La razionalizzazione economica, di cui lo stato liberale si vanta, trova sostanza nella minor spesa coadiuvata da un servizio più accettabile ed apprezzabile da parte dell’utente-cittadino. Dodici milioni di euro(sic!), polverizzati, per la rappezzatura delle scuole danneggiati dal/dai sisma/i sembrano proprio andare controcorrente a questo principio endemico. Siamo costretti a fare attenzione al bilancio, riducendo doveri e servizi fino a farli scomparire, ma poi ci permettiamo il lusso di fare lavori momentanei e senza criterio. Nella nuova sistemazione di Piano d’Accio saranno 2,3 i milioni previsti per adeguamenti a un immobile decentrato, di proprietà privata a cui bisognerà –prima o poi- pagare canoni d’affitto, lontano dal tessuto cittadino e avulso nella sua struttura. Ci vantiamo di essere un paese democratico e civile, uno dei cofondatore di quella grande unione di popoli liberi e progrediti dal nome Unione Europea che ha nell’eurocentrismo e nella superiorità antropologica il suo perno di gravità rispetto al “ciarpame” orientale e terzomondista sottosviluppato, ma poi ci riduciamo a cavare una scuola dalla curva di uno stadio-centro commerciale. Seriamente non riusciamo a partorire un’idea migliore del far andare i nostri figli in una struttura simile? E poi, chi avrà il “privilegio” di andare li? Per quali criteri? Se questa fosse stata una decisione presa in controtempo dagli avvenimenti –più o meno 5 mesi fa- sarebbe anche stata accettabile, una volta capita la psicosi post-sisma, ma il perseveramento di un tale progetto totalmente estemporaneo ora è un suicidio politico e sociale. Avremmo potuto capirla come una decisione immediata e di breve termine, una politica momentanea che seguiva parallelamente i binari di una politica programmatica seria. Qui invece il dibattito si staglia sui lunghi periodi, i lunghi termini. Ma come, ci lamentiamo della situazione critica che vive il nostro tessuto connettivo- produttivo, e poi delocalizziamo anche il grosso carico urbano legato all’istruzione? Nei nostri scritti –critici- precedenti abbiamo riportato il problema della “desertificazione” crescente che la politica ha contribuito ad alimentare, senza risparmiare colpe alla popolazione completamente alienata dai problemi circostanti. L’accettazione passiva, e talvolta accondiscendente, di dieci anni di scelte sbagliate ha atrofizzato completamente la macchina istituzionale, che oggi partorisce simili aberrazioni.
Ora, sistemare una scuola fuori Teramo, in un paese dove il carattere momentaneo –ammesso che questa sia la fattispecie- assume il carattere di definito, significa attentare ancora una volta alla stabilità, già minata, della cittadina. Una inidoneità simile, persistente da anni, prosciuga la linfa alla città e pone a dura prova i nervi dei suoi abitanti. Facciamo pullman e marce quando poi, i primi a fare l’harakiri siamo proprio noi stessi. Come si sostanzieranno gli accorpamenti? Con quali criteri saranno fatti? Quali sono i piani? Tutto tace. I consigli comunali non vengono calendarizzati, le questioni non vengono discusse, e nemmeno quando ci troviamo nel nostro caso in presenza di una “democrazia incompleta” –dove di solito il satrapo arriverebbe a decisioni finali- il governante riesce a sbloccare la situazione, assumendosi le responsabilità. La stagnazione è l’unica padrona del palcoscenico. Basterebbe porre fine alle risse da bar e agli sproloqui da basso fondo per dare una vaga speranza al futuro generazionale, mai cosi fosco nella provincia; eppure si parla della scuola dei figli di tutti, non solo dei “reietti”. In un paese dove i fondi per la cultura e l’istruzione sono sacrificabili sull’altare della spending review , per una volta potremmo essere noi la “scheggia” ostinata e contraria. Potremmo essere noi a rilanciare l’economia in barba agli accordi di bilancio. SI agli sgravi fiscali! SI alla no tax area! SI al congelamento tributario! SI alla RINEGOZIAZIONE DEL DEBITO COMUNALI con gli altri enti che nessuno mai e poi mai pagherà. In fondo, come disse un grande poeta economista: “il debito è il sistema moderno per imporre la schiavitù”; anni di politiche austere infarcite di privatizzazioni non hanno portato altro che dissesti(allora, per questa volta avremmo anche ragione a non pagare!). SI AGLI INVESTIMENTI INFRASTRUTTURALI come volàno di ripresa endogena dell’economia. Meno introiti per il comune ma un respiro per il tessuto imprenditoriale e commerciale. Una ricostruzione, seria ed oculata, vigile in toto, potrebbe dare una boccata d’ossigeno al comparto impresario. La ricostruzione, ove possibile, manterrebbe la centralità del teramano e la simultanea costruzione dei due –o più- poli scolastici nella zona piazza Dante e l’Acquaviva darebbero un’ ulteriore spinta a questa strategia di crescita. L’opportunità di ripresa, in ottica keynesiana è proprio qui: investimenti e infrastrutture. I soldi ci sono, ci sono fondi interi destinati al territorio che aspettano solo di essere sbloccati, così come i fondi governativi e extra; in tempi di “stato di emergenza”, la Ragiòn di Stato permette la giustificazione dei mezzi per il raggiungimento dei fini. Far capire alla Regione e al Governo che, se necessario, si “ farà da sé” è una cosa obbligatoria se si vuole continuare a vivere. La cosa positiva del pessimismo è che, per quanto sia buia l’oscurità che avvolge il creato, un piccolo spiraglio di luce passerà sempre ad aprire un varco: dalle disgrazie e dai momenti difficili si può uscire più consapevoli e temprati, traendo vantaggio dal trascorso. Basta coi vassalli del rigore e dell’inettitudine. Abbiamo edifici di alto valore storico-culturale, che trasudano eleganza e bellezza –simboli di epoche passate- che non possiamo permetterci di ridurre a cattedrali nel deserto. Sono questi che devono subire lavori di riqualificazione e messa a norma perché tornino a risplendere e a educare come fu un tempo. Abbattere un simbolo significa abbattere il passato, dimenticando la propria identità e abbattendo essi, perdere la strada verso il futuro. Abbiamo bisogno di lavori definitivi, che non richiedono reclami, rattoppi, pezze e altri soldi da sprecarsi con ulteriori lavori. La nostra proposta è quella di far ripartire il tessuto cittadino tramite una strategia a doppio binario, una coabitazione tra ricostruzione e costruzione ex novo, fatte in maniera limpida e programmatica nel minor tempo possibile. La spesa avrebbe in questa maniera una duplice valenza: fungerebbe da iniezione di liquidità alle imprese e da stimolo al mercato, riflettendo una crescita pro-capite, e da pivot(perno) attorno a cui il nuovo centro storico potrebbe ritrovare il suo destino. Un centro storico che avrà bisogno di ulteriori progetti e di importanti politiche bilaterali, come quella tra Università e Comune, per una ritrovata sintonia e lungimiranza. La rinascita primaverile della città passa inevitabilmente per la cultura, per i giovani, per il commercio e per la salute, ecco perché i soldi pubblici dovrebbero essere spesi tramite politiche serie, integrali, non scioviniste ma giuste. La riconversione del Masterplan per l’assistenza economica e riqualificativa degli edifici pubblici e privati sarebbe un ulteriore decisione di buon senso. Il polo ospedaliero, che il resto d’Italia ha già incamerato e si appresta a realizzare, è l’altro punto fermo della Teramo che verrà. L’anno zero del territorio parte ora e dipende dalle scelte che verranno fatte. O la politica ritroverà i sensi persi in questi anni di “perdizione” squarciando quel velo di Maya che sembra offuscarle la vista, perseguitata dalla psicosi della paura e dall’irrazionalità che ne deriva, o il treno della storia sembra aver già preso il binario in direzione della prossima fermata.
Flavio Bartolini – Teramo