L’Aquila. Storie fantastiche dal cratere aquilano “PREGHIERA” di Luigi Fiammata
Com’era possibile, che le fosse venuto in mente di mettersi a fumare, lì ?
Una sua collega di lavoro, capelli a caschetto, neri e biondi, e bianchi, qualcuno. Gli occhiali. Le labbra di rossetto rossissimo. E la sigaretta, di cui aspirava l’odore, guardando il fumo. Se lo sentiva in bocca. Lei era seduta ad un tavolo tondo, col piano di fòrmica bianca; intorno a lei, altre persone sedute, che parlavano. Qualcuna distoglieva lo sguardo, per non essere costretta a prendere una posizione, su quella sigaretta accesa. Decise allora di andare in bagno. Seguire un impulso reale, per non doversi confrontare con una scelta. Per non doverla affrontare, e dirle che era davvero brutto, quel che stava facendo.
E s’incamminò, quasi uscendo dalla sala d’attesa del Ridotto del Teatro Comunale. Era lì, che la scena si svolgeva. Alla sua sinistra, tornando indietro verso l’ingresso, s’accorse che c’era una lunga fila di persone, che voleva salire le scale e recarsi al bagno. Donne prevalentemente. E, una persona, in livrea, impediva l’accesso alle scale. Facendo passare una persona per volta, e solo quando dalle scale ne scendeva un’altra. Era fastidioso, attendere, visto che sentiva proprio la necessità di recarsi in bagno. Per questo s’accorse che, invece, gli uomini passavano tranquillamente il blocco dell’uomo in livrea. Come se non vi fosse per loro necessità d’attesa e non vi fossero prescrizioni di una qualche sicurezza da rispettare.
Salì le scale, quindi, scivolando alle spalle dell’uomo in divisa. Una prima rampa. Poi, il ballatoio, e la seconda rampa, sulla destra. E, alla fine della scala, solo un muro bianco. Che chiudeva tutto. In basso, sulla sinistra, all’incrocio tra le due pareti, una fenditura, rettangolare, uno spazio, un ingresso. Una settantina di centimetri alto, una quarantina largo. Un buco, che invitava e atterriva. Si abbassò, con la schiena attaccata alla parete laterale, le gambe piegate, il respiro trattenuto. La testa passò per prima dall’altra parte, come in un tuffo. E poi il resto del corpo, sinuoso, curvato, veloce, senza urtare le mura, ma con addosso la sensazione, pesantissima, di essere compresso, schiacciato, circondato. E si ritrovò in un ambiente ampio, aperto. Una vetrata, lasciava entrare il sole per tutta una parete. Ma si fermò. Con il respiro bloccato in mezzo al petto. La bocca semi aperta, a cercare un’aria che, progressivamente, scompariva. Non c’era nessuna porta del bagno da entrare, e tremava all’idea di dover tornare indietro ripassando dal buco accanto alla parete, che sembrava restringersi e scomparire. Iniziò a sentire le gocce di sudore sulla fronte. Sulle labbra. E, mentre c’era luce, il buio.
– E che cazzo di sogno… ! – Disse.
Togliendosi di dosso lenzuola e piumone, con un unico gesto, forte, arcuato, cercando nei polmoni il fresco del mattino. Gli occhi immediatamente aperti, spalancati, per ritrovare qualche angolo di luce che sciogliesse l’oppressione della fantasia. Si alzò, a piedi nudi, sul pavimento freddo, e arrivò subito alla finestra della stanza da letto. L’aprì, di colpo. Entrò un pezzo di sole, misto a rumori di traffico, giù, in fondo al pozzo dei cinque piani del suo palazzo nel quartiere San Francesco. Un vago odore diesel saliva dallo stradone, annerendo il profumo del mattino.
Sentiva il cuore battere forte, nelle tempie. Passò le mani sugli occhi, per sciogliere gli ultimi residui di notte. Si aggrappò leggermente alle tende della finestra. E iniziò a respirare lentamente. Ad aver voglia di un caffè. Si girò verso il letto, sfatto e solitario. Ancora in penombra. Aprì del tutto la finestra, ascoltando i rumori della città lontana. Il sordo girare delle betoniere.
Il sapore del caffè, rovente, appena uscito dalla macchinetta, zuccherato abbondante, aveva il colore del giorno che iniziava a prendere una forma conosciuta. Rispettabile. Lavarsi, vestirsi, uscire da casa. Tutto stava riacquistando il ritmo dell’abitudine. Direzione lavoro. Il traffico visto da dentro l’auto; come stare in un acquario, dalla parte del pesce. I suoni attutiti, i confini slavati dalla velocità. Verso una delle periferie cittadine. Diventate centro, perché ricomprese dentro altre periferie, più larghe, meno conosciute. Lungo una strada che, a destra, era costeggiata da grandi scatole di cemento precompresso. Che germogliavano. Prima con le armature di scheletro, come rami nudi e incatenati, con le orbite vuote. E poi con le pareti esterne tappate, da lenzuola di pietra porosa, calcificata, dai colori dritti. Che svoltavano gli angoli. E recinzioni. Piccoli fortini senza assedio. Freddi, assenti. Senza memoria. Senza lasciare memoria, mentre li oltrepassava, guardando la strada dritta davanti a sé. Spezzata da una rotatoria, e ancora dritta.
La città ormai unita alla periferia del paese vicino. Come una pozza d’acqua che si allarga, nella valle. Coprendo tutti gli antichi tracciati di fiumi e ruscelli. Affogandoli di cumuli di terra di risulta, scavata. Incanalandoli dentro assurdi corridoi di pietre tenute insieme da graticci di ferro. Coprendoli, d’asfalto smozzicato e cemento. Arrivò al parcheggio della banca dove lavorava. Fermò l’auto vicino al tronco di una betulla nuda, senza foglie, d’inverno. I rami piegati, che quasi toccavano terra. Guardò l’orologio. C’erano ancora dodici minuti liberi, prima di dover timbrare il cartellino. E s’avviò verso il bar vicino, collocato nello stesso slargo dove c’era il distributore di benzina. Camminava tra il bordo dell’asfalto, e lo sterrato discinto, accanto alla strada dritta. Attento al rumore delle auto che sopraggiungevano alle sue spalle, accelerando, oltrepassandolo. Gli sembrava di camminare sul filo di un equilibrista, in un circo. Ed era come se, ad ogni passo, un pozzo sotto di lui lo attirasse, nel buio. Perdeva l’equilibrio, mentre s’avvicinava alle pompe di benzina. Dall’odore acre, bruciato, profumato e alcoolico degli idrocarburi. E delle banconote, passate dai finestrini semiaperti delle auto, alle mani ingrassate del benzinaio.
– Un caffè…. da uomo ! –
Disse, con tono esagerato e una specie di sorriso alla ragazza dietro il bancone. Che lo guardò. Perplessa, interrogativa, scettica.
– Ristretto, molto forte… –
Sentì il dovere di precisare. Si guardò i peli delle mani, cercando il nesso, tra il caffè scuro e corto e la sua mascolinità. Zucchero. Di più.
Entrò un rom, nel bar. La fisarmonica al collo. Scurissimo, di pelle, di barba e di capelli. Giovane. Nerissimi, gli occhi. E iniziò a suonare. Una specie di marcetta allegra, i piedi scalzi, nell’inverno del Gran Sasso. Erano puliti, però. Non c’erano ferite, a camminare sull’asfalto. La marcetta spingeva a muoversi. Caricaturalmente. A passi affrettati, corti. Quasi sulle punte. Pagò il conto. Distolse lo sguardo dal rom, per non sentirsi obbligato a lasciargli un’elemosina. Maledicendo, dentro di sé la paura della generosità. E uscì dal bar. Come in una vecchia comica del cinema muto. E il mondo fuori era diventato in bianco e nero. Era come se enormi nuvole di sale e piombo si fossero impadronite del cielo. Ghiacciando ogni luce.
Anche dentro la banca, non c’erano colori. E, senza neanche sapere come, si ritrovò fuori dalla stanza del direttore di filiale, ad aspettare che la porta s’aprisse. Era stato convocato, e non sapeva bene perché. Anzi, forse lo sapeva. Ricordò che, il giorno prima, aveva visto una breve intervista, pubblicata sulla versione on line di un quotidiano nazionale, dell’Amministratore Delegato della sua banca. Nell’intervista veniva criticato il provvedimento del Governo, che cambiava le regole per le banche popolari. E preannunciava problemi.
– Lei, è giovane. Assunto con contratto di apprendistato, di tre anni, che, come sa, sta per concludersi. E’ pronto a fare il grande balzo ? –
– Mi scusi…. Può spiegarsi meglio ?
– Ma certo! Stiamo aprendo una nostra filiale a Pizzo, in provincia di Vibo Valentia. Abbiamo pensato di assumerla, a tempo determinato beninteso, come addetto alla intermediazione mobiliare. Avrà anche interessanti provvigioni. Naturalmente, a Pizzo. Dove potrà dimostrare tutto quello che vale…
La stanza del direttore di filiale si stava chiudendo su di lui. Come un osceno fiore carnivoro che non volesse lasciarlo uscire più.
– Che sogno del cazzo !!!
Urlò. Sconvolto.
Era notte, ancora. Un brivido, gli salì dalla schiena, fino alle spalle. Freddo. Mani ghiacciate. Gambe tesissime, come sul punto di correre, per una fuga. Si girò. Alla sua sinistra. E lei dormiva. Respirando dolcemente. Come il mare che accarezza la sabbia, al mattino, quando il sole inizia a sciogliere la notte. E tutto ha i colori del silenzio. Il mare respira, allora. Arriva sin sopra la sabbia, piano, disegnando archi d’acqua, e poi si assorbe nella rena. Scompare. Inspira, per poi ricomparire di nuovo, e ancora. Così lei. Scioglieva il freddo della stanza. E allora lui si avvicinò al suo corpo, che giaceva su un fianco, dandogli le spalle. Le avvolse le braccia intorno. E si strinse a lei, da dietro. Immergendo il volto nelle alghe dolci dei suoi capelli. Profumavano di conchiglia colorata. Senza svegliarla.
– Ti prego.
Proteggimi dalle urla della notte. Tienimi per mano, mentre il mondo mi prende a schiaffi. Aspettami. Aspettami quando resto indietro, e non arrivo fin dove sono gli altri.
Soffia via con le tue parole la mia paura. Riscaldami, col fiato delle tue labbra, d’inverno, il vapore delle tue risate è una pioggia di raggi dorati.
La curva dei tuoi fianchi, dà il senso e il nome al tempo. E guardarti camminare è come ascoltare una musica dolcissima, saltellare sui prati. Sorridi, per me, ti prego.
Fai nascere gemme, quando lo fai, che rompono la corteccia dell’inverno, e inondano la primavera di petali, cullati dal vento. Come coriandoli, unici, perfetti. Il tuo sorriso abbatte il tramonto. Sorridimi guardami. E chiudi gli occhi, se vuoi, che dentro di te hai favole da regalarmi. E fiumi di acqua dolcissima, di gocce che mi scorrono sul viso. Lacrime dolci, che tornano negli occhi, come una neve silenziosa e calda, che non abbia più nuvole.
E indicami la via del tuo seno. Che respira. E germina fragole mature, dolcissime. Colme d’estate piena. Quando i colori ubriacano il giorno, e il sole si inchina. A te. Che sei alba.
Quell’alba color arancio e rosa che accarezza le rocce dei monti. E di ogni ombra mischia i confini.
E tienimi tra le tue braccia. Non farmi andar via mai. Vinci la mia timidezza con le tue carezze. Spogliami di ogni mura. Apri ogni porta. Spalanca le mie finestre. Fai entrare ovunque i tuoi occhi che mi attraversano e mi legano, e mi snudano la pelle.
Rifugiami. Rifugiami dentro di te. Dentro il volo infinito della tua bocca che mi cerca.
Nuotami. Galleggia dentro ogni mio passo che corre verso di te. Dentro ogni mio pensiero che ti chiama. Bevi. Bevi tutto il miele di ogni mia attesa di te.
Aggrappati. Al mio braccio, e non lasciarlo. Mai. Non cadere mai. Non temere mai di essere sola. Anche lontano da te. Io ci sono. Io arrivo. Io non scappo.
Tu sei il sangue delle mie vene.
E sei il primo sorso del giorno. E non sei mai, l’ultima pagina, perché ci sei sempre. Sempre.
Accoglimi. Nel tuo girotondo. Sull’altalena della tua luna. E nascondimi dal dolore.
Io ho bisogno che tu esista. –