Articolo tratto da “il Centro Italia” del 6 aprile 2049, di Luigi Fiammata
L’AQUILA – Questi sono giorni in cui, a guardarle da lontano, le colline intorno L’Aquila hanno ancora l’abito grigio-marrone dell’inverno. Ci si deve avvicinare, ai rami di quercia, per accorgersi che la scorza si è rotta e le gemme aprono la corteccia. Ed è proprio in questi giorni, anzi, proprio oggi, 6 aprile 2049, che il “ Mulino dei Venti” chiude.
Il Mulino dei Venti è il “Cinema del Popolo”, aperto oltre 30 anni fa in quella che, all’epoca, era una struttura di ferro e acciaio, lasciata ad arrugginire all’ingresso del quartiere di Pettino. Buona parte dei suoi frequentatori attuali non era ancora nata nel 2014-18, e quindi è utile raccontare, almeno a grandi linee, la storia del cinema più importante della Città.
Si trattava, originariamente, dell’officina deposito per quella che un tempo si chiamava “metropolitana di superficie”, finanziata nel 2001 dal morente governo D’Alema, mentre era sindaco a L’Aquila il tonitruante Tempesta, e che in realtà non entrò mai in funzione. Quando la struttura venne innalzata, si inseriva dentro uno spazio confuso e congestionato, e, guardandola da un lato, la sua bruttezza appariva incorniciata nel tremendo cavalcavia dell’autostrada, che, in quegli anni, correva alto oltre venti metri sulle case di Pettino e della parte est della città, deturpandola.
Dopo la sua realizzazione, restò per anni inutilizzata, e, dopo il sisma del 6 aprile 2009, perse ogni significato, viste le scelte che interessarono la città, sin dai tempi del G8 di luglio 2009, quando le strade aquilane iniziarono a riempirsi di rotonde che inghiottirono le rotaie della presunta metropolitana, rendendone impossibile ogni percorso futuro, e persino passato.
La struttura, allora, entrò dentro il contenzioso che contrapponeva il Comune alla Ditta realizzatrice. La Ditta ne richiedeva la proprietà, per potervi realizzare, al suo posto, un grattacielo di quindici piani. Oppure un rimborso quantificato in dieci milioni di euro dell’epoca. L’Amministrazione Comunale del tempo aveva affidato la trattativa per la conciliazione con l’Azienda realizzatrice ad un noto dirigente comunale, imparentato, per parte di bisnonna, con il proprietario della Ditta. Le trattative, segrete, si svolgevano al Grand Hotel Costarelle dove, spesso, il proprietario della ditta soggiornava, anche se non abbastanza quanto avrebbe voluto.
E fu proprio quando i primi articoli sulla possibile chiusura positiva della trattativa, iniziarono a comparire sulla stampa locale, che i percorsi di Luigi Chisciotti, e Francesco Panza, si incrociarono. Si ritrovavano spesso dietro le grate metalliche che impedivano l’ingresso alla struttura. Con le mani aggrappate alle inferriate, guardavano dentro. E certe volte capitava persino che si attaccassero tanto ai cancelli, che la pelle del volto, ne restava segnata, a quadretti.
Non si conoscevano Luigi Chisciotti e Francesco Panza, ma si riconobbero, quando, indipendentemente l’uno dall’altro, una notte, usando un paio di semplicissime tronchesi, violarono lo spazio chiuso ed entrarono dentro. Sotto il tetto di acciaio ondulato l’aria sapeva di tufo e terra smossa; assi di legno, grossi blocchi di pietra, traversine metalliche scolorite, ciondolavano sparse nell’ampia superficie vuota, e fredda. Senza pareti che non fossero immaginarie. E proprio l’immaginazione aveva spinto Luigi e Francesco in quella piazza senza titolo.
Da quella notte, e per qualche mese dopo, Luigi e Francesco iniziarono a lavorare in quello spazio. Quasi senza parlarsi; come se i loro pensieri trovassero continuamente, tra loro, agganci, appigli, spunzoni cui attaccarsi per salire ancora e scalare la realtà che avevano intorno. Prima, da soli, poi, piano piano, sempre in silenzio, come se la voce attraversasse gli angoli di Pettino, senza allarmare nessuno ma accarezzando le fantasie, arrivarono sempre più abitanti del quartiere ad aiutare. Come se quel pezzo di terra disperso fosse diventato il cuore pulsante di una grande rhythm and blues band.
Quasi nessuno, a L’Aquila, si accorgeva di cosa stesse maturando in quell’area. Talvolta ci sono luoghi grigi, e soli, in città. Vuoti di persone e voci; e diventano perciò invisibili, così. Neanche le rondini ci fanno il nido. Accade quando un luogo è chiuso, e se ne dimenticano persino i confini e lo scopo della sua presenza. Ammesso che ci sia mai stato, uno scopo.
E accadeva facilmente che ci fossero luoghi divenuti ignoti, a L’Aquila, in quegli anni in cui ci si spostava solo in automobile, e l’unica cosa cui si faceva attenzione guidando, era la distanza dal tubo di scappamento della macchina davanti. Anche per non essere sommersi continuamente dalla desolazione intorno.
Nessuno si accorse delle pareti che venivano innalzate. Erano pareti di vetro, che al loro interno erano riempite d’ acqua, in cui era lasciato cadere qualche fiore, qualche erba di campo, qualche piuma d’uccello. Quelle pareti divennero indimenticabili, per gli aquilani. Capaci come erano di scomporre i raggi del sole in fili di colore. Capaci di diventare ali di farfalla se viste in controluce. Da dentro, o da fuori la struttura. E d’inverno ghiacciavano, le pareti, senza imprigionare l’azzurrissimo aquilano, acquilano, di gennaio. E il Cinema del Popolo diventava un igloo caldo.
La primavera arrivava, a L’Aquila, solo se e quando le pareti d’acqua del “Mulino dei Venti” si scongelavano, lasciando galleggiare tra le lastre di vetro, piccoli iceberg che imprigionavano petali di bocca di leone, o di margherita. In realtà, la primavera arrivava anche quando gli alberi di mele e ciliegie che Luigi e Francesco avevano piantato, cominciavano a profumare l’aria di colori.
I lavori iniziarono pulendo, meticolosamente, tutta la trascuratezza del tempo umano. E poi, quando lo spazio restò nudo, tutti quelli che erano accorsi a dare una mano, guardarono, insieme, Luigi Chisciotti e Francesco Panza. Luigi e Francesco, semplicemente, tirarono fuori vecchi disegni di bambini dell’asilo, e di studenti della Facoltà aquilana di Ingegneria. E li buttarono in aria, come coriandoli.
E tutti allora, raccogliendoli da terra, cominciarono a scegliere cosa realizzare, e cosa no. E cominciarono proprio con le pareti. E poi con gli spazi interni, e gli impianti. E quello che non poteva essere realizzato in quello spazio, cominciarono a realizzarlo a Pettino. E Pettino cominciò a cambiare, impercettibilmente, dapprima. Poi sempre più tumultuosamente.
Sorsero panchine ad altalena. Emersero marciapiedi che rubarono spazio all’asfalto. Cominciarono ad essere accuditi, gli spazi verdi colmi di sterpi. E piantati alberi, e fiori, e cespugli disciplinati. Tra palazzi troppo vicini si innalzarono decine di ombrelli coloratissimi, che facevano ombra d’estate e riparavano dalla pioggia d’inverno, ma solo per quelli che camminavano a piedi. E tutti iniziarono a coltivare i tetti, rendendo le case più fresche d’estate, e più calde d’inverno. Per non parlare dei pomodori e dei broccoli condominiali… Qualcuno, la notte, iniziò a cambiare i nomi delle vie.
Via Francia, divenne “Via due per due uguale quattro anche quando fai la somma”.
Via Australia divenne “ Via tre per tre uguale nove come quando fai la prova del nove”.
E Via Antica Arischia divenne “Via le mani dalle nostre vie, che se sbagliamo, sbagliamo da soli”.
Il Cinema del Popolo, alla fine fu pronto. Dentro, vi erano state ricavate tre sale. I posti a sedere, complessivamente, fu scelto che fossero 309. Perché ogni giorno, ad ogni spettacolo, chi c’era, e chi non c’era più, insieme, potesse ridere e piangere, e soffrire e gioire, e divertirsi e sognare. O innamorarsi.
Una sala sarebbe stata dedicata ai classici del cinema. Un’altra al cinema aquilano, fatto da aquilani, girato a L’Aquila, inventato a L’Aquila. Recitato a L’Aquila. O scritto a L’Aquila, visto che in quella sala, ci si potevano anche leggere le sceneggiature, se proprio non si era capaci o non si poteva filmare nulla, o suonarci le colonne sonore immaginarie. O provarsi i vestiti di un immaginario film in costumi aquilani.
E l’ultima sala, era la “Sala del momento”, nel senso che, ogni sera, ci poteva essere qualcuno che decideva di far qualcosa, in quella sala, qualsiasi cosa. No un dibattito no. Oppure una cena. O una danza o un teatro. O un comizio o una poesia letta ad alta voce. O una fisarmonica tangheggiante. O un racconto intorno al fuoco. Insomma. Chi arrivava per primo, alle 19 in punto ogni sera, decideva l’uso della sala. C’era chi arrivava per primo la sera del proprio cinquantesimo compleanno, quindici anni prima, per prenotarsi, ad esempio.
Quando il Cinema del Popolo fu pronto, Luigi Chisciotti, e Francesco Panza, ebbero l’onore di sceglierne il nome. E scelsero “Il Mulino dei Venti”. Il nome nasceva dal piacere che, sia Luigi che Francesco, avevano per la farina di mais gialla, macinata con le pietre bianche del mulino. Il piacere per la polenta, insomma. E dal fatto che in quel luogo, ogni sera, l’aria sembrava scorrere da terra verso il Gran Sasso, come se fosse attratta dall’altezza.
Ci tirava vento, insomma. Ed ecco il “Mulino dei Venti”; anche perché, Luigi e Francesco, speravano che in quel posto, liberamente, fosse possibile macinare idee e trasformare il mondo intorno, condire l’aria e il tempo, partecipare al suono della città, cambiandolo, riscattare dalla sua bruttezza decennale, un quartiere popolare in cui abitavano tante belle persone, e tante persone da ubriacare di bellezza, perché cambiassero testa, almeno un po’.
Proprio il giorno in cui il Comune, sotto, ed è proprio il caso di ribadire “sotto”, l’Amministrazione Cialente, trovò l’accordo con la ditta che aveva fatto il misfatto, proprio quel giorno, in cui stavano per rientrare in possesso dei luoghi l’amministratore delegato della ditta e i suoi creditori affamati, proprio in quel giorno, finirono i lavori al “ Mulino dei Venti”.
E allora accadde che Ufficiali Giudiziari, Assessori e Assessrici, il Primo Cittadino, Amministratore Delegato e Proprietario della Ditta, Direttori di Banche e Forze del Disordine, si presentarono compatte davanti all’ingresso del “Mulino dei Venti”, per entrarne in possesso.
Ma fu la città, a decidere il possesso di quel luogo.
Scese una bassissima nebbia di panna montata. Così spessa e fitta che quelli che camminavano non riuscivano più a vedere i propri piedi sull’asfalto. Il “Mulino dei Venti” scompariva alla vista di chiunque, nell’ordine costituito lo cercasse. Si racconta, che il Sindaco fosse finito con il vagare per Santa Barbara, chiamandosi senza riuscire a ritrovarsi. E questo, per mesi e mesi. Ogni volta che arrivava qualcuno che voleva mettere in discussione il possesso di quel luogo. Indiscutibilmente diventato il “Mulino” di Pettino, come il Moulin di Pigalle.
Fino a quando, l’ordine costituito si stancò, e si dimenticò persino di quel luogo. Come, d’altra parte, in assenza di denaro, aveva sempre fatto. Il Mulino conservò una strana idiosincrasia, comunque. Scientificamente provata.
Ogni persona, di uno qualsiasi dei cinque sessi, che fosse portata al servilismo, al camaleontismo, all’arrivismo, all’ipocrisia codina, e al bigottismo, che provasse ad entrare, si beccava una sferzata sul muso che arrivava dritta dritta da un enorme cespuglio di rose scarlatte cresciuto spontaneamente (dicono nato dai semi di una pianta acquistata negli anni ’50 del ‘900 da un artigiano aquilano per ingentilire il cortile di una casa popolare ), colmo di spine urlanti nel vento. Appunto.
Pettino divenne finalmente un luogo in cui far crescere i vecchi e far riposare i bambini. Quasi del tutto liberato dalle auto e con un senso civico invidiabile che arrivò a contagiare Cansatessa e San Vittorino. Luigi Chisciotti e Francesco Panza divennero gli animatori di una vastissimo circolo di persone, che da Cinecittà, fino a Bollywood cominciarono a passare per l’Aquila. Fecondandola e fecondandosi.
Qualche mese fa, Luigi Chisciotti, lo sapete, ci ha lasciato. Ed è stato Francesco Panza, proprio in occasione del quarantesimo anniversario del terremoto che distrusse L’Aquila il 6 aprile del 2009, a decidere la chiusura del “Mulino dei Venti”.
Ma solo per farlo rinascere. Per rimetterlo, di nuovo nelle mani del quartiere e della città per cambiarlo e renderlo migliore. Una ristrutturazione popolare, insomma. Che durerà nove mesi. Perché una nuova vita, ci mette nove mesi a nascere.
E anche una città, ogni tanto, deve rinascere.