L’AQUILA – Sono molto lieta che sia l’Università degli Studi dell’Aquila, in particolare il Dipartimento di Scienze Umane, il luogo delegato ad accogliere col calore e l’affetto del pubblico il drammaturgo aquilano-americano Mario Fratti, per la presentazione di una sua novità editoriale, la silloge Volti (Pescara, Tracce, 2014 ).
La presenza, in questo tavolo dell’Aula Magna, della Rettrice dell’Ateneo aquilano, prof.ssa Paola Inverardi, e di Goffredo Palmerini, instancabile ed eccellente operatore culturale del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo, è ulteriore segno del legame sinergico tra accademia e territorio e tra questo e i suoi figli eccellenti nel mondo. Saluto pertanto con affetto la presenza di Mario Fratti in questa sede, egli che ha insegnato alla Columbia University e all’Hunter College of the City University di New York, metropoli in cui egli vive dal 1963.
In questa seconda università, l’Hunter College, ho conosciuto Mario Fratti nel 1998, in occasione del Convegno Internazionale di studi su Ignazio Silone, organizzato nel ventennale della morte dell’illustre scrittore da quell’ateneo, nella persona della docente italianista, Maria Nicolai Paynter. Conoscere, in America, a New York, non solo un abruzzese ma addirittura un aquilano, drammaturgo e docente, del quale qui all’Aquila non avevo mai sentito parlare, mi parve, allora, cosa molto bella e onorevole per la mia Città, essendo, egli, un suo figlio che si era distinto per motivi culturali ed artistici fuori dai confini nazionali, nel grande mare del mondo.
Era il mese di ottobre, e l’evento coincise con l’annuale Festa degli Italiani. Ricordo che trascorremmo insieme l’intera serata durante la sontuosa cena, ove rimasi colpita dalla vistosa accuratezza generale: saloni sfarzosi, sottofondo musicale, abiti femminili molto appariscenti, uno straripante e squisito buffet. Era l’America. In quell’occasione, sperimentai l’innata abilità osservatrice di Mario Fratti: occhi azzurri vivaci e mobilissimi e uno sguardo penetrante che sul suo volto sempre atteggiato a sorriso si convertiva immediatamente in parola: un paragone, una metafora, un giudizio di valore talvolta mordace, ma talmente vero che, impressionata, gli confessai che non osavo chiedergli cosa cogliesse in me. Con sguardo serio mi disse: «Stare con voi che venite dall’Italia è come stare a casa» e percepii tutta la sincerità di quel suo bisogno di essere se stesso. Quello che mi colpì in lui, fu questo suo duplice aspetto: una intelligenza simpaticamente estroversa ed arguta che sottendeva tuttavia ad un certo scetticismo, ad una velata, generale, malinconica diffidenza verso tanta esteriorità, dove, pur tuttavia, egli si muoveva bene e a proprio agio.
Ho poi incontrato nuovamente -artefice il bravo Goffredo Palmerini- Mario Fratti all’Aquila nel 2007, in varie cerimonie organizzate dalla Città e dal Teatro Stabile in onore dei suoi 80 anni. Fu presentato, in quell’occasione, nel salone della Presidenza della Provincia, alla presenza delle autorità cittadine il suo bel dramma, Eleonora Duse, dove egli ritesse magistralmente la vita dell’artista attraverso la trama delle opere che ella ha interpretato. Un dramma che era stato rappresentato per la prima volta in America nel 1967, e che nel 2007, a 40 anni dalla sua prima rappresentazione, fu tradotto in italiano, dalla lingua inglese, da Emanuela Medoro con una mia introduzione e stampato a cura della Provincia, col patrocinio del Comitato Aquilano della Società Dante Alighieri di cui ero allora presidente.
Personalità simpatica e coinvolgente quella del drammaturgo Mario Fratti! Ad ascoltare una sua recente video-conversazione, emerge una persona ottimista verso la vita molto più di quanto non traspaia dalle sue opere. Ottimista, forse per gratitudine alla vita stessa, che lo ha dotato di intelligenza, esuberanza e immaginazione vivaci; di ingegnosa e volitiva curiosità verso la cultura e verso il mondo. Si è laureato giovanissimo in lingue straniere all’Università di Venezia; ha vinto, subito dopo, un premio RAI per un dramma mai poi mandato in onda; e, con una scelta intuitiva riuscita, a 36 anni si è trasferito ex abrupto in America, come critico teatrale per testate giornalistiche italiane. Lì ha frequentato collaborato con Lee Strasberg, che con l’Actor’s Studio mise in scena una sua opera, e da allora, in questi 50 anni, Mario Fratti ha scritto più di 90 testi teatrali che sono stati tradotti in varie lingue e rappresentati in diverse parti del mondo, in più di 600 teatri; testi ispirati anche ad eventi e personalità note, tra i quali si ricordano Che Guevara, Pinochet, il Cile del 1973, Kissinger, Tangentopoli, Obama, la famosa Nine , ispirata al film 8 ½ di Federico Fellini. Suoi grandi maestri d’arte e di vita, confessa egli stesso, sono «Pirandello, per la maschera che ognuno di noi ha, Arthur Miller per l’avidità, e Tennessee Williams per la poesia» (Diario proibito, Napoli, Grauseditore, p.181)
Oggi, Fratti è un uomo pago di aver realizzato e di realizzare ancora quanto la propria volontà ha teso e tende a conseguire. Mai drammaturgo e autore al comando degli altri, attentissimo e paterno maestro dei giovani artisti, è stato sempre attratto dalla realtà, informato sugli eventi del mondo che sono fonte prima della sua ispirazione e della sua riflessione artistica. Ancora oggi, con cadenza settimanale, il noto giornale online italo-americano La voce di New York ospita suoi brevissimi atti unici, piccoli quadri in forma di dialogo, in cui due protagonisti, una donna e un uomo, Chiara e Benito, espongono con pacatezza e senza voler imporsi l’uno sull’altro i propri punti di vista su un evento, su una situazione attuale contingente, informando e formando il lettore su aspetti di essa poco noti, inediti, o talmente scontati da non spingere alla riflessione il lettore che si ferma all’aspetto epidermico delle notizie, sottovalutando la vera essenza della realtà che non si presenta mai univoca. Il più recente, per esempio, sugli islamisti dell’ISIS, a un certo punto recita:
«Chiara: Hanno anche distrutto tutte le statue della madonna.
Benito: Le statue non soffrono. Le donne, le vittime, sì»: da parte dell’autore, una chiara presa di posizione a favore della vita e di chi è creatrice di vita, prima che dell’arte e della religione, in questo caso.
Teniamole a mente per meglio “entrare” nei suoi versi.
Ma torniamo a Mario Fratti, oggi ultraottantenne con una verve ancora fortemente giovanile che incanta, e noto al suo pubblico americano e italiano da sempre come drammaturgo. Bene, da due anni, sorprendendo il lettore italiano, Fratti giunge dall’America con due generi letterari diversi dalla drammaturgia: il romanzo e la poesia. Anche nella sua produzione artistica, come accade nella trama dei suoi drammi, potremmo dire, un finale, (che ci auguriamo lungo e mobilissimo e con ancora tante sorprese) con lo scoppio!
A guardar bene, infatti, Mario Fratti sta applicando, nel disegnare il copione della propria vita, il metodo con cui edifica i suoi drammi. Poche regole -afferma egli stesso in un’intervista-: «Per scrivere un copione che funziona bisogna avere in mente la storia[ il fatto], e sapere da subito come finisce, possibilmente con un colpo di scena che il pubblico non dimenticherà» -una struttura che già piaceva molto a San Bernardino da Siena le cui prediche, costituite da un racconto concreto, breve e accattivante, concentravano nell’ultima frase, a sorpresa, un sano insegnamento morale-.
Bene, fra i colpi di scena che Fratti ha attuato in questi ultimi due anni, oltre all’avvicendare a sorpresa un romanzo e una silloge poetica, c’è anche l’affermazione che le stesure sia dell’uno che dell’altra risalgono alla propria giovinezza; antecedenti, quindi, sia all’intera sua carriera di drammaturgo sia alla sua stessa emigrazione cólta in America: lo scorso anno, col dissacrante romanzo autobiografico Diario Proibito, sul regime fascista della Repubblica di Salò, ambientato, non realisticamente, all’Aquila; quest’anno con una silloge in versi freschissima di stampa, edita da Tracce di Pescara, dal titolo, concreto ma sfuggente, Volti , che non ha corrispondenza con nessun altro titolo all’interno del libro; un sostantivo plurale indeterminato come indefinibile è il volto nell’immagine di copertina: una specie di cristo mefistofelico, dallo sguardo impenetrabile e dal sorriso enigmatico – ; una lente di ingrandimento, il titolo, che non restringe, tutt’altro, l’angolo visuale del testo, quasi a ripetere con l’Edipo re, che l’uomo è già di per sé un enigma. La silloge è dotata, inoltre, di due importanti ed approfonditi contributi introduttivi, rispettivamente di Paolo Di Paolo, di Gino Spinelli de’ Santelena, e di una interessante poesia, quasi un preludio, di Joseph Tusiani.
E qui sorge un altro interrogativo. Il nome di Gino Spinelli de’ Santelena dovrebbe riferirsi all’illustre critico, saggista e studioso d’arte e letteratura, nonché poeta, pugliese, che diresse dal 1945 la rivista internazionale Pensiero e Arte, e che è scomparso nel 2001. Se così è, viene da chiedersi da quanto tempo il nostro Fratti accarezzasse l’idea di dare alle stampe questo volume. Forse, in previsione di farlo in futuro – il famoso colpo di scena finale – aveva sottoposto l’inedito, prima del 2001, all’acribia valutativa e interpretativa dell’illustre critico, le cui indagini esegetiche si caratterizzano per la loro lettura psicologica piuttosto che linguistico-stilistica del testo, come emerge, appunto, dallo scritto che qui si pubblica.
Il terzo intervento, il preludio di Joseph Tusiani, non è meno eccellente: il noto poeta, saggista, scrittore pugliese, anch’egli italo-americano, autore di poesie in italiano, in inglese, in latino e in dialetto garganico, in un sonetto perfetto, anche se non diviso in strofe, a mo’ di lettera, sintetizza tutti gli aspetti presenti nella silloge:
«[…] sai misurare l’ora breve e lunga,
tu che in tal modo cogli istante ed anno,
ritmo di tempo e risonanza eterna.
Io sento e tu fotografi l’affanno
Che da le umane menti si squaderna;
tu numeri le lagrime ch’io tergo,
io curo le ferite e tu le conti;
io di mia fede mi fo santo usbergo,
e tu fra bene e male innalzi i ponti
[…]». (p. 11)
Il miracolo della buona poesia che sa condensare in poche parole un universo! E un universo umano e reale, perché coglie le tante sfumature dell’essere e del modo d’essere, è quello che Fratti fa muovere nelle 115 composizioni del testo Volti, che ha solo due sezioni: la prima, con 101 poesie, è senza titolo; la seconda , con 14 poesie, indica solo la dicitura «Scritte dopo il 1963, a New York », lasciando intuire che la prima sezione si riferisca alle poesie scritte in Italia. Solo a lettura ultimata dell’intero volume, si colgono la complessità della folla mosaicale dei numerosi Volti che emergono da questo testo semplice ma non facile, perché facili non sono mai l’esistenza e l’animo umano: di quello che agisce, come di quello che osserva e valuta, fotografati, a sorpresa, nella immensa scena del vivere: volti, come modi di apparire e di mostrarsi di persone e cose, l’aspetto esteriore delle quali è un riflesso della realtà interiore.
La scelta stilistico-strutturale operata dal poeta, inoltre, con l’uso di un registro linguistico quotidiano, con versi franti, brevissimi -spesso di una sola parola- che richiedono costanti pause di lettura, perché la parola, quasi sempre concreta, penetri nella mente e nel cuore del lettore, e con strofe altrettanto brevi, in testi cortissimi, quasi epigrammi, vista la brevità e la icasticità che li caratterizzano, tende a dare uno spessore morale al messaggio. Così che, quando si torna a leggere i singoli componimenti per meglio definire i tanti volti, perlopiù deformati, il sapore che essi lasciano è diverso, più amaro, ma, non per questo, meno solidale. Sono schizzi rapidi, come quelli che un vignettista traccia di una scena realistica e unica:
«lei, / con un braccio infilato / a ribadire uno stato // lui, / con la mano al bambino / a dire un dovere //sicura lei // triste lui // piagnucolante, / il bambino» (FAMIGLIA, 113).
Talvolta sono frammenti epigrammatici fulminanti:
«l’abbiamo tradita mille volte, / ignorandola. // Ci ha traditi una sola volta, / uccidendosi» (UNA POETESSA, 118);
tal’altra veri haiku, come questo, dove il dettaglio della natura in una stagione, bene si lega alla condizione umana:
«Mani aperte / palme venate /foglie // maledicono / il cielo / che uccide // dopo breve stagione» (AUTUNNO, 94).
Come nel suo teatro e nel suo romanzo -dai quali potrebbero trarsi tanti di questi frammenti-, così, in questi suoi versi, Fratti non si discosta mai dalla realtà delle cose, dell’esistenza, della quotidianità, unica e vera fonte delle sue illuminazioni lapidarie.
Alcuni suoi componimenti potrebbero essere rocambolesche didascalie teatrali:
«gambe malferme. / un bastone // nasconde la destra, / a cuccia, sotto il cappotto, / quando elemosina //.parallelo alla sinistra, / il bastone //illusione perfetta/ d’invalidità». (GAMBE MALFERME, 31),
dove la spia poetica e è tutto in quell’ironico “a cuccia” a denunciare lo scherno verso il falso invalido. Altri componimenti sono frammenti taglienti di dialogo:
« –Non ho toccato più libri / -nemmeno io // ridono» (STUDENTESSE, 67)
e ognuno può cogliervi lievità giovanile o superficialità o ignoranza in nuce o degrado della cultura, ecc.. Questo che segue è un irriguardoso, ma dolorante contraltare del testo prima letto: «-lo sai come piscio? /- pensaci //- non ho braccia io. / -come i cani» (IL MUTILATO, 61).
Qui, la costruzione a chiasmo, dove il dialogo è in realtà un monologo, e il titolo brutalmente esplicito Il mutilato, rispetto all’altro, Gambe malferme, dà tutta la cifra della denuncia del poeta castigatore degli squallidi inganni, come, altrove, dei vizi:
«-complimenti. / una figlia magnifica. // non è sua figlia. / vuol solo punirlo / d’averla comprata». (UN INCONTRO, 27).
Non si pensi tuttavia che intento di Fratti sia quella di porsi sul piedistallo della esemplarità o sullo scranno del giudice. Uomo tra gli uomini , beffardo verso la stupidità e i vizi della società, solidale col dolore dell’umanità, il poeta riconosce, come recitava il Mario quattordicenne di Romanzo proibito, di essere anch’egli un minuscolo «piede nudo che svela un mondo crudo». Consapevole che vivere equivale a lottare, attendere e sperare, e che per alcuni lo è più degli altri, e che tra questi altri anch’egli a suo tempo ha avuto la sua parte dolorante -come emerge dalla poesia SOGNI INQUIETI:
«Torture, persecuzioni, agonia. // Respinto, deriso, nudo. // Ma al mattino, / sollievo /e gioia. // Stavo solo sognando. // Son vivo e felice /.e mi godo una mattina / di sole» (p.131) –
il poeta non può non chiedere perdono al proprio simile:
«Perdonami, /uomo / solo il tuo volto / merita il canto / fatto di dolore / attesa, desiderio». (PERDONAMI, UOMO,95). E’ l’unica poesia in cui appare al singolare la parola VOLTO, un volto dalle tante facce.
Un’ultima, breve, riflessione vorrei dedicarla proprio ai titoli dei componimenti. Per quanto breve, ogni testo ha il proprio titolo, che è sempre esplicativo, chiarificatore, talvolta essenziale a focalizzare nella giusta luce il testo che altrimenti risulterebbe ambiguo o generico. Segno della precisa volontà dell’autore di voler guidare il lettore fino in fondo nella lettura di questi volti, dei tanti volti, dove ognuno può ritrovare il proprio, i propri tanti volti in cui la vita ci deforma.
*docente di Critica Letteraria – Università degli Studi dell’Aquila