A Riccione proseguono i lavori di ICAR, la VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus. Adriano Lazzarin Presidente ICAR sottolinea l’importanza di test e prevenzione
Il nostro Paese si conferma all’avanguardia. 11 progetti finanziati dall’UE sono guidati da leadership italiana. Migliorano le cure, manca ancora un vaccino per l’HIV. Nuovi programmi per reperire fondi
IL CONGRESSO – Hiv ed epatiti, infezioni e nuove terapie al centro della VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus (Icar), organizzato dai presidenti del Congresso Cristina Mussini, Laura Sighinolfi e Andrea Cossarizza, che si svolge sino a stasera a Riccione, con oltre 1200 partecipanti, di cui 800 specialisti presso il Palazzo dei Congressi. L’evento pone all’attenzione della comunità scientifica la necessità di individuare percorsi di diagnosi e cura dell’infezione da HIV che si basino sulle interazioni tra ricerca di base, ricerca diagnostico-clinica ed esigenze delle persone sieropositive.
Icar dal 2016 con la 8° edizione, cambierà e allargherà i propri confini d’indagine e tratterà non solo Aids e Epatite, ma anche la ricerca antivirale in genere. Oltre alla medicina di genere, declinata non solo al femminile, e la resistenza naturale all’infezione da HIV, anche la comprensione di nuove strategie di eradicazione. La struttura portante di ICAR 2015 è data dai contributi dei giovani ricercatori italiani e stranieri, che nelle diverse sessioni presenteranno principalmente lavori originali.
Il prestigioso Premio ICAR-CROI Awards 2015 per i giovani ricercatori italiani ha visto aggiudicarsi il prestigioso riconoscimento Letizia Marinaro dell’Università di Torino.
L’ITALIA E IL SUO PRIMATO – “La ricerca italiana è all’altezza delle altre nazioni europee” afferma il professor Adriano Lazzarin, Presidente ICAR, e primario della Divisione di Malattie Infettive IRCCS San Raffaele. Il principio alla base di questa affermazione è molto semplice: “i farmaci antiretrovirali sono disponibili per tutti. L’Italia è stata efficiente anche nell’ottenerli nella fase di sviluppo; si dovrebbe rendere più rapida la registrazione per averli a disposizione”. Un vantaggio del sistema italiano è che ha fatto un piano di intervento ministeriale con una legge centrata sui professionisti di settore (centri e ambulatori di malattia infettiva, distribuzione farmaci negli ospedali) (L. 135/90). La retention in care è assolutamente più efficace in Italia che in tutti gli altri Paesi occidentali: quello italiano è un modello di intervento da esempio per gran parte del resto del mondo, che porta ad una viremia negativa dell’80% dei pazienti seguiti. Negli USA, ad esempio, i molteplici passaggi necessari dal test alla cura fino al medico di medicina generale porta a risultati molto più modesti (50%).
CI SONO LE CURE, NON UN VACCINO. Ad oggi, un vaccino per l’HIV non esiste. E’ stata una chimera inseguita dai primi ricercatori più negli anni ‘80. Come spiega il professor Lazzarin “il problema principale è che un vaccino facile da costruire si ricava da un anticorpo che inattiva il virus e lo blocca; per l’HIV ciò non può essere realizzabile, poiché gli anticorpi neutralizzanti, laddove esistano, non sono in grado di bloccare l’infezione una volta che è entrata nella cellule. Quindi il problema di non acquisire l’infezione si può risolvere cercando di far produrre anticorpi contro il virus, ma ad oggi nessun anticorpo da solo sembra in grado di neutralizzare l’infezione”.
Si possono dunque solamente potenziare le difese immunitarie contro il virus. Con la cosiddetta vaccinazione terapeutica e non preventiva che viene aperta una finestra sul rafforzamento delle risposte immunitarie attraverso le cellule che generano anticorpi: l’organismo sottoposto alla vaccinazione riuscirebbe così a potenziare la capacità di produrre anticorpi attraverso lo stimoli di cellule dendritiche. Le cellule dendritiche sono le prime colpite dall’infezione, che poi passano ai linfociti. Il risultato delle dimostrazioni effettuate finora non ha però mostrato il vaccino come un obiettivo facilmente perseguibile. In merito a quegli studi internazionali che prefigurano risultati rivoluzionari dunque si può essere ottimisti, ma con molta cautela.
TEST E PREVENZIONE – Resta il problema del “sommerso”, ovvero di coloro che ignorano di essere infetti, è una questione comune a tutti i Paesi, poiché l’infezione da HIV è asintomatica nella maggioranza dei casi. Si tratta di quelle persone che hanno dimenticato di essere a rischio, in quanto stanno bene e non vanno a fare il test, e delle generazioni più giovani, che non si sentono in dovere di fare il test perché non hanno paura della malattia.
Negli anni ’80 e ’90, i soggetti maggiormente coinvolti erano tossicodipendenti, omosessuali e persone che avevano rapporti promiscui, anche eterosessuali. Oggi, il comportamento maggiormente a rischio per il sommerso sono i rapporti omosessuali tra giovani maschi; discorso a parte va fatto per gli immigrati, il cui discorso è complesso in quanto rappresentano il sommerso per eccellenza, mentre le diverse caratteristiche etniche e la provenienza geografica generano notevoli differenze per il rischio di infezione.
“Bisogna stimolare le persone, oltreché con la campagna di informazione/prevenzione, soprattutto all’esecuzione dei test” sottolinea ancora il professor Lazzarin. “E’ necessario rivolgersi a singoli, in particolare ai giovani”. Spesso i metodi più semplici vengono ignorati: per chi ha raggiunto una certa età, il test dell’HIV può essere effettuato assieme a quello delle malattie più comuni. I più giovani, che sono anche i meno motivati, devono essere sollecitati e avere a disposizione strumenti semplici, come il moderno test salivale, in uso anche per l’epatite C.
Un nuovo modello di cooperazione tra gli stati membri con un progetto denominato EDCTP Plan permetterà a breve un nuovo slancio per il reperimento dei fondi, a garanzia della salute globale e della ricerca– annuncia Stefano Vella, Direttore del Dipartimento del Farmaco dell’ISS.
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