apre la porta blu’, e in fila come dei condannati i familiari eseguono il rito del lavarsi le mani, per non infettare, per non essere portatori sani di batteri killer. Pochi istanti e siamo dentro l’abisso.

Non tutte le rianimazioni permettono ai familiari di entrare e di dare una carezza al proprio caro. Quella in cui siamo  si chiama rianimazione aperta, voluta e cercata, dal suo capitano e dal coordinatore, il primo, e’il  primario il Dott. Paolo Malacarne, un uomo barbuto, silenzioso, apparentemente freddo, ma di una visione verso il malato e i suoi familiari rara e profonda. L’altro una persona poliedrica ,il Dott Nunzio DeFeo, di alta statura, energico, coordina ma senza imporre, l’uno si integra con l’altro, per armonizzare il gruppo, per creare un ambiente sereno nell’inferno quotidiano.

Ci siamo, è ora delle visite, la porta sia apre, si entra.

Per chi è la prima volta, ha l’impressione di entrare dentro una astronave, la scena sembra presa da un film di Stanley Kubrick, Odissea nello spazio, in realta’, qui e’ l’odissea in terra. L’abisso è davanti a noi in tutta la sua profondità anche se non lo vediamo fino in fondo. Ci sono dodici zattere con dei corpi sopra, ognuno attaccato ai propri macchinari che monitorizzano il viaggio, ma non ne danno le coordinate reali di dove sono, dove sono le loro menti, se hanno emozioni, se sentono o cosa sentono. Tutto sembra fermo, il tempo nella rianimazione si dilata e quasi non esiste, non si misurano piu’ le ore, ma per quei corpi il metro di misura sono i mesi e  gli anni. Tutto si distorce come in un’ equaizione di Einsten, soltanto che lo spazio e il tempo si dilatano o si accorciano senza una precisa costante, senza un preciso senso razionale.

Il colore blu e celeste abbonda ovunque anche sulle divise  dei medici ed infermieri tutti uguali, tutti in divisa blu, indistingubili, nessuno ha il camice bianco neanche il capitano barbuto, infondo come ho già detto questo non è un reparto come gli altri.

Questo è un reparto speciale sotto ogni punto di vista, unico nel suo genere, si fa rianimazione  ma in un modo umano, rilassato, sereno, nonostante sia questo un reparto dove i malati stanno in un limbo sconosciuto, in un’intersezione, che non so come la definirebbe Dante, ma io quell’intersezione la definisco, luogo della non vita e della non morte.

Un paziente in coma o semi vigile, attaccato ad un respiratore e’ in un luogo ignoto, in un abisso dove la scienza ancora non è arrivata. L’impressione che si ha è che abbiamo l’essenza di un corpo che imprigiona ogni volere, per i familiari è come vedere il proprio caro trasformato in una regressione mentale e fisica tanto da ridurre il corpo di un uomo a un bambino di pochi mesi.

Ti guardi intorno e vedi un continuo e perpetuo lavoro di infermieri e medici, tutti dediti su quei corpi,  un infermiere a letto, e ogni infermiere ha due pazienti , li lavano quotidianamente, li puliscono, li improfumano, per dare anche in quello stato una dignita’, sono sempre e comunque persone, anche in quello stato.

La straordiaria squadra  blu lotta ogni istante per la vita del paziente, per mantenerlo in vita, per ridargli una speranza di vita.

Vita mi direte voi? Che vita c’e’ dentro un reparto di rianimazione?

Vi rispondo dicendo che c’e’piu’ vita in quel reparto, dietro quella porta blu, che in una discoteca il sabato sera.

Qui si ha il rispetto per la vita, anche se e’ attaccata ad un respiratore, anche se il paziente apre gli occhi ma non e’ connesso con l’esterno, perche’ ancora ancorato in quel mondo sconosciuto, anche se c’e’ un’ora di vita, si lotta per farla diventare un giorno in piu’, e quei medici tutti insieme si stringono per farsi forza e fare forza al paziente e ai familiari.

Ed ecco che allora una bambina si aggrava, non c’e piu nulla da fare, ma si deve tentare  anche l’impossibile perche’ tra le mani di quei sanitari c’e’ un corpo, che ha sorriso, pensato, pianto, e la missione e’ di provare a ridare un sorriso a quel corpo. Non c’e’ piaga piu’ atroce e sollievo piu’ grande, vedere un padre che piange singhiozzando per sua figlia che sta muorendo, e dopo poco sentirsi dire, -e’ ancora in vita grave ma in vita-, e rivedere il solito podre, abbracciare e piangere tra le braccia dei medici. La speraza la dove si puo’ dare si deve dare.

In questo particolare reparto di rianimazione di Pisa non ci sono medici e infermieri piu’  bravi di altri, la cultura medica più o meno è la stessa di tutti. Nemmeno  si credono di essere Dio, nonostante abbiamo la vita delle persone in mano tutti i giorni, ed e’ proprio per questo che sono ben consapevoli dei limiti umani.

La loro straordinaria bravura stà nell’approccio con cui curano i pazienti, nella passione con cui fanno il proprio lavoro, e questo non si impara da nessuna parte, in nessun libro di medicina,  lo si ha dentro nel cuore, forse lo si eredita dall’albero familiare, ma il più delle volte si ha dentro, e un’ottimo coordinamento  di un gruppo fa si che questa passione e dedizione possa venire fuori e collimare perfettamente con la rigida e tradizionale medicina verso il paziente.

Ed ecco allora che un reparto di rianimazione diventa un luogo aperto, un posto nel quale si convive bene con la vita e la morte, un’oasi dove i familiari non sono lasciati in quella solitudine logorroica e carnefice che porta alla distruzione prima interiore e poi fisica, ma diventano parte integrante della rianimazione. Vengono tenuti aggiornati costantemente della situazione dei loro parenti e sono liberi di interagire con i medici e infermieri anche nel raccontare loro chi era prima quella pesona, cosa faceva, le sue emozioni, le sue passioni.

Nella rianimazione del pronto soccorso di Pisa non si curano solo i pazienti ma ci si preoccupa anche dei loro familiari, li si accompagna dentro la malattia, li preparano a convivere  con essa e alle conseguenze drastiche che essa può portare nel futuro, li si fanno capire che si può, anzi si deve, continuare a vivere anche nella malattia. E quindi non stupisce se un padre con gli occhi lucidi abbraccia il medico per più di un minuto e  bacia un’infermiera se gli salvano per un giorno in più la sua bambina.

In questo reparto colpisce l’umanità.  Non ho mai visto un malato lasciato solo più di cinque minuti, c’è sempre qualcuno che ronza in quell’isola infelice, ma nella quale c’è spazio per un caffè, per un sorriso, per un dialogo sereno tra colleghi, e il tutto naturalmente davanti ai malati appesi ai tubi. Dico naturalmente perché questo è il modo naturale  con cui si svolge la giornata in questo reparto diretto da Malacarne, uomo di poche parole certo,  ma quando le usa sono ben pesate, mirate e concrete proprio come facevano i profeti di un tempo,  un primario che ascolta e viene ascoltato ma non solo per la sua autorevolezza, ma proprio per la sua capacità di tendere un orecchio, e ben  consapevole di avere un gruppo straordinario, preparato e umano.

L’efficienza di questo reparto lo pone tra i migliori d’Europa, e il migliore di Italia, per il numero di posti letto, per il  rapporto tra medici e familiari,  per il clima che si respira nonostante la gravità delle situazioni che si vivono su quei letti.

Mi guardo intorno, i malati sembrano dormire, tutti tracheotomizzati, il movimento dei tubi scandisce il ritmo dei respiri, ad un tratto si sente un suono, un- bip – che spaventa  un familiare i loro occhi cercano pace in un infermiere che subito arriva come un santo a placare una normalità  tecnica, poche parole per una spiegazione e sul viso preoccupato della donna ritorna una espressione serena,  e lo sguardo pietoso ritorna su suo marito apparentemente dormiente da oltre un mese, in realtà in coma per un incidente stradale. Un uomo grosso immobilizzato  con il corpo legnoso, una vita immobilizzata, muta, inespressiva, sua moglie lo chiama, ma lui sembra essere lontano, in un’altro posto, l’unica cosa che si muove è il petto animato dall’ossigeno forzato dentro ai tubi.

Un autore scrive nel suo libro, che in rianimazione -la vita è lunga quanto il tubo che ti connette ad un respiratore-, ed è proprio così,  questa è la verità, qui  sta tutta l’essenza in tutta la sua crudeltà. E davanti a quell’uomo mi chiedo che vita e’ quella.

Molte volte mi ero fatto questa domanda quando leggevo articoli dei miei colleghi che parlavano di malati terminali, non ho mai trovato una vera risposta perché non avevo mai visto con i miei occhi. Ora sono lì, davanti a quell’uomo, lo guardo,  avverto tutta l’angoscia di quel malato grave, la leggo sul monitor  e la vedo nei respiri lenti e sul volto di sua moglie.

Qui penso alla vita e al suo senso, mi viene naturale questo filosofico pensiero, perché non so se davanti a me ho una vita o un’altra cosa, e se un’altra cosa, che cosa? Cosa si intende per vita? Un respiro soltanto, o la capacità di comunicare, parlare, ridere.  Se si parla di respiri  quelli ci sono sempre, cambiano le componenti, che in un caso sono molte nell’altro sono poche, quasi nulle.  E allora? E’ vita stare attaccati ad un respiratore con la dignità pur curata, ma ridotta al minimo?

Qui non siamo in situazione di accanimento terapeutico o di casi di eutanasia estremi, eppure anche quei corpi fanno rabbia, tristezza, c’e la voglia di gridare – basta, facciamola la finita- la nostra impotenza li davanti, ci farebbe staccare la spina, perche’ anche nella speranza in questi casi c’e sempre l’amarezza dell’abbandono e il non desiderio di vedere in quello stato un familiare. E allora?

Mi sono risposto con un’altra domanda, se i medici lottano per dare anche quella minima dignità, con tutta la determinazione e passione , se non avesse senso, cosa lo farebbero a fare? Mi sono convinto che anche in quella infernale situazione  la vita sembra essere più forte della morte, quei fili e tubi trattengono con forza la vita come un cane trattiene il suo osso tra i denti.

Il cuore batte, i polmoni reggono, anche se il cervello non è presente, ma nessuno sa realmente se qualcosa passa di là dal muro, nessuno sa se in quel forzato dormire cosa si percepisce e come si percepisce.  Il dubbio logora la ragione, e la ragione vorrebbe soffocare la speranza in questi casi, vorresti lasciare quel corpo andare alla deriva, ma non lo si fa, almeno in questo caso, si lotta, si cerca di fare del pensiero della morte una speranza di vita.

Sono pochi quelli che tornano con le proprie gambe a ritrovare gli angeli blu del reparto, ma quei pochi sicuramente non avrebbero potuto ritornare se erano lasciati andare alla deriva. Le situazione critiche, le diagnosi di persone che rimangono in stato vegetativo o su una sedia a rotelle dopo aver passato la rianimazione, sono i casi più frequenti e terribili che farebbero pensare che sia giusto staccare tutto prima, perché un corpo perso in un letto non è vita, ma quello che ho capito in questo reparto, sarà il clima speciale  che trabocca dal gruppo e dal suo coordinatore, e’ il senso della vita anche sul punto  di morte.

Sono stato una giornata intera dentro una rianimazione, più vicino alla morte di quanto fossi mai stato prima, ho visto anche morire, e nonostante tutto ho confermato che la vita va vissuta fino in fondo anche attaccato ad un respiratore perché la vita è degna anche in quel momento, finche il tamburo battente suona la sua musica, bisogna lottare. E per quanto riguarda la morte, bé, potrebbe sembrare uno spreco, ma come diceva la Fallaci, anche senza quello spreco di morte non ci sarebbe la vita.

Dedico questo articolo al primario di rianimazione di Cisanello di Pisa il Dr. Paolo Malacarne, al  coodinatore Dr. Nunzio De Feo, al Dr. Paolo Maremmani, alla Dr.ssa Marzia Corini, – Beati Tiziano,Bergamasco Stefano,Bertolini RobertaGiusti Ferdinando, Maggini Chiara, Martelli Maria,Peci Carmela,Pini Silvia,Pozzi Elena (incarico T.D.), Sbarbaro Catia,Simoni Piero Viaggi Bruno

Agli infermieri Barbara zampetti, Alessandro Taccini, Alberto Manfredi, Carmen Franzè, Alessandro Ciattaglia, Simona Sanfratello, Cristina Ballantini, Fabio Giannelli, Massimo De Felice, Cristina Galardini, Ilaria Maggini, Roberto Vierucci, Ilaria Ali, Nicoletta Bertelli, Sonia Barsotti, Paola Lupi, Antonio Patalani, Gianni Selvaggio, Cristina Pizzi, Cristina Lencioni, Carla Fiorentini, Federico Stefani, Marco Santerini, Veronica Panetti, Cinzia De Cusatis, Cristiano Cappelli, Simona Collegiani, Cristina Cannavò, Mara Ceccarelli.

Agli operatori di Supporto Fabio Lazzereschi, Rossi Monica, Pinto Pia.

Filippo Baglini direttore del magazine italoeuropeo di Londra

Dedico questo articolo al primario di rianimazione di Cisanello di Pisa il Dr. Paolo Malacarne, al  coodinatore Dr. Nunzio De Feo, e a Tutto il personale medico ed infermieristico che ha curato e assistito il paziente BAGLINI ORLANDO e gli hanno fatto rivedere il mondo.

– Filippo Baglini -Cinzia Cerbino (www.italoeuropeo.com magazine in London)-

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