Si conclude a Torino il V Congresso Nazionale ICAR, Italian Conference on AIDS and retrovirus: 600 gli specialisti presenti provenienti da tutta Italia.
La ricerca, promossa da SIMIT e NPS, studia le malattie infettive nelle carceri: una persona su tre non sa di essere malato.
Ridotta la percentuale di nuovi casi di infezione di Hiv legato alla tossicodipendenza in relazione agli altri fattori di rischio: i Sert, infatti, riescono a contenere la diffusione, grazie ad un accurato controllo dei soggetti tossicodipendenti. Aumentano invece i casi per diffusione sessuale, ad oggi la causa principale dei nuovi contagi. I risultati delle ricerche sono stati presentati durante la V edizione di I.C.A.R., Italian Conference on AIDS and Retrovirus, promosso da SIMIT, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali: l’evento, che si conclude oggi presso il Centro Congressi del Lingotto, ha ospitato oltre 600 specialisti provenienti da tutta Italia e dall’estero.
“Lo studio sulle carceri italiane, realizzato da SIMIT e NPS su venti istituti – spiega Evangelista Sagnelli, Prof. Ordinario Malattie Infettive Seconda Università di Napoli – su un campione pari al 60% dei detenuti, circa 2700 unità, ha rilevato i seguenti dati: la positività per il test di epatite C è del 28% dei detenuti, per l’epatite B del 7%, ed il 3,5% per l’Hiv. Inoltre il 20% ha una tubercolosi latente, ed il 4% ha presentato test positivi per la sifilide. Il dato più preoccupante è che una persona su tre non è a conoscenza del suo stato di salute in relazione a queste infezioni: occorre quindi essere molto cauti per evitarne un’ulteriore diffusione”.
Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, dal 1985, escludendo le persone di età inferiore ai 15 anni diagnosticate con HIV, si osserva un aumento costante dell’età mediana al momento della diagnosi di infezione, che è passata da 26 anni per i maschi e 24 anni per le femmine nel 1985 a, rispettivamente, 38 e 34 anni nel 2011. Nel 2010 la classe di età più rappresentata è quella 35-44 anni, nel 2011 quella 25-34 anni. La proporzione di donne era aumentata all’inizio degli anni 2000 ma negli ultimi anni sta diminuendo di nuovo. L’età mediana alla diagnosi dei casi adulti di AIDS mostra un aumento nel tempo, sia tra gli uomini che tra le donne. Infatti, se nel 1991 la mediana era di 31 anni per i maschi e di 29 per le femmine, nel 2011 le mediane sono salite rispettivamente a 44 e 42 anni. Nell’ultimo decennio, la proporzione di casi di AIDS di sesso femminile tra i casi adulti è rimasta sostanzialmente stabile intorno al 23-25%. Le regioni con la maggiore incidenza sono, in ordine, Lazio (3,2%), Liguria (2,9%), Toscana (2,7%) e Piemonte (2,7%); quelle con il minor numero di casi, invece, Trentino Alto Adige (0,2%), Umbria (0,7%), Molise, Campania e Sardegna (0,9%).
Ampio spazio è stato dedicato al primato italiano sulla terapia antiretrovirale: secondo uno studio internazionale pubblicato nel 2013 al CROI di Atlanta, l’aspettativa di vita in Italia per un paziente con Hiv, regolarmente in terapia, è la più alta rispetto al resto del mondo. Questa ricerca, infatti, ha messo a confronto, tra tutti i registri nazionali, le segnalazioni di infezioni, miglioramenti e decessi dei soggetti in terapia. “In Europa la differenza non è particolarmente rilevante: Francia, Spagna e Germania presentano dati più o meno simili – spiega il Prof. Giovanni Di Perri, Presidente del Congresso per SIMIT – Sorprende, invece, lo scarto italiano, in positivo, con i dati degli Stati Uniti. Sono cambiati anche i costumi sociali: l’hiv si trasmette sempre di più con i rapporti sessuali, mentre negli anni Ottanta era soprattutto causata dallo scambio di siringhe infette: oggi l’80% delle nuove infezioni deriva da rapporto sessuale non protetto. L’età media dei pazienti è di 30-40anni, mentre fino al 2000 fa era tra i 20 e 30anni: un dato importante, perché sembrerebbe che i nostri pazienti stiano “invecchiando naturalmente”, con tutti gli acciacchi e le malattie legate all’età”.
Durante il congresso, inoltre, si parlerà ovviamente di terapia antiretrovirale, oggi sempre più compatibile con una buona qualità della vita. La somministrazione di questa terapia determina l’inibizione della moltiplicazione del virus HIV e si associa al ripristino delle difese immunitarie. Nelle migliori condizioni di esercizio terapeutico l’aspettativa di vita di un paziente con infezione da HIV regolarmente in terapia inizia ad approssimarsi a quella della popolazione generale. “La ricerca industriale porta a nuove soluzioni farmaceutiche più tollerate e più comode da assumere – spiega il Prof. Giovanni Di Perri – come ad esempio la disponibilità di una singola compressa contenente tre principi, e quindi l’intera terapia da assumere solo una volta al giorno. Dall’altra numerosi ricercatori clinici stanno perseguendo strategie di induzione-mantenimento, ovvero caratterizzate da un inizio di terapia regolare con tre farmaci e successivamente, una volta ottenuto un certo grado di beneficio iniziale, dalla prosecuzione con due o addirittura un solo farmaco in modo da alleggerire l’impegno terapeutico del paziente, l’eventuale tossicità a lungo termine della terapia e quindi anche riducendo i costi della stessa”.