Matteo Renzi ha stoppato la riforma del Mibact che il ministro Franceschini voleva far approvare dal Consiglio dei ministri. Il perché lo immaginiamo con facilità: la riforma non ha nulla di rivoluzionario, si limita pur con le buone intenzioni ad aprire i musei maggiori a figure esterne, dunque potenzialmente anche a manager, e rivede la struttura del Ministero limando il numero dei dirigenti in linea con il dimagrimento richiesto dalla spending review. Il cambiamento epocale con cui è stata presentata alla stampa non c’è, e il premier se ne è accorto. Inoltre la proposta di Franceschini ha il difetto imperdonabile di lasciare intatto il potere delle soprintendenze, che Renzi ha sempre detto di voler abolire. Dunque lo stop imposto dal capo dell’esecutivo.
Ma come mai il ministro non ha proposto una riforma rivoluzionaria? Come mai, se le soprintendenze sono strutture ottocentesche da superare, non si è avanzata una traumatica revisione di queste istituzioni?
Voci di corridoi all’interno del Mibact riferiscono che appena è uscita la notizia che Franceschini stava rivedendo con decisione la struttura del Ministero, gli sono state inviate una dietro l’altra petizioni interne di soprintendenti e funzionari che lo scoraggiavano dal farlo. Pressioni che sono giunte anche al presidente del Pd Matteo Orfini, che essendo stato capo del dipartimento cultura del partito fino a pochi mesi fa ha intessuto rapporti di conoscenza con i dirigenti dei beni culturali. Questa difesa corporativa dei funzionari, dicono le indiscrezioni, ha avuto il risultato di mitigare la riforma, che avrebbe dovuto essere molto più incisiva.
Inoltre quando la riforma è stata resa pubblica, sono iniziati a circolare appelli firmati da molti dipendenti del Mibact affinché anche quei piccoli passi in avanti venissero rimangiati.
Insomma l’apparato del ministero si è mosso affinché nulla cambi (per inciso, il totale annuo lordo del segretario generale, tra stipendio e varie retribuzioni, è di 194.453 euro). Il risultato è raggiunto: la riforma, forse annacquata da queste spinte, non aggredisce l’elefantiaca burocrazia delle direzioni generali e delle diramazioni territoriali.
Il tradimento rispetto alla rivoluzione invocata da Renzi è palese. Ma un altro tradimento è avvenuto in questi giorni: mentre il premier si affanna a dire che, per far ripartire l’economia, occorre lasciare i soldi nelle tasche della gente, dunque non dissanguarla di imposte, il ministro della cultura ha appena applicato, con il decreto sull’equo compenso, una nuova tassa sui telefonini e smartphone.
Delle due l’una: o Franceschini smette di parlare di cambiamento epocale e più modestamente amministra l’esistente come sta avvenendo, oppure mette davvero mano nella carne della burocrazia e del sindacato culturale, rivede con drastici tagli il Codice dei Beni culturali, gli stipendi dei dirigenti e le funzioni delle soprintendenze. Solo allora, se avrà il coraggio e i numeri per farlo, potrà indire una conferenza stampa sventolando ad ogni frase la parola: Rivoluzione.
Elisabetta Schiavi