L’AQUILA – Giovedì 28 giugno a salutare Giuseppe Petrocchi, arvivescovo dell’Aquila nominato cardinale da Papa Francesco, c’erano diverse centinaia di aquilani. La maggior parte di essi erano partiti la mattina a bordo di sei pullman. Si respirava, alla partenza e a bordo degli autobus, un clima di festa. Non era solo l’omaggio dei fedeli al pastore della Chiesa aquilana, c’era qualcos’altro. Si palpava un’atmosfera di serenità, quasi di gioia discreta, che faceva tollerare anche qualche inevitabile disagio. Dopo una lunga attesa e una lunga fila, il popolo dei cappellini verdi (era questo il distintivo dei fedeli aquilani) si è seduto nella navata centrale della grande basilica di San Pietro. Di lì a poco ha avuto inizio la cerimonia del Concistoro.
In quel tempio unico al mondo, dove la storia millenaria e l’arte sublime si inseguono, e dove tutto concorre al bello e al buono, tra le porpore dei cardinali vecchi e nuovi che poco prima avevano fatto il loro ingresso incedendo nella navata centrale come un piccolo fiume rosso lento, solenne e rassicurante, è risuonata la voce di Papa Francesco, voce un po’ stanca ma ferma, e con il solito timbro di originale freschezza. Tre frasi, chiare e penetranti, mi sono parse altrettante staffilate tirate contro la mentalità dominante. Ha ammonito, con parole rivolte a tutti, contro “la ricerca dei primi posti, le gelosie, invidie, intrighi, aggiustamenti e accordi, secondo una logica che logora e corrode da dentro i rapporti umani, provocando discussioni sterili”, e che sono da respingere anche solo in una prospettiva di igiene mentale.
Ha poi proseguito dicendo che l’unica autorità credibile è quella di chi si mette al servizio degli altri e soprattutto dei più feriti dalla vita. Ha detto infine, con parole semplici e folgoranti: “Nessuno di noi deve guardare gli altri dall’alto in basso. Possiamo guardare così una persona solo quando la aiutiamo ad alzarsi”. Questa frase, pronunciata nel cuore della cristianità, esprime amore e umiltà, due cose che vanno sempre insieme. Sono parole che valgono da sole un intero trattato di teologia morale e che ci invitano ad un profondo esame di coscienza. E’ una di quelle lezioni che, in questa nostra società dai rapporti umani sempre più rarefatti e spesso improntati al più raggelante snobismo del “Lei non sa chi sono io…”, non si ascoltano da nessuna cattedra.
Ha concluso la sua appassionata esortazione rivendicando come modello alto Giovanni XXIII, quel “papa buono” che ringraziava Dio per avergli concesso la povertà, di spirito e reale, che lo aveva aiutato – incomprensibile paradosso per la mentalità corrente – a non chiedere mai nulla (né posti, né denari, né favori) per sé, né per i suoi amici o parenti. Agisce, nel pensiero di questo papa, quel talento spirituale che sa andare diritto al cuore delle cose, come capita di leggere spesso ne “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni, quel gran libro che non a caso Bergoglio ha confidato di tenere sempre a fianco a sé sul comodino del letto.
Viene da pensare ad un altro prete che si rifaceva alla ruvida chiarezza evangelica, Don Tonino Bello, di cui è in corso la causa di beatificazione, che amava ripetere che Gesù ha usato un solo paramento: il grembiule con il quale il Giovedì Santo ha asciugato i piedi degli apostoli. Il Cristianesimo, in fondo, è semplice. Siamo noi cristiani che spesso lo abbiamo complicato. Francesco ci ricorda che prima dobbiamo chinarci sul prossimo che soffre, poi possiamo parlargli di Dio. L’amore brucia tutte le tappe.