L’Aquila. Storie fantastiche dal cratere aquilano Dialogo di un autista del bus e un passeggere di Luigi Fiammata
Storie fantastiche dal cratere aquilano
Dialogo di un autista del bus e un passeggere
di Luigi Fiammata
L’AQUILA – 6 aprile 2013
– Posso salire ?-
– Certo che può salire … perché avrei aperto le porte altrimenti ? –
– E’ che sono senza biglietto … è sabato mattina; non sono ancora le otto e non ho trovato nessun posto aperto per comprarlo… –
– Salga lo stesso. Tutti i viaggi si pagano, però. Vuol dire che, quando arriva a destinazione, ne compra uno per questo viaggio gratis, e un altro per il prossimo viaggio che farà. E, la prossima volta che sale sul bus, ne timbra due. –
Giuseppe salì così sul bus arancione, più o meno dalle parti di Cansatessa. Il bus era completamente vuoto, e avrebbe potuto sedersi ovunque. Decise però di restare in piedi, accanto all’autista. C’è un punto di vista diverso tra chi guida, e chi si fa portare. La prospettiva cambia. Dal posto di guida le strade sembrano affilate punte di freccia; come se ci fosse un bersaglio da raggiungere. Le pareti dei palazzi lontani si restringono, a guardarle. Dai finestrini laterali invece, tutto scorre addosso. Lasciando macchie di colore veloce negli occhi, che, solo al ricordo, si trasformano in automobili, persone, biciclette, incroci stradali. Come fossero un sogno che scompare al primo pensiero razionale del mattino.
Via Antica Arischia era spoglia e assente. I rami degli alberi, ancora nudi per il ritardo della primavera, imitavano il disegno delle crepe sulle mura dei palazzi vuoti. Il bus sobbalzava sulle buche della strada, come un cuore strattonato. Giuseppe ruppe quel silenzio cigolante, lasciandosi sfuggire ad alta voce un pensiero che non voleva essere ascoltato.
– Certo che paghiamo proprio tutto. Anche questa imitazione di vita … –
Erano all’altezza di via Dante Alighieri, in quel momento. E sembrava quasi di sentire l’odore di quel cemento tornato polvere e ruggine in un attimo, inghiottendo un intero piano dei palazzi, come un cavallo abbattuto nella corsa, le zampe di colpo fragili, spezzate. E l’autista rispose:
– Lei forse dovrebbe chiedersi se, in ogni caso, non sia giusto pagare comunque il prezzo, al respiro del vivere. –
– Come può essere giusto pagare, e continuare a pagare, la paura, il dolore, la perdita? –
– Lei, io, tutti. Paghiamo perché ci siamo. Perché siamo ancora qui. Senza merito, certo. Solo perché siamo vivi. Però siamo vivi. E sentiamo la paura, e sentiamo il dolore, e sentiamo la perdita. Ma possiamo anche. Possiamo fare, dire, costruire, amare ancora, ridere, avere memoria, imparare, inventare. Paghiamo per la possibilità. –
Giuseppe strinse i pugni. La rabbia di ogni cosa venuta dopo. Il senso di colpa per essere ancora vivo. Per non aver mai fatto abbastanza.
– Non c’è giustizia. Lei si sbaglia. E non c’è più nessun prezzo da pagare, se hai perso un amore. Se hai perso una casa. Se hai perso un lavoro. Sei hai perso una strada dove ascoltavi gli occhi e guardavi parole amiche. –
L’autista ascoltava Giuseppe quasi sorridendo; senza distogliere lo sguardo dalla strada, guidando con gesti precisi. Lenti.
– Ha ragione. In parte. Ma guardi quella scuola adesso; ancora chiusa, ancora con i mattoni caduti abbandonati a terra …-
– Non mi ricordo neanche più come si chiamava, quella scuola … – lo interruppe Giuseppe.
– Non importa. E’ importante invece che quei bambini si siano ritrovati. Che ci siano maestre ad insegnare loro. Che ci siano bidelli che aiutino e puliscano. Che i bambini possano prendersi in giro tra loro e mangiare la merenda … –
– Sì, dentro un prefabbricato: Modulo a Uso Scolastico Provvisorio. Persino la lingua, hanno corrotto. Come si chiama un’aula? “ Area Didattica Insonorizzata “ ?
– E’ vero quel che dice. Ma pensi al silenzio. E pensi invece alle voci dei bambini che rimettono i quaderni nello zaino per tornare a casa. E pensi che anche dietro una finestra di plastica si possono vedere gli uccellini sui rami degli alberi e volare via con la fantasia. –
– Ma meriterebbero molto di più quei bambini … –
– Certo, e noi possiamo darglielo. Noi dobbiamo darglielo. Paghiamo il prezzo per poterli guardare tra vent’anni negli occhi e dire loro che abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Non una cosa di meno. –
Avevano oltrepassato l’edicola, ora. E sullo stesso lato della strada Giuseppe guardò per un attimo le antenne poggiate sul tetto del palazzo dove abitano le aziende di Call Center. E ricordò quel giorno, quando nell’estate del 2009 camminava nei pressi della rotonda appena costruita per il carnevale del G8 a L’Aquila. C’era una manifestazione delle persone che lavoravano in quel palazzo verde e grigio. E Giuseppe ricordava il poliziotto in borghese che, da poco lontano, filmava tutto con la telecamera, mentre i lavoratori erano stati bloccati, dai poliziotti in divisa, all’inizio di viale delle Fiamme Gialle. Tre chilometri prima della sede della Prefettura, allora, come oggi, all’interno della caserma della Guardia di Finanza, dove volevano andare a parlare con qualcuno per provare a difendere il proprio posto di lavoro. Per protestare contro l’azienda che voleva chiudere e andar via. Erano da soli, quei lavoratori. Senza città intorno. Senza le facce importanti che si vedono solo quando c’è pronto un fotografo dei giornali , e si ascoltano solo quando non c’è più niente da dire. E ricordava, Giuseppe, i computer ammassati fuori dall’azienda, per terra, di fianco alla grande ferita del terremoto sull’asfalto nero, sollevato come la cicatrice di una frustata.
– Ed è giusto che paghiamo il prezzo per tutta la democrazia che ci hanno tolto; per tutto il lavoro che non c’è; per tutta la propaganda che ci ha usato; per tutta la violenza di tutti i poteri che volevano, e vogliono, comandarci, invece di governare? –
Alzò la voce, Giuseppe.
L’autista ebbe un sussulto, come un brivido di freddo.
– Sì. E’ giusto che lo paghiamo questo prezzo. E per due ragioni. Prima di tutto, perché anche tra noi ci sono stati e ci sono i complici, e gli ignavi. Quelli che hanno permesso che succedesse tutto e hanno applaudito, e hanno provato ad ingrassare. E quelli che hanno pensato soltanto alla propria convenienza piccola. Questo è un prezzo per riparare alle offese. E poi perché è importante pagare il prezzo dell’ingiustizia da combattere. Mantiene una candela accesa quando è notte e tira vento. Altri possono vedere la luce e avvicinarsi al calore. E’ importante. Il fuoco va difeso e condiviso, e regalato. E questo è il prezzo che si paga per illuminare la strada di chi viene dopo di noi. –
Giuseppe restò in silenzio. Giusto il tempo di passare al fianco dei cavalcavia autostradali, che ferivano il fianco della montagna. E l’autobus si fermò al semaforo rosso di Santa Barbara. Il quartiere morto. E disse allora, all’autista, duramente:
– E c’è un prezzo che è giusto pagare anche per un quartiere che prima era costruito di case eguali e da domani ognuno sceglierà invece case ricostruite tra loro diverse, senza che nessuno più si riconosca ? – L’autista si passò una mano tra i capelli bianchi. E rispose a bassa voce.
– Vede. Noi uomini distruggiamo e siamo capaci di costruire. Gli angoli, le mura, le piazze, sono le quinte teatrali della nostra storia, e, curiosamente, spesso, alla bellezza delle scenografie, corrispondono storie che vale la pena vivere. Così come siamo anche capaci di vivere storie bellissime in luoghi orribili. Dipende da noi. Soltanto da noi. Anche quando hanno fatto le leggi sbagliate e in ritardo. Anche quando non le hanno fatto, le leggi. E persino quando hanno fatto le leggi solo per favorire l’interesse di pochi. Anche allora, dipende solo da noi. Cambiare le leggi, si può. Usare bene le leggi, si può. Pensare a noi, invece che solo a me, si può. E’ il prezzo che si paga per il futuro. Per una panchina sotto un albero dove un ragazzo e una ragazza si daranno un bacio la prima volta. E’ il prezzo che si paga per qualcosa che somigli alla bellezza che rimane. Solo la bellezza, rimane. Sta a noi immaginare la bellezza e scolpirla. Anche dentro la follia che ci vorrebbe tutti servi superficiali di un’opera da due soldi. –
Il bus riprese a camminare, passando a fianco degli edifici tristi e vuoti che una volta erano il Parco Scientifico e Tecnologico d’Abruzzo.
– Vede ? –
Disse Giuseppe.
– Ecco lo sperpero delle persone e dell’intelligenza. Dentro quei capannoni c’erano una volta tanti giovani con la speranza d’aver incontrato la possibilità di continuare a studiare producendo idee da realizzare come impresa. E non se ne è fatto nulla. Se non soldi buttati via e raccolti da mani furbe: è questo il prezzo che dovremmo pagare alla possibilità ? –
– Conosco poco, di quella storia – replicò l’autista – ma immagino che il fondamento di quella esperienza fosse giusto, e, come troppo spesso succede, piegato poi ad altri e corposi interessi. Però, vede, allora, come oggi, abbiamo bisogno del sapere. Abbiamo bisogno che il sapere sia libero e che si misuri con la realtà. Ci si scontri, ci si incontri. Abbiamo bisogno che il sapere la renda migliore la realtà. Provando e riprovando. Perché noi siamo anche errore. E certe volte, il prezzo dell’errore può essere la crescita. Il progresso. E’ bella, questa parola: “ progresso”. Perché apre la porta ai passi che il sapere può camminare per portarci avanti, oltre. E’ fatica, il progresso. E noi possiamo e dobbiamo permettere al sapere di portarci dove non siamo mai stati. –
Percorrendo le curve dello Stradone, l’autobus stava per arrivare a San Francesco. E Giuseppe si preparava a scendere. Era stanco di quel breve viaggio. I suoi occhi erano stanchi di guardare il disordine senza immaginazione, accumulato dal tempo, sciattamente. Era stanco di tutta quella trascuratezza che lo accompagnava da anni, in città. Da prima che il sei aprile peggiorasse tutto. E, mentre chiudeva la cerniera del giubbotto, l’autista gli chiese:
– Ma lei le ha viste, le rondini questi giorni? –
– Sì. Le ho viste, perché? –
– Sono tornate, anche quest’anno. Dovrebbe essere sorprendente, che siano tornate. Che abbiano riconosciuto i luoghi. Tanti palazzi non ci sono più. Le gru dei cantieri che si alzano in cielo. E troppe costruzioni nuove … Eppure sono tornate. Non se lo è chiesto, il perché? –
L’autista proseguì a parlare, come se ormai parlasse solo a sé stesso.
– Forse sono tornate anche quest’anno, nonostante noi, perché questo luogo è prezioso per loro. Perché qui ci nascono. Perché qui respirano un’aria segreta che gli ricorda di quando sono nate la prima volta, migliaia e migliaia di anni fa. Perché qui vedono i loro primi voli e il cielo che possono conquistare. Perché qui imparano a ricominciare e a scoprire nuovi nidi. Perché sebbene loro appartengano all’aria, questa terra le fa vivere. Ci pensi. Cerchi una sua risposta. –
Le porte del bus si aprirono, con uno sbuffo d’aria. Giuseppe scese il primo gradino. E si fermò, e, voltandosi verso l’autista, chiese :
– Mi scusi. Oggi, è il sei aprile. Lei ha perso qualcuno quella notte? –
– Sì. Mia figlia. E questo è l’unico prezzo che non potrò mai pagare. E’ solo in guerra, che i padri, e le madri, restano orfani dei figli. E la guerra, è un prezzo che non dovrebbe mai essere pagato. Da nessuno. In nessuna parte del mondo. Mai. –