Cultura & Società

Teramo. Prosegue la nostra Péguy

Teramo. Continuano con gradimento del pubblico gli Eventi Péguy a Teramo. La mostra può essere visitata tutti i giorni,  su prenotazione  al 3287958158, sino al 9 novembre.

Il  giorno 3 alle ore 18 presso LA PRESTIGIOSA SALA SAN CARLO messa  disposizione dal Comune di Teramo il tema NON SI GUADAGNAVA, NON SI SPENDEVA E TUTTI VIVEVANO tende a richiamare l’attenzione del mondo dell’economia e degli operatori del settore, ma è rivolta a quanti interessati ai temi dell’economia e all’umano in genere , infatti  si potranno ascoltare brani dal libro  “Il Denaro”  di Charles Péguy, che hanno una valenza culturale attuale per qualsiasi persona che lavora e per qualunque attività umana.

Ad introdurre la serata il prof. Flavio Felice che insegna Storia delle dottrine economiche all’Università Lateranense.Lo seguiranno due interventi: l’uno dell’imprenditore teramano Vanni Di Giosia ( Alidoro) e l’altro dell’economo della curia di Teramo don Vinicio Di Donato.

Mentre il prof. Felice  collocherà l’opera di Péguy nel contesto storico del primissimo novecento, gli altri interventi  forniranno una testimonianza-reazione  mirata  a seguito della lettura del testo che poi  si potrà ascoltare attraverso la recitazione curata dalla compagnia teatrale “Associazione l’altro cantiere” di Guglionesi. 

Vi aspettiamo numerosi, certi di fare  insieme una esperienza di riflessione attualizzata sulle dinamiche economiche della nostra vita nel nostro temo attraverso la parola profetica di un genio su temi come: il denaro, la finanza, il lavoro, la gioia del lavoro, la solidarietà.

 

www.prospettivapersona.it

 

 

PS.

Alcuni aforismi dal libro “Il Denaro” di Charles Péguy:

“Lo si creda o no, noi siamo stati allevati nel seno di un popolo allegro. Un cantiere era allora un luogo della terra dove gli uomini erano felici. Oggi un cantiere è un luogo della terra dove gli uomini recriminano, si odiano, si battono; si uccidono.

Ai miei tempi tutti cantavano (me escluso, ma io ero già indegno di appartenere a quel tempo). Nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava; oggi vi si sbuffa. Direi quasi che allora non si guadagnava praticamente nulla. Non si ha l’idea di quanto i salari fossero bassi. Nondimeno tutti mangiavano. Anche nelle case più umili c’era una sorta di agiatezza di cui si è perduto il ricordo. Conti, non se ne facevano. Perché c’era poco da contare. Ma i figli potevano essere allevati. E se ne tiravano su. Era sconosciuta questa odiosa forma di strangolamento che oggi ci torce ogni anno di più. NON SI GUADAGNAVA; NON SI SPENDEVA; E TUTTI VIVEVANO. Era sconosciuta questa stretta economica di oggi, questo strangolamento scientifico, freddo, rettangolare, regolare, costumato, netto, senza una sbavatura, implacabile, accorto, costante, a modo come una virtù: una stretta in cui si è presi senza che si abbia nulla da ridire e dove chi è strangolato ha l’aria di avere così palesemente torto “.

 

 

“Abbiamo conosciuto un tempo in cui quando una brava donna diceva una parola, a parlare erano proprio la sua razza, la sua natura; era il suo popolo che si manifestava. E quando un operaio accendeva una sigaretta, ciò che stava per dirti non erano le parole stampate da un giornalista sul quotidiano di quel mattino. I liberi pensatori di quei tempi erano più cristiani dei fedeli di oggi. Una qualsiasi parrocchia di allora era infinitamente più vicina a una parrocchia del quindicesimo secolo, o del quarto, mettiamo del quinto o dell’ottavo, che a una parrocchia di oggi”.

 

Il LAVORO

 

” Lo si creda o no, fa lo stesso, abbiamo conosciuto operai che avevano voglia di lavorare. Abbiamo conosciuto operai che, al risveglio, pensavano solo al lavoro. Si alzavano la mattina – e a quale ora – cantando all’idea di andare al lavoro. E cantavano alle undici, quando si preparavano a mangiare la loro minestra. Insomma è sempre a Hugo, è sempre a lui che bisogna tornare: Andavano, cantavano. Nel lavoro stava la loro gioia, e la radice profonda del loro essere. E la ragione stessa della loro vita. Vi era un onore incredibile del lavoro, il più bello di tutti gli onori, il più cristiano, il solo forse che possa rimanere in piedi. […].

Abbiamo conosciuto un onore del lavoro identico a quello che nel Medio Evo governava le braccia e i cuori. Proprio lo stesso, conservato intatto nell’intimo. Abbiamo conosciuto l’accuratezza spinta sino alla perfezione, compatta nell’insieme, compatta nel più minuto dettaglio. Abbiamo conosciuto questo culto del lavoro ben fatto perseguito e coltivato sino allo scrupolo estremo. Ho veduto, durante la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali.

[…].

Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali”.

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