Abruzzo, Giulianova, In rilievo, Lettere

Prof. Carlo Di Marco, elezioni a Giulianova e in Abruzzo: questa classe politica non scriverà pagine nuove

 

 

di Carlo Di Marco[1]

 

Leggiamo sulla stampa, tutti i giorni, delle grandi manovre in atto per la formazione delle liste elettorali a livello regionale e locale. Tutti gli schieramenti si muovono in un modo o nell’altro per trovare soluzioni vincenti. Manovre litigiose, che compongono e scompongono alleanze, mostrano nuovi personaggi che ripropongono vecchi soggetti (stavolta un po’ defilati, quasi che la gente sia cieca). Tutti tesi a proporre liste “civiche” secondo una concezione strana, se non truffaldina, del “civismo”.

La sceneggiatura è la stessa: sia per la scadenza elettorale regionale che per quella della Città Giulianova (il più grosso Comune della Provincia di Teramo dove a maggio si voterà), ma le riflessioni che vengono più spontanee dovrebbero far riflettere questa classe politica tanto indaffarata quanto poco originale, prevedibile e autoreferenziale come non mai. La prima è la seguente: tutto questo trambusto punta solo a dividersi fra vari contendenti, la maggioranza dei consensi dei cittadini che ancora esprimeranno un voto valido. Vero è che alle ultime elezioni regionali del 2014 si ebbe un recupero del non voto di circa 8 punti rispetto al 2008, in quanto il dato sulla partecipazione elettorale passava del 53% del 2008 al 61,7%, ma si trattava, in effetti, di un’eccezione sulla regola dell’aumento costante del non voto (della quale, pure, va preso atto). La partecipazione al voto del 1970, infatti, in Abruzzo fece registrare l’85%. Si parla, inoltre, di dati sulla partecipazione al voto, non dell’espressione di voti validi. A quel 39% (circa) di voti non espressi, bisogna aggiungere le percentuali di voti nulli e di schede bianche. Dunque, la percentuale del non voto (voti non espressi, più bianche e nulle), nelle elezioni abruzzesi del 2014 si attestava intorno al 41%. Non molto diversa la situazione a Giulianova. Qui si passa da una partecipazione elettorale del 73,2% (al primo turno) del 2009 (inferiore di quasi 5 punti rispetto al dato precedente), a una perdita di altri due punti nel 2014, senza contare schede bianche e schede nulle. Una percentuale di non voto che si aggira intorno al 30%. La bagarre elettoralistica di chi sopra parlavamo, pertanto, è tutta tesa alla spartizione di quel che resta della fiducia degli elettori. Né questa classe politica mostra di avere molto a cuore le motivazioni più profonde di questa caduta inesorabile e continua di speranza dei cittadini.

Altra considerazione di rilievo sorge osservando questo dilagante “civismo” di facciata. Sembra che i simboli dei partiti tradizionali (specie negli schieramenti del c.d. “centro-sinistra”) saranno ammainati o saranno semplicemente un po’ nascosti. Non la stessa cosa per i personaggi che, pe lo più, saranno sempre gli stessi. Vero che ci saranno anche facce nuove, ma quelle vecchie staranno ancora lì a perpetuare vecchi metodi e vecchie logiche autoreferenziali e di potere. Questi allegri replicanti possono solo sperare che i cittadini non se ne accorgano (chi crede che la gente sia scema?), ma anche a questo sarà dovuto, cari loro, il prossimo aumento delle percentuali del non voto. Si ripropone, infatti, con altri termini e modi, il déjà vu: il vecchio sistema dei partiti falsamente e malamente mascherato.

La nostra analisi, come si vede, parte dal “non voto! Che è il vero vincitore di tutte le più recenti consultazioni elettorali di ogni livello: politiche, regionali o locali; al contempo, l’indice più significativo della cronica divaricazione fra politica e società reale. Non così l’approccio della classe politica locale e regionale di questo momento storico, poiché questa non intende dare una prova di grande discontinuità con il passato. In quello che è definito il centro-sinistra, poi, la classe politica diventa sempre più schumpeteriana e sempre meno gramsciana, partendo da leaders, capi, accordi sottobanco e promesse di poltroncine di “sopravvivenza” come è stato nel recente passato.

Eppure, chi si riempie la bocca in campagna elettorale di democrazia e partecipazione, avrebbe potuto cambiare tutto, ma vi è una dicotomia che sembra grande come il mare!

Prendendo spunto dalle pratiche deliberative della democrazia partecipativa da una parte e l’esperienza del Comune di Giulianova (Comune che abbiamo preso ad esempio), dall’altra, infatti, tale dicotomia si manifesta palesemente. In questo comune vi sono tutte le premesse e qualche esperienza. Qui il Consiglio comunale, a partire dal 2009, ha gradualmente approvato modifiche allo Statuto e regolamenti di grande lungimiranza, atti a promuovere e facilitare tali pratiche, e questo depone a favore della classe politica giuliese che poi se ne è dimenticata, purtroppo, e questo lo abbiamo detto più volte (la dicotomia). Ma questo precedente ha creato una attività di democrazia che è entrata in parte nella cultura politica locale, e allora la domanda è: le forze politiche di questa Città non avrebbero potuto ripartire da questo per esperimentare un cambiamento epocale della politica come avvenuto in altre parti da oltre venticinque anni (v. Grottammare)?

Come si poteva fare? C’era bisogno solo di volontà politica. Si poteva partire da un gruppo di volontari (15 o 20) incandidabili (così avremmo abolito i leaders precostituiti), privi di qualsiasi incarico dirigente di partito, con il solo ruolo di facilitatori il processo partecipativo. Essi avrebbero promosso una serie di assemblee pubbliche di cittadini in tre turni (fasi) nell’arco di sei mesi: la prima per raccogliere in ogni quartiere, caseggiato o frazione le esigenze delle piccole e medie collettività; la seconda per riportare nelle assemblee una bozza di programma derivante dalla prima fase; la terza per il dibattito e l’approvazione popolare delle candidature (compresa quella del Sindaco) in una lista formata sulla base di autocandidature dei cittadini. Ecco come si sarebbe formata una lista veramente civica! Passando la parola, per una volta, a chi non ha voce. Possiamo chiamarle anche “primarie”, ma queste sono primarie “di popolo”. In esse non si portano nelle assemblee cittadine programmi, liste e candidati precostituiti: sono le Assemblee, al contrario, che propongono, discutono e decidono.

I Comitati di Quartiere non avrebbero potuto avere un ruolo in questo percorso: essi nascono e svolgono attività di promozione della partecipazione nei confronti del potere politico/amministrativo una volta costituitosi, ma i partiti politici si! Anzi, così facendo, questi avrebbero potuto davvero dare un segnale di grande discontinuità dimostrando che la politica può venire “dal basso”. E tentare così, finalmente, la riconquista della fiducia dei cittadini.

Non accadrà nulla di tutto questo: non vi è stata una sola dichiarazione in questo senso. La classe politica riproduce se stessa e la sua autoreferenzialità, senza alcun ripensamento, ma i suoi esponenti continueranno a riempirsi la bocca di partecipazione popolare, di inclusione degli altri e di governo dei cittadini, sapendo bene che questi valori, in realtà, non entreranno nella loro etica fino a quando non lo decederanno veramente come a Grottammare. Sino a quel momento, tali principi resteranno nelle pagine della ricerca umanistica e nelle esperienze concrete che volontariamente si riusciranno a manifestare da sole a prescindere dai partiti.

[1] Docente di Istituzioni di Diritto Pubblico, Università degli studi Teramo

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