Cultura & Società

IL GUERRIERO di Beatrice Sabatini *

 

Io sono un guerriero. Nacqui fra monti avvolti da nevose brume invernali, quando il corso del signore degli astri stenta a bucare la coltre bisbigliante delle nubi e il vento penetra fra le assi chiamando a raccolta nella valle i branchi di lupi smagriti dai digiuni. Io sono un guerriero, eppure mi diletta ascoltare la voce delle acque danzanti nei ruscelli al disgelo in primavera e mirare gli sterminati campi rosseggianti di papaveri quando le giornate divengono più lunghe e le greggi pernottano negli alpeggi fecondi di nuova erba. Fu lì, nelle radure montane assolate e profumate di terra, alla vigilia della mia iniziazione a guerriero, che mi trovò il fato.

 

Spesso avevo udito della misteriosa Signora del vento e della foresta dai racconti delle donne nelle sere invernali davanti al focolare. Con voci tremanti e basse raccontavano della donna senza tempo, sempre uguale nella sua sfolgorante bellezza, nella sua sfuggente presenza nel bosco sacro al vento, alle pendici della Grande Montagna di Pietra, che molti consideravano il centro del mondo. Raccontavano che ella fosse lì da innumerevoli anni, dal tempo in cui i nostri avi veneravano, nel grande bosco di querce, il dio misterioso che parla dalla Grande Montagna e la cui voce si ode nel vento, e affermavano che fosse la sua sposa e la sua sacerdotessa. Le nostre donne dicevano con timore che la Signora non avesse mai abbandonato quei luoghi silenziosi, sebbene altri dei fossero giunti nel corso degli anni ad insidiare il ricordo del suo sposo. Mia madre conosceva e venerava solo il dio della Montagna, con scherno e stupore di molti nella mia touta, e non temeva la Signora, piuttosto sentiva che le era simile e sorella. Ma per una sorta di senso di colpa, sopraggiunto all’oblio del dio ancestrale, le altre donne la temevano e non la cercavano. Molti uomini invece, sapendo della sua bellezza arcana ed eterna, l’avevano cercata nelle lunghe cacce solitarie, ma negli innumerevoli anni a pochi era apparsa, con i suoi lunghi capelli corvini e le iridi azzurro cupo come il cielo nelle limpide sere invernali. Quel che aveva detto a quei temerari era persino per loro un mistero perso nella memoria, sigillata per volontà della Signora, ma forse ella aveva recato presagi, forse verità terribili sul passato o sul presente.

 

In quella estate luminosa ero giovane, ancora immerso a metà nel mondo magico delle storie arcane della mia gente, eppure restavo incerto se credere alla leggenda sulla esistenza della Signora e, nel momento in cui la incontrai, i miei occhi esitarono. Mentre assieme ad un servo portavo al pascolo il  gregge della mia touta, attorniato dalla febbrile custodia dei feroci cani pastore, con il loro collare irto di acuminate punte di metallo, mi ero attardato a contemplare la valle distante, avvolta nella tersa luce del primo mattino, con i filari di salici argentei che segnavano il corso del Grande Fiume, nelle nostre terre ancora veloce e poco profondo, giovane presagio della larga corrente che, lontano, tingeva di terra le acque del mare orientale. Immaginai il colle al centro della valle sul quale si arrampicavano le case di pietra della mia città, nascoste in quel punto dell’erta del sentiero dalla montagna boscosa davanti a me. Non mi accorsi che il gregge era andato oltre sul tratturo, sparendo dietro il bosco, e che l’abbaiare dei cani si era fatto lontano. Ero come succube di un sortilegio e, invece di raggiungere il gregge, mi inoltrai nel bosco, penetrandovi a fondo, carico dell’eterno mormorio del vento fra le giovani fronde delle querce. Ad un tratto mi trovai in una radura, al cui centro dimorava una grande roccia coperta di muschio, alla base della quale sgorgava una limpida sorgente.

 

Ella era lì, seduta su un tronco accanto al corso d’acqua, avvolta in una delicata veste del colore della sera, i lunghi capelli mossi dal vento, il viso perfetto serio ed intento. E mi fissava. Sentii il desiderio irresistibile di accostarmi a lei e mi ritrovai seduto al suo fianco, sull’erba ancora rorida della rugiada notturna. Mi parve che nella pura acqua della sorgente si riflettessero migliaia di piccole stelle in un cielo nero come pece. Ella d’un tratto si alzò e pose le sue mani sul mio capo. Guardai in alto e sopra di noi, oltre il suo capo, era notte, ma la luce del meriggio splendeva ancora nella radura. Tornai, come attratto da una forza misteriosa, a mirare la Signora ed ella mi scrutò. Udii le sue parole ma ella non mosse le labbra. Mi narrò di un tempo a venire, mi mostrò il mio futuro ardore di guerriero, mentre avanzavo avvolto nella magnifica corazza e coronato dall’elmo crestato. E poi battaglie gloriose e furenti, clangori di spade contro scudi e sibili di lance e frecce. Mentre la mia coscienza si smarriva nelle sue visioni, esaltando il mio ardore giovanile, vidi anche una donna straniera piangere suo figlio, un giovane forte e splendido, paludato della sua armatura e disteso in un sudario, colpito a morte. Il giovane veniva adagiato su un letto di pietre, in attesa che un tumulo lo ricoprisse di tenebre. La sua spada era posta fra le mani e i pugnali accanto al corpo, assieme agli amuleti rituali. Sua madre era accanto, muta e senza lacrime mentre la schiera delle donne della sua gente intonava i lamenti funebri. Di colpo sentii freddo e il corpo del guerriero divenne il mio. Iniziai ad affondare in un vortice tenebroso e denso come il limo sul fondo di una palude, mentre alle mie narici perveniva l’inconfondibile lezzo della morte e il mio respiro diveniva affannato e sempre più difficoltoso. Un opprimente peso si era adagiato sul mio petto e questo fece sì che io riemergessi di colpo dalla visione. La Signora era sparita ed io ero di nuovo nel bosco, solo e ansimante. Il sole splendeva al di sopra delle vetuste querce e l’acqua zampillava indisturbata. Temetti di aver dormito e sognato a lungo e paventai i rimproveri di mio padre perciò corsi fuori dal bosco, trovandomi di nuovo sull’erta del tratturo.

 

Fui attratto da voci sparse che chiamavano il mio nome, echeggiando ripetutamente nella valle. Scorsi un anziano guerriero che scrutava pensieroso il fondo di un burrone, stando pericolosamente sul ripido ciglio dello strapiombo, e lo chiamai. Quello sorrise scorgendo il mio volto e poi suonò nel corno, dirigendosi a grandi passi verso di me. Mi abbracciò contento e da lui scoprii che quello che mi era parso una breve assenza era stata in realtà un oblio del mondo durato tre giorni. Il servo aveva dato presto l’allarme, non vedendomi più seguire il gregge, e vari uomini mi avevano cercato per due giorni nel querceto, inutilmente, immaginando già una morte orribile in una forra o in una cavità apertasi improvvisamente sotto i miei giovani piedi. Ero turbato e non mi seppi spiegare l’accaduto: forse avevo bevuto acqua intossicata o mangiato per disattenzione i funghi riservati agli sciamani. Mi accontentai di quella spiegazione e, tornato al mio villaggio,  fu quella che d’istinto fornii per la mia momentanea scomparsa. Ma ciò che avevo visto, in sogno o in visione, quello lo tenni per me. Solo mia madre, credo, aveva intuito ciò che mi era accaduto, e proibì alle donne di nominare la Signora in mia presenza. E le donne obbedirono, tanto che anche la mia memoria pian piano finì per non serbare più ricordo alcuno degli occhi incantati della Signora.

 

Ma anni dopo, nella nebbia che ammorbava  di sangue l’aria di un freddo mattino invernale, mi parve che fossero proprio quelle pupille a chinarsi su di me. Ripresi conoscenza lentamente, e piano mi resi conto che gli occhi che mi esaminavano attentamente non erano quelli della  Signora ma di una sconosciuta. Il mio corpo era dolorante, e il capo ferito. Avevo i capelli e il volto impiastricciati di sangue, il mio, e non sentivo più l’elmo.  La gamba destra mandava dolori lancinanti e capii che i tendini del ginocchio erano stati recisi da un colpo di spada. Compresi dolorosamente che non ero più un guerriero: come poteva ormai combattere uno storpio? Fra insopportabili dolori che risuonavano nel cervello come spilli acuminati ebbi coscienza di qualcosa che mi recava un debole sollievo: la sconosciuta mi stava lavando il volto con un panno freddo, e il gelo di quella cura mi portò alla memoria i fatti accaduti nei giorni appena trascorsi.

 

Ero giunto, dopo un lungo cammino negli stenti dell’inverno in compagnia di giovani guerrieri, in una terra straniera e diversa, fra uomini la cui parlata mi era familiare eppure sconosciuta.  Ero forte e di antica stirpe, legato da un patto di sangue e fedeltà ad una gente nostra antica consanguinea, che viveva in terre a meridione, lontano anche dal punto in cui il nostro fiume, gelido e veloce, diventa il Grande Fiume e scorre profondo e assorto fino al mare. Mia madre era restata accanto al focolare, sola e pensierosa. Ma io avevo nelle ossa il richiamo delle armi e, con il beneplacito di mio padre, non potei negarmi a quella guerra di resistenza ad oltranza contro gente astuta e invadente che reclamava il dominio su tutte le nostre terre.

 

Avevano già convocato i guerrieri della mia gente altre volte, negli anni precedenti, ma ora il mio patto di fedeltà mi costringeva a aderire a quella nuova guerra e, sebbene non fosse più la nostra, ugualmente desideravo parteciparvi. Mio padre ne fu lieto poiché sognava per me che le mie imprese venissero cantate nei secoli a venire sulle arpe degli aedi, nelle corti di potenti signori. Mi unii pertanto ai coscritti e scesi prima ad est e poi a sud, fino al luogo convenuto, che al nostro arrivo brulicava di guerrieri. Il bando per la leva obbligatoria aveva costretto in quel luogo quasi quarantamila uomini ma la confusione che regnava aveva un non so che di organizzato che impediva il caos. Fra tende che venivano innalzate e depositi di viveri ed armi, costantemente riforniti ed ordinati, l’animazione era incessante: ordini venivano lanciati in continuazione e molti guerrieri erano occupati ad affilare il filo di spade povere o sontuose, di lance appuntite e di asce robuste, a rafforzare corazze e scudi, a riparare calzari logorati dai lunghi cammini di chi non possedeva una cavalcatura. Quando l’accampamento fu completato e ognuno aveva ricevuto la propria collocazione nelle truppe, verso sera, fu distribuito il rancio. Mi ritrovai, affamato, con fra le mani del pane duro e una scodella di zuppa, accanto al mio giovane compagno di cammino, originario della terra dei nostri alleati, seduto davanti a un grande falò, attorno al quale numerosi guerrieri avevano incrociato le gambe. Mentre divoravo quel frugale pasto, rimpiangendo per l’ennesima volta in quel viaggio il profumo del formaggio di pecora sui dolci frutti del fico e del pane appena sfornato, che allietavano le serate estive nella mia terra, ascoltavo il vociare attorno a me.

 

Il malcontento e la sfiducia aleggiavano fra gli uomini: il nemico aveva attuato un’azione a morsa, stringendo le nostre forze da sud e da nord. Non restava altro che cercare di sconfiggerlo in campo aperto, ma, ai più, tutto ciò pareva soltanto l’ultimo e disperato tentativo, destinato al fallimento. Anche fra i generali era alta la sfiducia, poiché molti fra loro dubitavano della fermezza dei propri uomini. E non a torto, pensai, dato che anche fra i coscritti miei compagni di viaggio vi erano volti cupi e nervosismo diffuso. Fu così che passammo la notte in un sonno ristoratore solo per le membra stanche, mentre gli spiriti vagavano inquieti nel regno dei presagi di sventura. E la prima sventura si presentò con i primi albori di un cupo e gelido mattino, quando le trombe suonarono l’adunata e fummo ammassati nella grande spianata di fronte agli alloggi dei generali. Sui volti ancora assonnati leggevo attesa e curiosità, mentre serravamo i ranghi di fronte ad una pedana allestita in fretta poco prima dell’alba. Quando il silenzio divenne assoluto il generale salì sulla pedana, si schiarì la voce e impartì gli ordini che avremmo dovuto eseguire.

“Chiunque fra voi abbandonerà senza permesso questo luogo sarà considerato disertore e consacrato al dio della vittoria”. Tutti ebbero un fremito, ben sapendo che questo significava un’uccisione cruenta sull’ara del dio. Ma dov’era l’ara?

Il generale continuò:

“Siete convocati al tramonto nel luogo destinato: colà il sacerdote del dio della vittoria provvederà ai riti prescritti perché il dio ci sia propizio.” Fu allora che alle spalle del generale, notammo un uomo assai anziano, che annuiva mentre questi, splendente nella sua corazza e nell’elmo crestato, impartiva ordini.

 

Durante la giornata si provvide ad allestire, nel mezzo dell’accampamento, un ampio recinto, chiuso da un’alta siepe e da un imponente steccato ricoperto di bianchi teli di lino. Capimmo che quello sarebbe stato il luogo destinato al sacro rito. Lungo i duecento piedi di ogni lato gli uomini non impegnati nell’allestimento si aggiravano turbati, e alla premonizione della sconfitta si aggiunse l’inquietante terrore superstizioso di ciò che sarebbe accaduto al tramonto. I miei sensi erano all’erta e non capivo, rifiutando di cercare spiegazioni nella memoria dei riti della mia gente. Mi limitai ad attendere. Un livido cielo invernale cedette il passo, al calare delle prime ombre della sera, ad un tramonto striato di sangue.

“Cattivo presagio”, mormorò un uomo passandomi accanto, “dalle mie parti questi tramonti indicano sconfitta in tempo di guerra.”

Non era ciò che pensavo, ma non controbattei.

 

D’un tratto le trombe dell’adunata squillarono stridendo e il loro suono si affastellò al cupo mormorio del vento.

Allora, come uno sterminato corteo di spettri, gli uomini si radunarono nella spianata. I panni di lino sventolavano sinistri, riverberando le fluttuanti luci di mille bracieri situati all’interno, attorno agli altari nascosti.

Il generale era in piedi accanto all’ingresso del recinto e il sacerdote gli era al fianco, avvolto in candide vesti, e fra le mani stringeva alcune tavolette di bronzo avvolte in un panno di tela ingiallita. Quando il silenzio fu assoluto, il sacerdote svolse le tavolette e le innalzò dicendo a gran voce, di modo che le sue parole potessero essere udite dal maggior numero di uomini possibile: “Queste sono le tavole dei riti degli antenati, che invocarono il dio della vittoria a loro favore quando vollero strappare ai nemici la terra sul mare. Alla tradizione dei padri ci atterremo.”

 

Entrò quindi nel recinto, sparendo alla nostra vista, e cominciò il rito, sgozzando sugli altari, al cospetto del simulacro del dio della vittoria, decine di vittime, animali selvatici e domestici i cui urli agonizzanti fendevano il silenzio attonito all’esterno. Infine i rantoli cessarono e ognuno degli uomini, ancori in piedi nella notte ventosa e gelida, si aspettava che il rito fosse terminato, ma il sacerdote tardava ad uscire dal recinto. Attorno al recinto le fiaccole proiettavano le loro luci oscillanti sui volti dei guerrieri chiamati a far da guardia e sulle lame delle loro spade sguainate. Il generale chiamò infine un messo, parlandogli sommessamente per alcuni istanti. Questi provvide a far disporre dai comandanti tutti gli uomini secondo stirpe e anzianità.

 

Ad uno ad uno i guerrieri vennero introdotti nel recinto e fatti avvicinare agli altari. Dall’esterno nulla poteva essere compreso di quel che accadeva all’interno e gli uomini erano fatti uscire dal lato opposto da cui erano entrati. Per questo motivo solo quando venne il mio turno conobbi ciò che avveniva nel recinto sacro. Mi condussero all’entrata e mi spinsero quasi con violenza accanto ad uno degli altari. Lì, eretto e terribile a vedersi, stava il sacerdote. I suoi occhi ardenti si fissarono su di me ed io non riuscivo ad osservare che quelli.  Con durezza mi fece giurare il silenzio su ciò che stava accadendo. Ma non era tutto. Alzando un pugnale grondante di sangue me lo puntò al collo e sibilando come un serpente mi ingiunse:

“Ora ripeti con me o muori!”

Mi diede appena il tempo di comprendere quel che aveva detto e poi continuò:

“Giuro di andare in battaglia ovunque i miei comandanti mi condurranno, di mai fuggire dal campo, di uccidere senza pietà chiunque vedrò fuggire. Se non prestassi fede alla parola data, dopo innumerevoli e meritate torture, morte violentai colga la mia stirpe, ogni suo individuo sia squartato e fatto a pezzi, senza mai trovare sepoltura, e la sua ombra sia condannata a mai trovare riposo e vagare senza requie fino alla fine dei tempi. Questo occorra a me, alla mia famiglia e a tutta la mia stirpe!” mi scrutò cercando sul mio volto l’effetto di questo giuramento.

“Ripeti o muori!” minacciò premendomi la punta del pugnale sulla giugulare. Ma io non esitai: giurai tutto d’un fiato e il sacerdote sorrise, leggendomi in viso il desiderio infuocato di combattere. Gli sorrisi di rimando, quasi stolidamente, e fui lasciato andare. Mentre mi dirigevo all’uscita un cumulo che prima mi era parso di vecchi sacchi prese identità: alle carcasse degli animali erano mescolati i corpi pallidi e impiastrati di sangue di parecchi guerrieri, alcuni dei quali mi erano noti. Erano coloro che avevano rifiutato di giurare. Con gli occhi colmi del vermiglio acceso e grumoso del loro sangue e lo spirito pieno di raccapriccio uscii nell’aria gelida e inodore della notte, ritrovando il mio alloggio e crollando addormentato sul mio giaciglio, esausto per l’orrore e per il desiderio di dimenticare.

 

Fummo svegliati che era ancora notte: la battaglia era imminente. Indossai, svuotato di ogni pensiero, corazza, bandoliera e schinieri. Assicurai spada e pugnale alla cintura e mi posi l’elmo sul capo. Impugnai lancia e scudo e mi diressi, perso nella folla di guerrieri, verso il campo di battaglia. Mentre attendevo che avesse inizio il combattimento, i pensieri tornarono nella mia mente e mi resi conto che tutto il mio impeto amoroso verso la guerra era stato fiaccato, invece che rafforzato, dal rito terrificante della sera precedente. Non avevo più desiderio di udire il cozzare delle spade e degli scudi né di provare l’acre usto di sangue nemico. Al suo posto, nelle mie narici, già regnava invincibile l’odore dolciastro dei corpi dei guerrieri, miei compagni, sacrificati alla disperazione.  Ero come sbiadito nella nebbia che diradava nel crepuscolo scoprendo cime di monti innevati. Ma implacabili squillarono le trombe e le prime file si catapultarono contro il nemico. Poi giunse il nostro turno e l’urgente istinto di sopravvivenza mi riscosse dal torpore. Abbattei facilmente vari nemici meno imponenti di me prima di trovarmi, la lancia ormai spezzata, di fronte ad un guerriero dalla spada ancora lustra. Lo affrontai ferocemente: era alto come me e non pareva meno forte. Combatteva valorosamente e non fu semplice atterrarlo. Vi riuscii infine colpendolo di taglio alle gambe e facendolo cadere sulle ginocchia. Lui reagì bloccandomi il braccio destro mentre cercavo di colpirlo ancora. Ma il mio braccio sinistro era stato addestrato al combattimento altrettanto che il destro e, in esso, vi erano pari forza e agilità. Così adoperai lo scudo come un’arma e colpii l’uomo al collo.

 

Quello stramazzò con la schiena al suolo senza quasi più respiro, lasciando la presa sul mio braccio. Allora gli puntai la spada fra il collo e la spalla, lì dove non c’era protezione, e affondai la lama. Ne sgorgò un fiotto di sangue scuro che sprizzò ovunque. Preso dall’esaltazione della vittoria mi chinai e gli strappai l’elmo, scoprendogli il volto. Era ancora vivo e respirava appena, gli occhi semichiusi. Era giovane, più giovane di quanto mi aspettassi, e la barba era ancora un velo trasparente sul suo volto. Conoscevo già quel volto. Rimasi di sasso e mi chiesi inorridito il suo nome e la terra da cui proveniva. Era davvero arrogante come ci avevano riferito oppure era stata solo la volontà di conquista dei suoi capi a costringerlo ad una lunga marcia lontano da casa? Forse avrebbe preferito restare lì, in pace, a realizzare le promesse di gioia della sua giovinezza. Forse la fame e la carestia lo avevano spinto a cercare un magro ma regolare pasto nell’esercito della sua terra. Colui che, poco prima, era stato il mio valoroso nemico aprì gli occhi e io percepii il soffio della sua vita abbandonarlo e vidi la morte dilatare le sue pupille scavate in iridi di un blu inaudito.

 

Gli occhi della Signora mi tornarono alla mente, con le sue profezie di dolore e devastazioni. Ero io l’uccisore del guerriero della visione, di colui la cui sorte tanto avevo compatito, e come in essa il suo cadavere diveniva il mio, così la sua morte, lì, sul crudo e reale campo di battaglia, divenne la fine della vita che, fino ad allora, avevo condotto. Mi alzai di scatto, tolsi l’elmo per fuggire il senso di soffocamento che mi attanagliava e restai immobile, impietrito nel turbine della battaglia attorno a me: finalmente comprendevo le visioni donatemi dalla Signora, che mi danzavano davanti, non più obliate dal mio spirito leggero, e mi nascondevano la realtà circostante. E compresi la crudele insensatezza della guerra, che solo dolore arreca agli uomini, e considerai quale fosse lo stolto tesoro cui i figli degli uomini donavano l’anima per timore del nulla. Fu allora che un dolore acuto al capo e la percezione della gamba che cedeva sotto il mio peso mi riportarono alla realtà, giusto in tempo perché la vista mi si oscurasse di nuovo. Caddi in deliquio e per me la battaglia e il mio ruolo di guerriero finirono sul nudo terreno gelato. Nella nebbia confusa che regnò nella mia coscienza vidi solo il simulacro del dio della vittoria abbattuto e reso polvere dal turbine di tempesta che scendeva dalla Grande Montagna e il giovane che avevo ucciso unirsi alle ombre luminose di coloro che andavano ad abitare nel regno sopra le nuvole, liberi da tutto e ricchi ormai di tutto, il cui canto di gioia si perdeva nell’armonia perfetta del vento.

 

Ero un guerriero. Ora sono soltanto il Vecchio del Bosco, e la mia unica battaglia è quella contro le fiere e il gelo che percuotono le selve in cui ho posto la mia casa. Dopo un lunga convalescenza presso gente buona e semplice, tornai alla mia terra, ma non rimasi che pochi istanti nella casa dei miei padri. Ora è mio fratello a comandare la mia touta al posto mio. Mio padre è morto da tempo, senza aver perdonato la mia fuga nel bosco e solo mia madre, ormai anche lei in compagnia degli avi, comprese, come sempre, la mia scelta. Restai pochi giorni nella mia casa. Poi cercai la Signora, zoppicando nel bosco, ed ella si fece trovare, ancora seduta accanto alla fonte. Mi insegnò ad ascoltare il vento e lo stormire delle foglie, la musica celata nelle acque e lo scorrere della linfa negli alberi. Mi insegnò che il suo Signore parlava in tutto con voce di brezza gentile e che il suo perdono stillava come miele sul capo dei suoi figli ostinati. Mi insegnò a curare i mali degli uomini con erbe e preghiere e a svelare alle coscienze i segreti nascosti che imputridiscono gli spiriti. Divenni suo servitore e per lei viaggiai ovunque mi inviasse. E a tanti fra gli aedi, come mio padre desiderava, giunse la mia storia ed essi presero a cantarla, sulle cetre, nelle corti dei potenti signori, spesso da loro non compresi o addirittura scacciati. Gli aedi narrano però del Vecchio del Bosco, che era un guerriero, e che ora canta con gli uccelli e danza con il vento nelle foglie.

 

 

bsarandilme@gmail.com – 349 6149512

 

 

Beatrice Sabatini è nata il 29 ottobre 1969 a L’Aquila, città dove vive tuttora. E’ laureata in Lingue e Letterature straniere e diplomata in Pianoforte. Per alcuni anni si è dedicata all’insegnamento delle lingue, Inglese e Francese, e del Solfeggio, curando contemporaneamente traduzioni e la scrittura di brevi saggi. Attualmente si occupa di Beni Culturali. Nutre dall’infanzia il “vizio segreto” della scrittura, componendo racconti brevi di genere fantastico e mitologico. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo “Il segreto dell’Aquila, la vera di Collemaggio” (Ed. ilmiolibro.it, pagg. 462, € 25 – Amazon, formato kindle € 4,99) , i cui personaggi si muovono sullo sfondo di una testimone silenziosa e magnifica degli eventi narrati, la città dell’Aquila, con la sua storia, la sua arte, la bellezza della sua natura fino ai giorni del dolore dovuti al sisma del 2009.

 

 

 

 

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