SIMSPe/SIMIT: RADDOPPIATI IN 10 ANNI I MALATI HIV NELLE CARCERI IN CURA (80%). 30% DEI DETENUTI TORNA NELLE CARCERI DOPO POCHE SETTIMANE DALL’USCITA
Si è aperto ieri a Cagliari, sino a domani 5 giugno, il Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe) per la tutela delle condizioni di salute dei detenuti italiani
Oggi c’è ancora una elevata percentuale di persone che muore di overdose nelle prime settimane successive all’uscita dal carcere, oltre a persone che nel primo anno rientrano in carcere perché compiono nuovamente dei reati.
Più dell’80% della popolazione detenuta HIV positiva è sotto trattamento antivirale con una buona efficacia. Oltre il 73% dei detenuti trattati infatti dimostra una massima efficacia antivirale: considerato l’ambiente, è un ottimo risultato, specie se lo confrontiamo ad esempio con quello della popolazione americana, in cui la percentuale dei pazienti con virus negativo nel sangue è inferiore al 45%, livelli che in Italia si registravano all’inizio degli anni Duemila.
IL CONGRESSO – Se n’è parlato a Cagliari durante la prima giornata del XVI Congresso Nazionale SIMSPe-Onlus/L’Agorà Penitenziaria 2015: “Se il Paziente è anche Detenuto”. L’appuntamento, che prevede la presenza di 250 specialisti, italiani ed europei, e che proseguirà sino a venerdì 5 giugno, è organizzato e presieduto da Sergio Babudieri, Professore di Malattie Infettive all’Università di Sassari nonché Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe). Molti gli argomenti previsti: si parlerà di emergenze cardiologiche e di “Sex Offender”, tra punizione e risocializzazione, nonché di rischio clinico e responsabilità degli operatori sanitari penitenziari, di gestione dello stress e del malessere organizzativo in carcere.
“Il titolo “Se il Paziente è anche Detenuto” è già eloquente – spiega il Prof. Sergio Babudieri, Coordinatore Scientifico del Congresso e Presidente della SIMSPe – Si tratta di un richiamo per tutta la nostra categoria di medici, ma anche per infermieri, operatori sanitari, agenti di polizia penitenziaria che operano all’interno dei 199 istituti penitenziari italiani, che deve ricordare che stiamo parlando di pazienti. Sono detenuti, ma in primo luogo sono dei pazienti. La peculiarità della medicina penitenziaria è che anche le persone che sono sane ricadono sotta la giurisdizione del magistrato di sorveglianza che ha la responsabilità della loro salute; peraltro, per sapere che una persona non è malata è necessario comunque un atto medico. Quindi stiamo parlando di 60mila persone giornalmente in carcere e di circa 100-110mila che sono transitate nel sistema penitenziario italiano nel corso di ogni anno: una popolazione simile ad una media città italiana che ha una serie di forti esigenze in tema di salute”.
“La SIMIT, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali – dichiara Massimo Andreoni, Professore di Malattie Infettive, Università di Roma “Tor Vergata” e Presidente SIMIT – è molto interessata al prossimo convegno nazionale di medicina penitenziaria in quanto ritiene che le istituzioni nel mondo carcerario rappresentano una priorità. Recenti studi condotti in merito, infatti, dimostrano come la percentuale di detenuti con infezioni da virus epatitici, dal virus dell’AIDS e da tubercolosi sia rilevante. Inoltre, il periodo di detenzione può rappresentare un momento fondamentale sia per l’eventuale diagnosi di infezioni non riconosciute sia per avviare cicli di terapia che permettano, come nel caso dell’epatite C, di guarire dall’infezione. In tal senso, il periodo di detenzione, che rappresenta un momento drammatico per la vita del detenuto, sotto il profilo sanitario può essere funzionale sia a fini diagnostici che terapeutici per le malattie infettive in atto”.
HIV NELLE CARCERI – “Un recente studio fatto con la SIMIT, Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali – spiega il Prof. Roberto Monarca. Presidente SIMSPe-onlus – dimostra che i pazienti affetti da infezioni da HIV sono trattati abbastanza bene all’interno delle carceri: c’è una elevata accessibilità ai trattamenti, c’è una buona capacità di monitoraggio di questi pazienti perché in quasi tutti gli istituti praticamente è possibile eseguire sia una carica virale che il monitoraggio delle funzioni immunitarie”.
Più dell’80% della popolazione detenuta HIV positiva è sotto trattamento antivirale con una buona efficacia; oltre il 73% dei detenuti trattati infatti dimostra una carica virale sotto le 50 copie: considerato l’ambiente, è un ottimo risultato, specie se lo confrontiamo ad esempio con quello della popolazione americana, in cui la percentuale dei pazienti sotto le 50 copie è inferiore al 45%. “Uno dei problemi che stiamo studiando è la carenza di terapie innovative nei pazienti detenuti affetti da HIV, ossia vengono spesso utilizzate per i detenuti delle terapie che sono un po’ datate. I nuovi farmaci, quelli più costosi, ma anche le terapie di semplificazione, hanno ancora una scarsa applicazione in ambito penitenziario e lì dobbiamo lavorare, affinché i nostri detenuti abbiano le terapie più efficaci. L’utilizzazione di solo uno o due farmaci al giorno potrebbe semplificare di molto l’organizzazione e la qualità della vita dei detenuti”.
“Numerosi studi, sia americani che europei, dimostrano che le persone che vengono prese in carico dalle strutture esterne – aggiunge il Prof. Monarca – una volta rilasciate dal carcere hanno una minore recidività, sia dal punto di vista clinico che da quello delinquenziale; in altri termini, in questi casi più difficilmente rientrano in carcere. Quindi per interrompere quello che in gergo è definito come il ciclo di carcerazione-uscita-reincarcerazione, bisogna intervenire proprio garantendo la continuità terapeutica per il detenuto tornato in libertà”.
OVERDOSE – Oggi c’è ancora una elevata percentuale di persone che muore di overdose nelle prime settimane successive all’uscita dal carcere, oltre a persone che nel primo anno rientrano in carcere perché compiono nuovamente dei reati. “Lasciare a se stessi questi pazienti – chiosa il Prof. Monarca – espone loro stessi a elevati rischi per la loro salute e la società stessa per la recidività dei reati. Studi americani confermano che nei primi 5 anni dalla liberazione, circa il 75% rientra in carcere; il 43% solo nel primo anno. In Italia non abbiamo percentuali così elevate, ma nel primo anno siamo comunque intorno al 30%. Questi sono dati che vengono dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dove esiste una capacità di monitoraggio di queste situazioni molto precisa”.
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