Storie fantastiche dal cratere aquilano La passeggiata di Luigi Fiammata
Storie fantastiche dal cratere aquilano
La passeggiata
di Luigi Fiammata
L’AQUILA – 7 marzo 2013 -Il passo del padre aveva il respiro corto, da fumatore consumato. Il passo del figlio era un volo di rondine leggera. E camminavano insieme, dentro il muro ispessito di una domenica mattina ancora deserta. Risalivano dalla Villa Comunale, verso Corso Federico II.
Enrico, il padre, guardò Massimo, il figlio, fermandosi sull’angolo del Grande Albergo. E posò la mano, macchiata di vecchiaia, ma ancora ferma, sulla spalla di Massimo, che strinse leggermente. Massimo smise di camminare, e s’accostò al padre. Enrico sorrise.
“ Non mi sono mai piaciuti, i funerali. Troppo dolore. Troppa gente che sta lì solo per vedere chi altro c’è, e per farsi vedere. Quasi tutti ansiosi di baciare i parenti più stretti e andarsene il più presto possibile. “
“Papà, scusa, che c’entrano i funerali, adesso? “
“ C’entra, il funerale, perché, stamattina, facciamo una passeggiata sulla strada del mio funerale. “
“ Papà! Smettila! Non le voglio neanche sentire queste cose … Siamo usciti per comprare le paste…”
“ E ci arriviamo, a comprare le paste. Però tu adesso ascolti bene tuo padre. Perché a qualcuno devo pur dirlo quello che voglio quando sarò morto. Da morto, mica te lo posso dire quello che voglio, no? “
Sembrava quasi uno scherzo. Ultimamente però accadeva sempre più spesso che Enrico si lasciasse trasportar via da qualche pensiero laterale; Massimo, decise di assecondarlo. Pensava che, in fondo, una mezz’ora di predica, avrebbe finito col somigliare a quella che faceva finta di ascoltare mentre ogni mattina, in auto, il padre lo accompagnava a scuola, trent’anni prima. E, come allora, avrebbe guardato la strada sentendosi addosso ancora il calore delle coperte e del latte caldo col miele, lasciando la voce del padre a galleggiare nell’aria, come una eco lontana. Fin quando non fossero arrivati al negozio; con la scelta delle paste dolci da comprare, sarebbero tornati entrambe alla domenica, e al suo familiare incombere.
“Questa strada che adesso iniziamo a percorrere, vorrei fosse la passeggiata del mio corpo morto. Mettetemi su una macchina, così non peso a nessuno. E dietro la macchina fatevi questi stessi passi. E ti farò l’elenco di quelli che al mio funerale non ci devono venire. Ma proprio non ce li voglio, capito?”
“Papà, ma come si fa a dire a qualcuno che non deve venire ad un funerale ?”
“Tu non preoccuparti. Io ti faccio l’elenco, e scrivo una lettera, e la firmo. Tu ne fai le copie, e, quando è il tempo, la consegni agli interessati. Immagina tu, se con certa gente io mi dovessi fare pure l’ultima passeggiata per L’Aquila. Un insulto. Sulla lettera ci scrivo che la loro presenza non mi è gradita, e vedrai che gli faccio pure un favore. Ma soprattutto …”
“Soprattutto?”
“Soprattutto tu oggi devi vedere bene quello che devi seppellire con me. Guarda bene!”
“ E che dovrei guardare, papà?”
“Guarda quello schifo di palazzo che si regge in piedi per scommessa, con i pilastri di quasi-cemento puntellati. Ma ti pare possibile aver costruito quella monnezza proprio all’inizio del Corso? E ci hanno messo sotto pure il distributore di benzina …”
“Papà … ma li ci abitavano persone, i loro affetti … hanno perso tutto …”
“Non me ne frega niente; non è questo il punto. La prima cosa che devi seppellire con me, è il muschio della nostalgia. Va seppellita, la nostalgia. Non il ricordo. La nostalgia. Quel palazzo era l’osceno esempio di come si sfigura la città. L’inizio del Centro Storico violentato dal boom economico dei palazzinari. Speriamo almeno che lo abbattano, e se proprio lo devono ricostruire, che almeno non sia dov’era e com’era. Che almeno abbiano pudore. Che almeno non ci sia più il distributore di benzene cancerogeno. Abbi cura di seppellire con me ogni offesa alla bellezza. E sii intransigente su questo.”
“ E poi … guarda …”, disse Enrico indicando il bar del Grand’Albergo.
“Dentro quel bar capitava d’incontrare assessori regionali che, nella sala in fondo, quella che adesso si regge solo grazie ad un’impalcatura, si fermavano ad aggiustare le cose … a costruire leggi su misura. Come quella degli incentivi per i capannoni industriali.”
“Che vuoi dire papà?”
“Che con me devi seppellire tutta la voglia di aggiustare le cose di questa città: chi “aggiusta” le cose impedisce che crescano le foglie sugli alberi, con la puzza mefitica del suo alito da mediatore d’affari. Le cose devono confliggere; fare a botte alla luce del sole. Spero che quando rimetteranno a posto quella sala, con la sua aria liberty, la usino per insegnare a ballare il charleston, e che la notte, lì dentro, sia tenera davvero. Altro che assessori.” Enrico prese Massimo sotto braccio. Pur sapendo quanto il figlio fosse restio a gesti confidenziali. E lo spinse a fare qualche passo.
“Guarda, al cinema danno ancora “Gli amici del bar Margherita”, e lì dentro ci sono due cose che devi seppellire con me”.
“Una tazzina di caffè; cappuccino e cornetto?” disse Massimo, provando a stemperare la foga del padre.
“ No. Non fare lo scemo. Il cinema era proprietà di Istituzioni Culturali. Un monumento vivo. E con me devi seppellire l’idea che la cultura non si mangia e l’idea di istituzione culturale, con il suo carico di consigli d’amministrazione, prebende e sottogoverno, direttori e presidenti. Altrimenti quel cinema rimarrà per sempre il rudere che è adesso. La cultura è una cosa che ride e che piange; non è questa rovina grigia, e non è il finto decoro conformista che tanti aquilani portano a spasso quando vanno a teatro.“
“Papà, non c’è più il palazzo della Provincia; si vede persino la chiesa di Sant’Agostino …”
“Sarebbe quasi bello se restasse così. Almeno non ricostruiscono più la sede degli Studi sulla Resistenza, visto che a governarla c’era uno che scrive che l’ascesa di Hitler era dovuta alla Rivoluzione sovietica; come a dire che il nazismo è figlio del soviet … Ecco! Un’altra cosa da seppellire con me. L’idea che la storia sia un calzino da rivoltare ogni quindici giorni, con l’unico scopo di giustificare il privilegio continuo dei forti, e la violenza. Con l’unico scopo di conservare il potere per quelli che lo vorrebbero esercitare senza democrazia. Piegando quelli che hanno sempre subito. L’idea viscida di una storia da riscrivere. L’idea che bisogna tornare a prima dell’Illuminismo. Seppelliscila profonda con me! “
“ E seppellisci con me pure la viltà di quelli che non hanno alzato la voce, di quelli che portano le corone dei fiori ai monumenti con la noia addosso. Che ci sia musica e festa il 25 aprile. Perché è nata la Libertà allora. E solo per merito di quelli che hanno combattuto dalla parte giusta. Non di altri. Ogni giorno è festa, da allora! “
Massimo capì che il padre si stava perdendo dentro una pena profonda e lo strinse un po’ di più a sé. E lo fece camminare veloce sotto il tetto di tubi di ferro, gocciolanti di vecchia pioggia lacrimosa. La galleria artificiale di Corso Federico II, che cancella il cielo e protegge dalle tegole. Gli occhi di Enrico e Massimo si alzarono verso la nuova sede della Prefettura, e verso la Banca d’Italia. Prossima riapertura in Centro di funzioni direzionali, dalle otto del mattino alle cinque la sera, salvo straordinari. Enrico e Massimo si fermarono sull’angolo di piazza del Duomo.
“ Ecco, prendi appunti. Qui c’è un sacco di roba che dovrai mettere nella mia bara. “ Enrico prese fiato, mentre con lo sguardo percorreva l’intero perimetro della piazza, cercando di ricordare tutto quello che aveva nello stomaco.
“Allora, dentro il mio catafalco ci devi mettere le chiacchiere di piazza. Quelle di chi pensa che è più importante conoscere l’ultimo pettegolezzo che non avere una propria opinione. Una cosa che ha incancrenito le colonne di capo piazza. “
“Ma papà, dai … non fare il moralista …”
“Non hai capito. Non c’è nulla che abbia a che fare con la morale, in quel che dico. Tu, seppellisci questa roba con me, e basta. Il pettegolezzo dei furbi che cercano protezione. E quando sarò sottoterra, con tutto quel che ti chiedo, forse allora scoprirai perché te lo chiedo. “
“ E guarda, Massimo. Li vedi tutti questi negozi chiusi? Svuotati di ogni merce, serrande chiuse, vetrine nude, insegne spente e a pezzi … li vedi? “
“Certo che li vedo, papà. “
“Ecco, sono gli stessi negozi che non si sono mai chiusi per un giorno intero quando c’erano le manifestazioni dei Lavoratori che volevano tenere le fabbriche aperte; ricordatelo. E seppellisci con me il loro stupido egoismo da bottegai. Che pensavano che tanto non toccava a loro; che pensavano, insieme ad altri rancorosi, che con tutte quelle donne andate a lavorare in fabbrica non si riusciva più a trovare la servitù. “
Enrico iniziò a tossire, e chiuse per un momento gli occhi; le orecchie riempite di silenzio e del ricordo dei tamburi di latta. Respirava a fatica, come se l’enorme spazio aperto della piazza si chiudesse per tutti i rifiuti, per tutte le parole inutili, per tutte le piccole frenesie di distinzione, per tutte le assenze mai giustificate. Smise di tossire, e riprese a parlare, piano, quasi un sussurro, mentre spingeva Massimo sotto i portici.
“Guarda lì. Lì, al primo piano, c’era il Circolo dove si giocava a carte. Nella bottega mia da falegname ci avevo costruito i tavolini da gioco, di legno, con i cassetti verniciati di nero e un numerino rosso sopra. Lì non ci potevano entrare quelli del contado, o della provincia. Solo gli aquilani. Solo gli aquilani di buona famiglia. Che è il modo migliore per far morire un luogo. Chiuderlo agli altri. Come L’Aquila, che dovrebbe restar chiusa. E tu seppellisci con me tutto quello che chiude. Chiavi, divieti, pregiudizi, pigrizie …”
“E dai, papà … tu sei un vero pigro …”
“ Per questo ci starò bene nella bara! “
E risero, padre e figlio.
“Guarda. Guarda bene questo posto; la sede della Banca. Quella che serviva a tenere aperti i conti improponibili di certi imprenditori edili; conti così scoperti che la Maya Desnuda sembra una suora, al confronto. Imprenditori, però, tanto amici di certi onorevoli e sindaci, e che per questo avrebbero avuto a disposizione qualche variante di Piano Regolatore, o qualche Piano della Ricettività che avrebbe rimesso il bilancio a posto, sfasciando la città. In nome dello sviluppo, s’intende. Ecco. Più che mai oggi, seppellisci con me le complicità tra politica finanza e mattone in questa città, e le favole che nascondono l’abuso edilizio con la necessità e con la finta creazione di finti posti di lavoro. Fin quando la Banca poi s’è persa, a forza di andar dietro alle macchine del consenso. E se la sono comprata altri, e a L’Aquila tra un po’ neanche l’ufficio paghe ci lasciano.”
“Papà, e dei cinema chiusi lungo questa strada non mi dici niente? “
“E che vuoi che ti dica, Massimo. Tre ce ne sono di cinema chiusi lungo il percorso del mio funerale, a parte il Cinema Massimo, che ti ha rubato il nome … In tanti li hanno uccisi. Ma, soprattutto li ha uccisi la nostra incuria; la nostra indifferenza verso qualsiasi luogo che ci faccia incontrare. Non devi mettere niente nella mia bara, per questo. Magari guarda meno film in tv. “
“ E adesso, aiutami: senza farci vedere dai soldati a guardia del nulla, dobbiamo spostare le transenne del Corso Stretto. Il mio funerale deve andare dritto, senza deviazioni. “
Massimo ed Enrico, camminarono piano attraversando i Quattro Cantoni, e con un improvviso scatto si infilarono nello spazio tra il muro e le barriere metalliche, dal lato in ombra, e, dopo i primi passi veloci per sottrarsi alla vista dei militi, ripresero a camminare piano. Enrico ansimava.
“Ecco, guarda qua gli altri negozi. Lo sai chi ci lavorava dentro?”
“I padroni, papà, le commesse …”
“Sì, ma ci lavoravano anche una strana specie di padroni, e non solo in questi negozi qui, ma anche in tanti altri lungo il Corso; gli Associati in Partecipazione. Strani padroni che, dal lavoro del negozio, percepivano gli utili. Utili sempre più bassi di un normale stipendio … senza ferie o pagamento di malattie.”
“Insomma una finta.”
“No, una cosa che devi seppellire con me. L’idea di tanti in questa città, che un lavoro motivato, di qualità, corretto nelle regole, non sia un modo di crescere tutti, di fare le cose meglio.”
“Ma questo non succede solo a L’Aquila, papà …”
“Sì, però se lo sommi alle macerie, il carico da portar via non finisce mai! “
Procedevano in silenzio, ora, Enrico e Massimo, distanziati di qualche passo, la testa bassa, ad ascoltare i piedi sul selciato sbreccato, diseguale nel seguire le onde del terremoto, finché non arrivarono a Piazzetta Regina Margherita, dove si fermarono insieme, senza dirselo, e rialzarono lo sguardo.
“E ora, Massimo, quando il mio funerale arriva qui, si deve sciogliere. Io, con tutto il mio carico dentro la bara, fino al cimitero ci devo arrivare da solo. Voi andate a far festa al Boss. Ti perdono in anticipo se, per una volta, esagererai. E spero che allora avrai capito perché ti ho chiesto di seppellire con me tutta quella roba. Ci sono cantieri che lavorano in questa piazza. Magari, per quando sarò morto sarà diventata bella, e viva. E attento alle parole che uso. Diventata, e non tornata.”
“Forse ho già capito papà.”
“E allora andiamo a comprare le paste, da quella parte, in via Garibaldi”.