In questo tempo natalizio, la parola pastori per quello che essa significa nel contesto culturale, grazie allo scivolamento di significato subìto, già da sola va a consolidare una lunga tradizione, e pertanto potrebbe diventarne l’emblema. Molto probabilmente tra una o due generazioni la parola pastore finirà col significare – almeno a Napoli – solo ed esclusivamente “statuina del presepe” e con essa saranno indicati i diversi personaggi dei diorami natalizi, cioè i plastici che rappresentano in maniera originale e immaginifica il paesaggio in cui si inserisce la scena della natività di Gesù: i presepi, appunto. Particolarmente quelli napoletani che si vedono e si vendono a S. Gregorio Armeno, la strada dei presepi. E’ lo stesso identico processo che ha subito la parola presepe, la quale già oggi non significa più mangiatoia o, più in generale, stalla; se non presso qualche poeta che si compiace di usare parole arcaiche.
Per effetto della antonomasia il nome pastori nella lingua napoletana si è esteso dai pastori (quelli che pascolano il gregge), di cui si parla nel vangelo di Luca (Lc 2, 8-20), dove l’evangelista racconta la nascita di Gesù, a tutti gli altri pezzi che formano l’insieme dei personaggi in miniatura che si vedono sulla scena presepiale. Sicché sono “pastori”, nel senso di “statuine”, come les santons della Provenza, il bue e l’asino, Maria e Giuseppe, i 3 Magi, l’angelo, ecc.: uomini e cose, angeli e santi, oggetti in terracotta, e ogni pezzo o di cartapesta o scolpito nel legno – famosi quelli della Val Gardena – che nel tempo si è aggiunto all’impianto scenografico.
Luigi Casale