Cultura & Società

Storie fantastiche dal cratere aquilano IL REGALO di Luigi Fiammata

 

 

L’AQUILA – Dai. Arrivo, parcheggio. Tra viale Nizza e l’inizio di Viale Duca degli Abruzzi. Ci si trova posto anche di giorno, ora. E’ vero, il palazzo d’angolo lo hanno ristrutturato. Una volta ci abitavano studenti e famiglie. Anziani. Sembra deserto, da quando è diventato nuovo. C’è posto libero, proprio ai piedi del palazzo, sul marciapiede, dentro regolamentari strisce bianche di sosta gratuita, scolorite. Non ci lascia più la macchina quasi nessuno. Anche se hanno aperto l’Università, più sotto, più avanti.

 

Dai. E’ ora di trovarlo il regalo per il compleanno di Maria. La mia Maria. E’ l’ultimo giorno  che ho a disposizione. Poi mi devo far trovare da lei, e darglielo, un regalo. Sono quasi fuori tempo massimo. Entro domani. Entro oggi, meglio.

Ma, devi capirmi, Maria.

Mi vergogno.

Ho appena iniziato questa borsa lavoro nello studio del commercialista amico di famiglia. Che si accolla il ragazzino tra poco trentenne alla sua quasi prima esperienza di lavoro. E ancora non prendo un euro dei seicento che mi spettano a fine mese. Fine mese è fra tre giorni, e io non posso aspettare. Sono stanco di chiedere a papà e mamma. E ho appena iniziato a ringraziare l’amico di famiglia, lavorando davvero, straordinari non pagati compresi. Garanzia schiavi giovani, si chiama.

 

Scendo dall’auto. In un sacchetto di pelle, che una volta conteneva occhiali da sole, ho messo tutti gli spiccioli ramazzati in ogni tasca di casa. Non li ho contati. Saranno una trentina di euro, più o meno. Una specie di riserva, se quello che ho nel portafogli non basta. Pesa. Però mi fa sentire più sicuro. Anche se devo stare attento a scegliere. Quello che posso permettermi, che non è quello che vorrei. E non è poi tantissimo, quello che vorrei. Solo un pezzetto di libertà di scelta, per regalare una cosa alla ragazza che amo, senza dovermi preoccupare di far brutta figura, né con lei, né al negozio, quando chiedo quanto costa. Il postamat è vuoto, lo so. Ho controllato. Ci accreditavano sopra i soldi dell’ultima specie di lavoro che ho fatto. Rifornimento di giornali, negli scaffali del supermercato con contratto a progetto. Che adesso li aboliscono. I contratti senza alcun progetto. Quasi.

 

Per questo, il distributore avezzanese di giornali, mi ha detto che se volevo raccontare di avere ancora un lavoro, avrei dovuto  aprire la partita IVA. E così divento imprenditore di me stesso. Non mi pago i contributi previdenziali, e mi demansiono a facchino di corte. Tanto lo posso fare. Non c’è più sanzione. E risparmio.

Italian job.

Però il postamat, resta vuoto. Perché non ho lo spirito avventuroso e intraprendente. Non mi voglio lanciare nel rutilante mondo della stampa, dal lato dello strillone all’angolo della strada mentre diluvia e fa freddo. Non sono abbastanza affamato. E neanche tanto folle. Signor Mela copiata da quella dei Beatles.

 

La Bottiglieria è ancora chiusa, e un caffè non me lo posso prendere. C’è un nuovo negozio di abbigliamento. Ma a Maria non piacciono le cose che vendono qui. Me lo ha detto lei, un giorno che passeggiavamo insieme qui. Per fortuna, perché costano troppo per le mie tasche.

C’è sempre il Ferramenta, davanti la Fontana, e la Cartoleria, per gli studenti che non vanno più a scuola perché la scuola non c’è più.

Sembrano le pietre miliari della via Appia che arriva a Brindisi, rimaste ferme negli ultimi sei anni.  Solitarie. Alte e impossibili. A segnare la strada per viaggiatori smarriti. Quelli che non ricordano più le vecchie mappe.

Ma non posso uscirmene, con Maria, regalandole un paio di pinze e un quaderno. Non esprimerebbe abbastanza quanto lei sia la mia luce dentro ogni cielo.

 

Io lo so come mi sento, quando sto così.

Che guardo intorno, e cerco di non farmi vedere da nessuno che conosco. Perché non voglio che sentano la puzza di disoccupato. Anche se lavoro. Sì, il mio è un lavoro da disoccupato. Però, dai. Disoccupato laureato. In economia, a L’Aquila. Per questo mi porto gli spicci appresso. Perché sono economo. Accumulazione primaria. Il soldo sotto il mattone. Il salvadanaio, non ce l’ho.

La sede della banca è ancora a pezzi. Mentre il palazzo di fronte, uguale, è un cantiere vivo, invece.

Aspetta però. Hanno presentato il progetto di ricostruzione. Dopo sei anni, hanno fatto la mossa. Poi vediamo quel che succede davvero, oltre le conferenze stampa.

 

Mentre quelli del Sindacato, lì sotto a via del Gatto, non so che fine abbiano fatto.

In centro, a L’Aquila, non ci va nessuno, non ci lavora nessuno. Una sede del Sindacato aperta, qui, sarebbe come un gelataio aperto in Alaska a dicembre. Via del Gatto è un vicolo cieco. Anche il Sindacato, è diventato cieco.

C’era una pizzeria, qui, e un negozio di fotografia, e un barbiere. Adesso non c’è niente. Anche se il palazzo è tutto ricostruito e ridipinto di nuovo. Quanto costa l’affitto qui? Tanto quanto l’avidità eterna degli aquilani ricchi.

Che bella piazzetta che c’è. Da farci concerti tutte le sere.  E non parcheggio di auto, e discarica, come è ora.

Al fotografo, forse avrei potuto vedere qualcosa, per Maria. Le piace, fotografare.

Ma di sicuro, non mi sarei potuto permettere nulla di decente. Un teleobiettivo discreto, costa minimo trecento euro. Non ce li ho questi soldi. Non ce li ho.

Se continuo così, a settantacinque anni, trecento euro non li avrò neppure come pensione. Ammesso esista l’INPS nel 2061.

 

Anche il palazzo dall’altro lato è ristrutturato. Ma il bar non riapre. Il negozio di panini non riapre. Il tabacchino non riapre. Il negozio di alimentari, non riapre. Il negozio di abbigliamento… c’era anche un negozio di abbigliamento, sul lato di piazza Regina Margherita?

Comunque, adesso, c’è ancora la saracinesca di legno che occupa mezza piazza per i lavori in corso, che, in realtà sono finiti. Magari non riapre niente perché manca il gas, da sette-otto mesi. In compenso, in mezzo ai palazzi sette ottocenteschi, nel verde della aiuola di centro piazza, c’è un bunker in cemento armato che aspetta solo che ci venga posato sopra un cannone antiaereo. Che di questi tempi, ce ne sarebbe bisogno. O forse, visto che è la cabina dell’ENEL, ci metteranno sopra il traliccio per un nuovo elettrodotto, che tanto, a L’Aquila, passano tutti in mezzo alle case.

In piazza un bar ha sostituito la farmacia, che ancora sta dentro un container. Forse l’avevano sfrattata, o forse non reputa salutare stare in un palazzo a cui nessuno ancora, da sei anni, ha messo mano.

Non c’è più il negozio di pelletteria. Però c’è un altro bar. E un altro ancora.

 

Un portafogli per Maria, sarebbe banale, e un ombrello, porta sfiga. Ma dai, che la sfiga non esiste. Anzi no, aspetta. E’ essere superstiziosi, che porta sfiga.

Una borsa… non so, forse. Però tanto, qui non posso comprarla. Perché qui, non la trovo più.

Lì, prima c’era un negozio di gioielli antichi. Che non mi sarei mai potuto permettere comunque. Però mi piaceva tanto guardarne la vetrina. E immaginare magari una bella collana, con cameo rosso, che cadrebbe leggera e insinuante nella scollatura di Maria.

Però adesso c’è solo la porta chiusa e tanto silenzio. Il silenzio del legno dove la linfa non scorre più.

Potrei chiedere i soldi a papà e mamma.

Papà entra e esce dalla Cassa Integrazione. Mamma lavora alla ASL. Lo stipendio è bloccato da sette anni. Non posso chiedere i soldi a papà e mamma.

Non ce la faccio a guardarli. Mentre glieli chiedo. Mi sento in colpa. Perché non ho un lavoro vero.

E ancora mi pagano la benzina per l’auto. E l’assicurazione. E le gomme termiche. Perché a L’Aquila, sei mesi all’anno, per legge, devi indossare le gomme termiche. E se non ce li hai i trecentoventi euro che servono per comprartele?

Ne spendi trenta e ti compri le catene. Devo dirlo a papà e mamma. L’anno prossimo faccio così.

Non posso più chiedere a papà e mamma. Papà, all’età mia, era già padre. Mio e di mia sorella. Vabbè, erano altri tempi. Era trent’anni fa, più o meno. Non c’erano i telefonini, trent’anni fa.

 

E di fronte al negozio di gioielli antichi, c’era la macelleria tipica.

Anche se un pollo, o una cicolana, non basterebbero, a dire a Maria, quanto lei sia per me l’ultimo raggio di nuvola del tramonto, e il primo fiocco di neve dell’alba.

Comunque, adesso non c’è. La macelleria. Anzi, è da parecchio, che non c’è. E non c’è l’altro fotografo, e la merceria nemmeno c’è. E il negozio d’abbigliamento. Quello per ragazzine giovani e magre. Non c’è.

 

E cammino guardando vetrine annebbiate dalla polvere. Polvere che è entrata dentro, il vetro. E gli ha rubato la trasparenza. Il vetro, è diventato marmo.

Candele di ferro, che partono da terra, e arrivano in cielo.

C’era anche una gioielleria di gioielli nuovi. Si è trasferita al Centro Commerciale ora.

Qui, adesso, i pacchetti regalo si fanno con i travi di legno, i tiranti d’acciaio, le traversine di ferro, i raccordi di ottone.

Cammino sulle pietre rese viscide dalla pioggia passata. E sconnesse dai camion carichi di materiale e macerie che ci passano sopra, continuamente. La ricostruzione viaggia.

Certo. La ricostruzione di quello che chiamano “l’asse centrale”. Forse. Neanche tutto, a pezzi, a brandelli, a macchie. Una specie di lunghissima croce di Cristo. A più bracci trasversali; una croce papale antica. Dalla Villa Comunale, fino alla Fontana Luminosa.

Intorno, dietro le strade principali, il vuoto, il silenzio. L’odore di umido. Sguardi che non si fermano da nessuna parte, e non trovano pace o riparo.

Il freddo si alza da terra. E ti gela i passi. La gola si svuota di parole.

E non ci sono i cantieri aperti, intorno. Intorno c’è la favola della bella addormentata. L’Aquila filava la lana. E’ stata punta dal fuso.

Fammi guardare una gru. Così ritrovo voce. E fiato. E cielo.

Ci stanno. Più avanti. Lungo la strada che arriva al teatro. Girato l’angolo.

 

Prima però, c’è la cartolibreria bazar.

Aperta, come se fosse normale, essere sempre aperti. Senza essere andati via.

E allora, mi viene finalmente, l’idea per il mio regalo a Maria.

E’ esattamente come trovare il celeste azzurrissimo della tramontana quando guardi il Gran Sasso dal parco del Castello, e non t’aspetti di vederlo, tra gli alberi . E ti sembra che, improvvisamente, ogni cosa che hai intorno, si sistemi; abbia il suo posto nel mondo. Ferma, precisa, bellissima.

 

Entro.

Mi bastano i soldi spicci. Anche se sarà imbarazzante, contarli tutti, uno per uno, moneta per moneta. Come alle elementari a fare le addizioni con le dita.

E compro quattro mazzi di carte da poker.

Mi guarda un po’ stranito, da dietro gli occhiali. Il proprietario. Mentre li infila tutti dentro una bustina di carta. Come fossero i cornetti del bar.

 

Allora esco.

E, mentre torno indietro, senza più guardare nulla, quasi senza respirare, apro ognuno dei quattro mazzi. E lascio nella busta di carta le pellicole di plastica che li chiudevano. E tiro fuori le carte. E, di ogni mazzo, prendo i fiori, le picche e i quadri, e i jolly. E li butto tutti dentro il sacchetto di carta.

E conservo i cuori. E per quattro mazzi diversi, conservo i cuori.

E formo un unico mazzo. Con tutte le carte di cuori. Con solo carte di cuori. E le metto tutte insieme.

In un unico mazzo.

 

Sarebbe bello se, ogni gioco, fosse solo accarezzare il suo cuore. Moltiplicarlo per ogni cosa che vedo e che ho intorno. E sapere che, ogni giorno, l’amerò più di ieri. Come se il tempo scorresse solo dentro il suo cuore, e ogni suo battito, mi desse vita.

E scriverò una cosa, per Maria.

Provando a spiegarle che, ogni carta possa scegliere, di questo mazzo, sarà come guardare dentro i miei occhi che l’accarezzano.

Anche se non ho soldi. Anche se non ho ancora un lavoro vero.

Anche se non posso portarla a casa nostra a fare l’amore.

 

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