Teramo. “La nostalgia di Dio in Cesare Pavese”

Mercoledì santo 16 aprile 2014 alle ore 17,45 nei locali della Sala di
Lettura “Prospettiva Persona” continuano gli incontri del Salotto Culturale
con una conferenza sul tema “ La nostalgia di Dio in Cesare Pavese”.
Relatore d’eccezione l’arcivescovo emerito de L’Aquila mons. Giuseppe
Molinari, autore del libro su Pavese:
«O Tu, abbi pietà» La ricerca religiosa di Cesare Pavese, Ancora 2006.

La cittadinanza è invitata

Approfondimento
Cesare Pavese ((Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto
1950) “Autore pilastro del nostro Novecento, narratore senza arabeschi
ombelicali. «Cesare Pavese – spiega Lorenzo Mondo, l’ex vicedirettore de La
Stampa che da una vita lo studia – è uno scrittore religioso. E accanto a
questo, o proprio per questo, è profondamente calato nella realtà. Non
scrive per sé, perfora la crosta della realtà e ci porta in profondità».
Insomma, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: la religiosità è quella
di un uomo che fa a pugni con le cose e non ci conduce in regioni rarefatte
o remote, ma dove i nervi scoperti della nostra coscienza vengono toccati
uno a uno. …. Il suo lavoro, per così dire, di setaccio esistenziale è
straordinario: Pavese ci conduce alle porte del destino, quello personale di
ciascuno, e quello corale di tutti noi, scruta con la lente della sua
scrittura l’anima umana, le sue infinite aspirazioni, le sue domande
irriducibili, le sue in-certezze. Il tutto con una prosa, e talvolta una
poesia, che è insieme epica e quotidiana, tesa al cielo e impastata di
terra. Prendiamo il finale de La casa in collina (romanzo in cui il
protagonista, Corrado, scappa da Torino, sconvolta dai bombardamenti, si
rifugia sulle colline, poi torna al paese natale nelle Langhe).
Quell’immagine terribile dell’Italia lacerata dalla guerra civile, dal
disastro seguito all’8 settembre. «Lo scrittore è fra i primi ad affrontare
il tema della guerra civile e lo fa da par suo», riprende Mondo. «“Ora che
ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno
finisse, dovrebbero chiedersi: e dei caduti che facciamo? Perché sono morti?
Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri
lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la
guerra è finita davvero”. Queste parole disegnano una prospettiva che
sfugge alle letture ideologiche».
Alla terra, la terra che l’ha generato, Pavese chiede la soluzione di
quell’enigma che è la vita. La domanda, che torna coniugata con tutte le
parole chiave del suo vocabolario così esistenziale, rimane conficcata
dentro di lui. «C’è in proposito un episodio illuminante – spiega Mondo -:
Rosa Calzecchi Onesti, che sta lavorando alla traduzione dell’Iliade, legge
Prima che il gallo canti, il dittico che contiene La casa in collina e il
Carcere. E con intuito intravede ne La casa in collina un tormento religioso
e gli augura di superarlo. Pavese le risponde così: “Quanto alla soluzione
che mi augura di trovare, io credo che difficilmente andrò oltre il capitolo
XV del Gallo. Comunque non si è sbagliata sentendo che qui è il punto
infiammato, il locus di tutta la mia coscienza». In effetti in quel capitolo
Corrado entra in chiesa. E definisce quell’istante uno «sgorgo di gioia».
«Pregare, entrare in chiesa – dice Pavese – è vivere un istante di pace,
rinascere in un mondo senza sangue». «Sicuramente Pavese ha avuto in quel
periodo, dopo l’8 settembre, una crisi religiosa», aggiunge Mondo. «Padre
Giovanni Baravalle, il padre Felice de La casa in collina, racconta di
averlo confessato e comunicato il 1° febbraio 1944». Lui, ne Il mestiere di
vivere, annota: «Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima
dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si
vorrebbe soltanto goder sempre questo sgorgo di divinità». Ma sappiamo anche
che quella pace, conquistata in quella chiesa, andrà in pezzi. Pavese vince
il premio Strega, diventa famoso, e si ritrova solo. Ancora più solo.
Nell’estate del 1950, dopo l’ennesima delusione amorosa, dopo essersi illuso
di poter costruire un legame con Constance Dowling (la “C.” della dedica),
la situazione precipita. Chiude il diario, Il mestiere di vivere, con
un’ultima rabbiosa invocazione. «Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?».
Il 27 agosto 1950, domenica, si uccide a Torino con il sonnifero nella
stanza 43 dell’Hotel Roma. Lascia un messaggio sobrio, majakovskiano:
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? non fate troppi
pettegolezzi». Sullo scrittoio c’è una copia dei Dialoghi con Leucò
(dialoghi mitologico-filosofici). «In questo libro – è il pensiero di Mondo
– affiora tutto il Pavese religioso, quello che non si stanca di indagare
sul senso della vita. In uno dei vertici, il dialogo intitolato agli Dei, il
divino viene proposto come un’esperienza, come un incontro che l’uomo
moderno ha perduto, anche se “davanti al disagio, nell’ora incerta”, ne
avverte la nostalgia». Dunque è giusto chiedersi perché proprio quel libro
abbia accompagnato Pavese nell’ultimo viaggio. «Credo che quella scelta non
sia stata casuale», risponde Mondo. «Pavese sentiva che quel testo
racchiudeva il senso più profondo della sua esistenza e della sua arte.
Chissà, forse quella notte, l’ultima della sua breve vita, ha trovato la
forza di sfogliarlo, come viatico e breviario, testimonianza della sola
verità che gli era stata concessa».
Liberamente tratto da http://carabelta.free.fr/letter/pavese.php

La fecondità del dolore
Lo sgorgo di divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto
inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia del dolore ci dà un moto di
gioia e di gratitudine, di aspettazione” La massima sventura è la
solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste
nel trovare una compagnia che non inganna.
La preghiera è uno sfogo come con un amico. Sto leggendo il libro intenso
che un vescovo, Giuseppe Molinari, ha scritto sulla ricerca religiosa di
Cesare Pavese (“O Tu, abbi pietà”, ed. Ancora): ne rimango
coinvolto perché
ho sempre amato questo scrittore dall’esistenza approdata al tragico
estuario del suicidio, ma pervasa da un forte anelito verso il mistero e il
divino.
Scelgo alcune citazioni incastonate nel volume dell’arcivescovo dell’Aquila:
sono conosciute ma meritano di essere riproposte. Due sono le realtà prese
di mira; forse sono solo due volti antitetici ma complementari della stessa
esperienza umana. Da un lato c’è l’amarezza della solitudine, una sorta di
prigione che tanti non riescono a varcare, anche perché al di là non
cӏ
nessuna mano e nessuna presenza.
Per questo, Pavese scriveva che «solo la carità è rispettabile. Cristo e
Dostoevskij, tutto il resto sono balle». Anche quel suo celebre verso:
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» era l”estrema attesa di uno
sguardo
d”amore, sguardo che purtroppo in quel caldo giorno d”agosto del
1950, il
giorno del suicidio, gli è mancato. Ma, d’altro lato, c’è un profilo
sorprendente che la sofferenza rivela ed è ciò che lo scrittore esprime con
un”immagine forte, «lo sgorgo di divinità». Il dolore è come uno
strato di
terra e di pietrisco che ha sotto il fremito e la pressione dell’acqua:
basta saper attendere con coraggio, ed ecco erompere la luce, la vita e Dio
stesso.

Liberamente tratto da “Avvenire” 13/09/2006.

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