di Lino Manocchia
La vita della Nascar Racing
Li chiamano “Good Old Boys”
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(C) Lino Manocchia
DAYTONA, 12.4.2014 – Fu Big Bill William France, il dinamico meccanico di Washington, che con 200 dollari diede vita sull’arenile di Daytona (Florida) alla categoria STOCK CAR chiamandola NASCAR (National Association Stock Car Racing).
I motori della categoria devono essere di circa 750 cc, devono avere collettori d’aspirazione con strozzature stabilite dalla Nascar, dovendo consumare quel tanto e al termine della corsa i primi tre ricevono l’immediata visita degli ispettori i quali osservano se le strozzature sono quelle da essi assegnate. La Nascar non guarda all’età. Vi sono piloti di 25 anni e altri di 46, come l’anziano Dave Pearson, provengono da tutte le categorie e sono provetti assi del volante. Gli sponsor non mancano ma soltanto per i “big”, gli altri si devono accontentarsi delle briciole che ditte e sponsor più piccoli gettano nel grande catino agonistico
Dal vasto gruppo sportivo gli speedway più famosi emergono: Daytona, la grande mamma degli ovali dal 1959, Talladega, Pocono, Charlotte, Atlanta ed altri, mentre le piste minori, per la loro lunghezza di mezzo miglio, non possono effettuare gare di lunga durata. La serie conta 85 iscritti, 43 dei quali partecipano regolarmente alle gare di campionato. Attualmente il miglior pilota, capolista della classifica, è il 38enne Jimmy Johnson che guida una Chevrolet contro le Ford e Toyota, incassa qualcosa come 20 milioni l’anno, tra salario e sponsorizzazioni, oltre al milione per tappa vittoriosa. Ma per conoscere l’esaltante mondo del turismo d’oltre oceano, occorre compiere qualche passo indietro nella storia.
Gli “eroi” sono gente nata con e per le automobili, con le quali hanno forgiato il nome alla serie e ai suoi protagonisti. Diversi, anzi tanti ormai appartengono al passato e ritengono un nomignolo caratteristico e non disdegnano essere chiamati ”Good old boys” o storici dei primi 30 anni di attività. Al seguito degli “old good boys” si allineano personaggi di riguardo per coraggio, intelligenza, costanza, pazienza.
Basta pronunciare il nome di Dave Allison, David Pearson, Terry Labonte, e meglio ancora il decano della categoria Richard Petty o Dale Hearnardt, per risvegliare memorie indimenticabili. Un giorno, quest’ultimo invitò il cronista nella sua magnifica tenuta campestre dove conservava tra l’altro, 13 fucili da caccia italiani, e passando in rassegna una lista di nomi che formano tra l’altro, un capitolo interessante di corse, velocità e coraggio.
Fu il 18 febbraio 2001 che Earnhardt a Daytona disse addio alle corse per un incidente mortale lasciando i suoi record, le memorie e la gloria al figlio Dale Jr, valido continuatore di colui che descrive nel libro “pilota inossidabile, irrefrenabile, ardimentoso” e riconferma la sua forte passione per la Formula Uno ”sogno evanescente, irraggiungibile”.
Il memorabile incidente è senza dubbio il “capostipite” degli incresciosi contrattempi di gara che molto sovente si verificano in 65 anni di vita della categoria, migliaia di corse una più prestigiosa dell’altra, imprese che non arrossiscono di fronte a tante altre categorie impegnate nella battaglia delle miglia su ovale.
Chi ha avuto modo di intavolare conversazioni con il monumentale Richard Petty “The King” ha appreso dettagli avvincenti, elettrizzanti imprese e delle sette vittorie nella prestigiosa 500 miglia di Daytona, e pur non correndo più si adatta all’incarico di valido cittadino della Carolina del Nord, come Commissario nella Contea oltre ad essere proprietario di un glorioso team stock.
”Non posso essere chiamato “Good Ol’ boy” – ci disse un giorno Petty -. Mentalmente e quando odo il rombo di 40 motori che tramite i tubi di scarico emettono il boato dei 320 cilindri, la tensione cresce ed esplode dopo il primo giro di ricognizione. E’ difficile – spiegava Richard – comprendere la situazione delle corse ed il tentativo di schiarire i grandi momenti della manifestazione specie per quanto concerne la tecnica”.
Personalmente abbiamo ceduto al tentativo di offrire i momenti di una mini-inchiesta tra gli sportivi della Nascar. Per qualche appassionato Usa è difficile accoppiare nomi della Nascar come Bill Elliot, Rusty Wallace, David Pearson, Jeff Gordon e tanti altri alla schiera dei grandi della Formula mondiale. Tutti ovviamente offrono sul piatto della discussione situazioni record, piste che però non si piegano, data la grande diversità tra l’una e l’altra.
Quando prospettiamo Formula Uno e Nascar, cosa rispondono?
“E’ impossibile fare paragoni”, è stata la prima risposta. La F. 1 è una gara definita “per signorine”, l’altra è “per uomini di ferro che non ammettono la donna nelle loro file. E’ un po’ come dire Football e Calcio, oppure Fangio e Petty”. L’antagonismo è grande, sentito ed offre paragoni inconfutabili. Tuttavia, non si può ignorare che nel corso dei 65 anni di vita e di anni ruggenti che la serie oggi festeggia, ben 125 velocissime donne hanno guidato i mostri degli ovali. In testa al “roseo” plotone la geometra Janeth Guthrie, considerata la “pioniera delle quattro ruote femminili“, ultima Danica Patrick, la giovane dell’Arizona che dopo aver “navigato” per oltre 12 anni nelle file della Indycar (monoposto) è riuscita ad infilarsi nella squadra Nascar, ricevere somme inconcepibili, senza peraltro ottenere, sino ad oggi, un risultato positivo.
L’ardita pilota del sud è considerata intelligente e temeraria, ma incapace di guidare una macchina di tale portata per aver trascorso, dicevamo, una dozzina d’anni nella serie minore Indycar monoposto senza risultati eclatanti per passare, quindi, nella massima divisione motorizzata dove non fa altro che compiere una trentina di giri per gara, finire contro la protezione o un altro concorrente, portando via somme inconcepibili. I dirigenti e la categoria ammettono che la donna reca interesse e “business” alla serie, che viene descritta dalla stampa Usa “sonnacchiosa come i vari posti vuoti degli ovali”.
A tentare di agitare la stasi sportiva della serie, sta provando Brian France, che si ostenta a…secondo Ecclestone mentre la massa sportiva rifugge dal paragonare l’erede della miliardaria organizzazione al memorabile nonno… Big Bill France.