Sul quotidiano Il Giornale il saggista Luca Nannipieri a proposito della miopia di certa storia dell’arte e della grandezza di tanti pensatori che hanno riflettuto sull’arte dandone un segno nuovo, a comiciare da Maria Zambrano, filosofa spagnola tra le più importanti del Novecento.
Pensare che l’arte sia anzitutto materia di competenza degli storici dell’arte è quanto di più sciocco possa passare per la mente di un uomo. Per comprendere gli affreschi di Simone Martini, è più utile leggere il grande poemaViaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi che le pagine sonnacchiose di Giulio Carlo Argan. Pier Paolo Pasolini su Piero della Francesca e Giovanni Testori su Romanino hanno dedicato scritti che farebbero impallidire critici come Federico Zeri o Francesco Arcangeli. Neanche il miglior Roberto Longhi riesce a oscurare la Madonna Sistina di Raffaello ripensata da Martin Heidegger o i saggi di Sigmund Freud sul Mosè di Michelangelo.
Individuare l’autore, il secolo d’appartenenza, la tecnica utilizzata, la scuola d’origine, è soltanto uno, e neanche il più importante, dei modi d’avvicinamento al fatto artistico. Per secoli e tuttora le persone entrano in chiesa rimanendo stupefatte dai suoi affreschi e ignorando chi li ha prodotti. L’arte non ha mai avuto né dovrà avere come suoi interpreti privilegiati gli storici dell’arte.
Ce lo insegna con durezza marmorea anche Maria Zambrano, uno dei maggiori filosofi spagnoli del Novecento, le cui intuizioni sul talento artistico sono ora ripubblicate dalla Bur Rizzoli, nel libro Dire luce. Scritti sulla pittura(pp.302, a cura di Carmen Del Valle).
Nessuna analisi storico-artistica su Goya, Velázquez, Picasso, è tanto fertile quanto il vertiginoso saggio della Zambrano del 1960, qui riproposto, dal titolo nazionalistico “La Spagna e la sua pittura”, nel quale con il pretesto di delineare le caratteristiche proprie della pittura spagnola, da artisti come Fortuny o Zurbarán a classici come Velázquez o Miró, la filosofa si addentra nelle viscere più inaudite del gesto pittorico.
“La luce, la non-cosa anteriore a tutte le cose che grazie a essa esistono; la luce è il nostro ambito, l’ambito delle vita umana. Vivere umanamente è vedere ed essere visto, è muoversi nella visibilità”. Eppure la luce non basta all’uomo, tanto meno a Goya o Picasso. “Nella luce naturale, regalata e necessaria, le cose e gli esseri restano, benché bagnati da essa, opachi; sono semplicemente visti. Mentre è proprio della condizione umana anelare, dalla sua più intima radice, a una rivelazione. E conoscere, per l’uomo, sarà soltanto tornare a vedere qualcosa di fatto da lui. L’uomo dipinge o scolpisce per tornare a vedere le cose come sono state fatte da lui, e ottenere così una rivelazione”.
Zambrano arriva così al punto di massima combustione del suo pensiero: “Raffigurare quello che c’è, è farlo nascere, esistere”.
Ecco dove cadono critici e storici. La storia dell’arte insegna che Picasso, frantumando le figure e mostrandole da varie angolazioni visive, reagisce in modo estremo al modo di fare pittura precedente. La storia dell’arte riduce così l’arte ad un susseguirsi di fenomeni storici, sequenzialmente determinati (l’impressionismo, l’espressionismo, l’art nouveau, l’astrattismo, il surrealismo, etc…), che hanno in comune il fatto che ciascuno di essi rinnova ciò che è stato finora prodotto.
Zambrano, questa donna “attirata dal fuoco” come scrive Davide Rondoni nella premessa al volume, ci dice molto di più. Ovvero che l’innovazione stilistica è soltanto il dato più cutaneo e meno interessante di un Picasso o Miró. Gli artisti non reagiscono alla pittura precedente, ma anzitutto al loro essere uomini: raffigurano il vivente non perché esiste, ma per farlo esistere. Dopo personalità come la Zambrano, la storia dell’arte è una scienza minore.
Francesca Briganti