Di seguito l’articolo che anticipava l’evento di Teramo.
Martedì 29 aprile alle ore 10:30 si terrà presso il Centro didattico gestito da “Solstizio” (Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo) il workshop che anticipa e annuncia l’esposizione Deborderline a cura di Martina Lolli. Durante tale evento, pensato per gli studenti di Scienze della Comunicazione, ma aperto a tutti, si avrà l’occasione di vedere in anteprima stralci dei video presentati alla mostra e di conversare con i tre protagonisti di Deborderline, Flavio Sciolè, Fabio Scacchioli e Vincenzo Core, i quali instaureranno un dialogo con gli studenti soffermandosi sui procedimenti tecnici che hanno portato alla realizzazione delle loro opere. Al loro fianco vi saranno gli ideatori di “Solstizio” che entreranno in merito ai progetti europei che stanno portando avanti dal 2008.
Il workshop nasce come una collaborazione con tale progetto, luogo fisico e virtuale di connessione; le consonanze che legano la mostra al sopraccitato programma sono da riscontrare non solo nell’utilizzo dei new media, ma anche nella volontà di creare una piattaforma aperta che metta in relazione diversi individui e che si innervi, appunto, dal e nel territorio in cui viviamo per aprirsi al globale attraverso le vie informatiche. Se gli artisti di Deborderline indagano l’influenza della tecnologia e del mutamento ontologico di spazio e tempo della nuova dimensione dell’infosfera sull’uomo contemporaneo, il progetto “Solstizio” sfrutta le potenzialità del “cervello globale” per creare un’opera d’arte transeunte e cangiante. Il workshop sarà il momento effettivo in cui l’arte in mostra il 3 maggio potrà coniugarsi alle finalità di “Solstizio” in una riuscita congiunzione di sperimentazione artistica e azione socio-didattica e per porre le basi ad un network reale e virtuale in cui tutti sono invitati a partecipare.
DEBORDERLINE
Questa esposizione nasce da una necessità, quella di prendere coscienza dell’era in cui siamo immersi, il Postmodernismo nelle sue ultime propaggini. Dominante culturale teorizzata da Fredric Jameson, è caratterizzata da un forte sviluppo del settore terziario sostenuto dal sistema delle reti che informa una politica economica globalizzata. A segnare forse l’uscita dall’era del Postmoderno è la tendenza a riappropriarsi di una realtà mistificata dall’apporto massiccio dei media e delle tecnologie informatiche degli anni Novanta come la realtà virtuale e simulata, i dispositivi di tempo reale, i cosiddetti “telescopi domestici” (Paul Virilio), portatori di una nuova concezione di temporalità che si traduce in un flusso costante, ininterrotto. Tale getto continuo denominato “total flow” si annuncia nel fitto palinsesto delle emissioni televisive e radiofoniche e in tutti quei monitor costantemente accesi all’interno delle nostre abitazioni; esso è il latore della ‘tele-visione’ e manifesta la condizione di essere perpetuamente cablato dell’uomo di oggi. Il consumo postmoderno, non più legato ad un oggetto, fa capo ora alla coscienza del tele-fruitore, annichilito e “lineappiattito”, per dirla alla Gibson, dinanzi alla verità e verosimiglianza televisiva. Tutto ciò era già stato predetto dal filosofo francese Guy Debord il quale nel 1967 consegna alle stampe “La società dello spettacolo” – un saggio scritto con la tecnica situazionista del détournement – che si apre con una triste profezia enunciata nel quarto frammento: “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”. Guy Debord viene considerato, dai tre artisti scelti – Flavio Sciolè e la coppia Fabio Scacchioli / Vincenzo Core – un maestro, e il fermento artistico nato attorno all’Internazionale Situazionista la matrice culturale della loro arte; da qui il nome dell’esposizione, “Deborderline”, ad indicare non solo la loro affinità alle idee del pensatore francese, ma anche il loro essere artisti liminali (in Italia più che all’estero) di difficile ma raffinata comprensione, forse perché a volte scomodi. Scacchioli, Core e Sciolè mutuano dai situazionisti svariate tecniche – che riattualizzano alla luce di novelle tecnologie – ma anche l’ideologia portante del gruppo, ovvero il bisogno di sfatare le logiche precostituite della spettacolarizzazione globale e del consumo del tempo libero dell’uomo e l’obbligo di “attivarsi” in favore di una realtà all’apparenza logica sebbene manipolata dal montaggio invisibile dal surplus del capitale. In molti si sono prodigati nella nobile causa di un j’accuse alla mistificazione dello spettacolo, ma in pochi sono riusciti a creare opere capaci di abbatterla. Riappropriarsi delle immagini e di una figurazione fuori dagli schemi significa riappropriarsi dell’essenza umana; il détournement, tecnica neoavanguardistica applicata ad ogni forma d’arte, si prospetta come l’antidoto tanto per i format ready-made spettacolari quanto per l’isteria derivante dall’eterno presente della tecnologia (la tele-presenza), un hic et nunc opprimente che degrada l’uomo a soggetto incapace di vivere il presente effettivo della sua esperienza. Zygmunt Bauman spiega con parole chiarissime l’odierno assetto temporale:
Una caratteristica generale della condizione postmoderna è l’appiattimento del tempo e la condensazione della percezione di un flusso temporale infinitamente espandibile nell’esperienza dell’epoca attuale, o la sua frammentazione in una serie di episodi autonomi che vanno vissuti ciascuno come un’esperienza intensa dell’attimo fuggente e, per quanto possibile, disgiuntamente dai suoi precedenti e dalle sue conseguenze.
L’esposizione “Deborderline” echeggia le parole di Bauman e si offre come un intrattenimento deliberatamente effimero, un’installazione irripetibile da godere appieno nell’attimo della sua manifestazione. Al suo interno Scacchioli, Core e Sciolè propongono delle alternative per rivitalizzare un’immagine divenuta simulacro e sganciata da ogni referenza reale; il loro mezzo più potente è il video, anzi, il “videotesto” postmodernista, quella forma d’arte che ha sopraelevato il “total flow” massmediale a gesto estetico. Nella corrente senza interruzioni del ‘videotesto’ quanto spazio ha la narrazione in sé? Ben poca. Stando alle parole di Debord si evince che “la rappresentazione in differita è luogo per eccellenza della falsificazione sociale”, dunque la narrazione stessa è lo strumento del sistema socioeconomico vigente, l’“oppio” della massa postmodernista. Doug Aitken, Pierre Huyghe, Stan Douglas, sono solo alcuni artisti che si sono schierati a favore di una riappropriazione del tempo falsato dall’industria cinematografica per cercare di recuperare una memoria, una durata storica che possa sanare la coscienza umana frammentata e sfaccettata in tante ed equivalenti registrazioni istantanee. Sulla loro falsariga Scacchioli e Core indagano la narrazione, la interrogano e fanno risuonare ogni immagine che, dalle ceneri della spettacolarizzazione, vive un nuovo corso in una consonanza musicale del tutto peculiare. “Siamo già gli spettri di una tele-visione” afferma Derrida e le immagini visive e sonore dei due artisti sono fantomachie dell’accadere puro pronte alla metamorfosi. Fabio Scacchioli prende stralci di film, li manipola come ready–made rettificati per farli rivivere in tutte le loro sfaccettature semiotiche (rumore, parola, musica) e derivarne immagini “prismatiche” potenziate dalle colonne sonore originali di Vincenzo Core. Gli artisti attuano una mise en abîme delle istanze dello spettacolare poiché partono dalle loro convenzioni, come l’adozione di film hollywoodiani, optando per un remake creativo. Sciolè parla di delirio, di tedio, di un uomo che non è più macchina “perfettibile” (semmai “anti-macchina”) che cade in errore e ivi si crogiola attraverso azioni prive di senso e motti banali. Il suo è un anti-cinema che, seppur evocando gli stilemi dei B-movies all’italiana, fa tabula rasa di ogni canone a favore di una presentazione scabra e a volte irritante dell’attimo di krisis. Lo scacco è insito nei ‘videotesti’ di Flavio Sciolè sotto forma di un imprevisto tecnico che si riversa tanto sulla macchina da presa, quanto sulla sua persona che diviene corpo-icona, soggetto isterico di un’anti-narrazione che fa leva su atti inutili e ripetitivi e su poche parole sillabate accanitamente; ora il meccanismo si inceppa, il soggetto non riesce più a connettere i significanti enunciati con il loro senso; le parole divengono vuoti gusci, “logotipi” sconnessi che presiedono l’“anti-narrativa”. Debord ci illumina: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”, ma per Flavio Sciolè occorre nuovamente detournare la proposizione: “Nel mondo realmente rovesciato, il falso è un momento del vero”. Decostruire le effigi già date e ri-figurarle di nuovo; è questa la soluzione che porta verso la possibilità di mettere in forma l’altro del dato, al di fuori di qualsivoglia copione stabilito. Niente montaggio, niente postproduzione per questi artisti, ma tutt’al più una “dérive” delle istanze già date e uno sfruttamento a fondo delle potenzialità di una macchina che si pretende infallibile.
Martina Lolli