La bimba con la capretta sui prati della Calabria, gli anni della grande emigrazione, il sogno americano della bella ragazza del Sud che si realizza. Come una favola. Oggi un figlio tra i protagonisti dei progetti per Marte.
di Domenico Logozzo*
“Bellezze di qualche anno fa… Zia Marianna”, scrive dagli Stati Uniti e pubblica la foto
su Facebook il mio amico Giorgio Vumbaca, originario di Gioiosa Jonica, emigrato
tanti anni fa Oltre Oceano, ma sempre saldamente legato alle radici. “Molto bella e che
classe. Una attrice. La foto è meravigliosa. Bella ragazza di Calabria, veramente acqua e
sapone”, commento. E dalla risposta di Giorgio inizia il racconto di una bella favola.
Umiltà, sensibilità, intelligenza, duri sacrifici, voglia di farcela, sostenuta dall’ottimismo
della volontà e grandi soddisfazioni.
“E’ la storia tipica di quasi tutti gli emigrati, indipendentemente dalle loro origini
geografiche o etniche, che hanno in comune la voglia di lavorare, di “farcela”, non di
sopravvivere ma di eccellere, anche a costo di grossi sacrifici”. Questo mano a mano è stato
fatto da zia Marianna, dai figli e dai figli dei figli. Guardando sempre avanti e sempre più in
alto: Marte, la Luna.
“Zia Marianna – mi scrive Giorgio – da bambina, vivendo nella contrada Ceravolo di
Gioiosa Jonica, accudiva una capretta. Si erano affezionate l'una all'altra, ed erano
sempre insieme. Si racconta che quando la zia emigrò negli Usa, con la famiglia, la
capretta rimasta sola vagava tutto il giorno, belando continuamente, tristemente, alla
ricerca della sua padrona…”
Scrivo a Giorgio: “Immagino la tristezza della capretta, ma anche quella della sua
padroncina. Zia Marianna era sicuramente molto bella, anche dentro, non soltanto fuori”.
E lui: “Sì, bella fuori e dentro. Bellissima famiglia, tre figli di cui può esserne molto
orgogliosa”. Toccanti le parole di Giorgio ricordando “l’infanzia di Zia Marianna,
ragazzina cresciuta nelle campagne della contrada Ceravolo. Una esistenza
caratterizzata da quella povertà che poi in fin dei conti povertà non era, non conoscendo
la ricchezza”.
L’effetto emigrazione ha colpito, nel passato, un po’ tutti noi, direttamente o
indirettamente. Emigrare era una necessità, una sfida a noi stessi, una ricerca
spasmodica per un’esistenza migliore. Decisioni dolorose, coraggiose, mai dettate da
libera scelta. Le mete erano le più diverse, per distanza ed anche per le possibilità che
c’erano di potersi sistemare. Ricordo che anche nei casi di emigrazione interna il
capofamiglia andava a lavorare a Milano, Torino, Genova e in altre realtà
economicamente molto forti, per ritornare in Calabria a rivedere la famiglia una volta
ogni due o tre anni.
Era ancora più duro per coloro che si trasferivano nel sud-centro America, o in
Australia, o negli Stati Uniti. Migliaia di chilometri di viaggio, le paure
dell’imprevisto, il doversi adattare ad un nuovo mondo, impararne la lingua, le abitudini,
la cultura…”. Il coraggio della gente di Calabria nell’affrontare le grandi sfide. Anni tristi,
di sottosviluppo, di miseria e grande emigrazione. Sogni e speranze, alla ricerca di “un
mondo migliore”.
Seguiamo ancora il racconto di Giorgio: “Ed ecco che arriva il giorno in cui la zia
Marianna deve raggiungere, con la mamma ed i fratelli (tre fratelli, tre sorelle), il padre
che da diversi anni vive a Brooklyn. Il padre ha lavorato sodo, lavori umili e faticosi
(andare di casa in casa a riempire le fornaci di carbone per il riscaldamento e l’acqua
calda) e poi in estate a fare il giardiniere. Vita dura, da emigrante. Grande soddisfazione
è di aver messo da parte qualche dollaro cosi da permettersi di portare la famiglia negli
USA”.
Lo studio, il lavoro, la professionalità, l’amore. Scrive il nipote: “Marianna è giovane,
impara abbastanza facilmente l’inglese frequentando corsi serali. Ha la volontà e la
testardaggine (in senso buono) dei calabresi, e non si tira mai indietro, il lavoro non la
spaventa. Incontra Alfonso, che qualche anno più tardi diventerà suo marito. (Ho trovato
una foto del matrimonio di Marianna ed Alfonso, molto bella e te la mando). Ecco,
Alfonso, siciliano, è un altro esempio dell’emigrato italiano che, venuto giovanissimo
negli USA, vuole farcela, vuole imparare. Frequenta quindi il prestigioso FIT (Fashion
Institute of Technology). Di sera lavora, di giorno va a scuola. Ottiene un ottimo lavoro
presso il laboratorio sartoriale di una grossa compagnia newyorkese. Annovera clienti di
una certa fama (mi viene in mente ora il nome di Bon Jovi, ma molti, molti altri). E’ un
sarto molto ricercato, i clienti non mancano, il suo nome è garanzia di stile, perfezione”.
Cresce la bella famiglia e arrivano le grandi soddisfazioni. “Hanno tre figli. Quello
maggiore frequenta l’Università e si laurea in ingegneria elettronica, a pieni voti.
Assunto immediatamente da una rispettabilissima azienda (60 miliardi valore di
mercato), famosa oltretutto per aver mandato i suoi veicoli sulla Luna, ne è oggi vice
presidente di uno dei settori. E’ sposato con una collega di studi all’Università (anche lei
laureata in ingegneria elettronica). Entrambi hanno collaborato recentemente ad un
progetto per un radar da essere usato sugli aerei supersonici. Hanno adesso tre figli: il
grande è laureato anche lui in ingegneria elettronica, il più giovane ha preso business
administration e la ragazza si è laureata in medicina (reconstructive surgery) alla
Harvard University”.
E Giorgio a questo punto fa una opportuna e molto significativa analisi. Ieri ed oggi. “Bene,
ecco il contrasto, gli estremi o, se vogliamo, l’evolversi dei tempi: Marianna, bambina che
accudisce una capretta e poi il figlio che è coinvolto nei progetti per andare sulla Luna.
Ed i figli del figlio che hanno posizioni di primo piano. Marianna è oggi una donna che,
sebbene fragile, vive da sola (ama essere indipendente), non lontana dal figlio e dai
laboratori in cui si progettano i veicoli che andranno sulla Luna e, possibilmente, su
Marte. Se le chiediamo per caso della capretta, i suoi occhi si ravvivano, e rivedono i
prati dove, bambina, la portava a pascolare”.
Scrivo ancora a Giorgio e mi congratulo per il limpido racconto, i particolari, la scrittura
scorrevole e per le riflessioni interessantissime come" …quella povertà che poi in fin dei
conti povertà non era non conoscendo la ricchezza". Mi ha fatto tornare alla mente quanto
scriveva Corrado Alvaro nel 1930 sul suo paese, San Luca: "Nella mia infanzia fino a
nove anni, al mio paese sono stato felice. Il paese mi pareva grande, mi pareva tutto il
mondo. Non riuscivo neppure a concepire che di là dai monti esistesse un'umanità, e
comunque mi pareva che tutti dovessero essere nelle condizioni in cui oggi immagino una
tribù lontana di gente confusa e bisognosa. Non avevo neppure l'idea di una disuguaglianza
sociale, della ricchezza, né della povertà”.
Mi risponde Giorgio: “Grazie per i complimenti. Il riferimento a Corrado Alvaro e a
quello che ha scritto su San Luca, l’unica realtà conosciuta fino a quando non varcò i
confini del paese, mi ricorda il concetto di realtà secondo Platone. Platone ci narra di
uomini costretti a vivere in una caverna con sulle pareti la proiezione di oggetti. Per
questi uomini quel mondo è l’unica realtà conosciuta, non possono percepire una diversa,
non ne conoscono altre. Una volta però che possono esplorare l’esterno della caverna, si
accorgono che c’è un’altra realtà, un altro mondo”.
Giorgio mi manda un’altra foto di famiglia di Zia Marianna del 2007: “Lei è ritratta
assieme alla figlia Pina, alla nipote Jeanette e alla pronipote Malia. Quattro generazioni
in una foto. Belle, tutte”. Gli chiedo l’origine del legame di parentela zia-nipote. “E’ la
sorella di mia suocera, e zia anche di Mimmo e Franco Lucà, perché il loro papà era suo
fratello”. Una notizia che mi fa fare un tuffo nel passato, la bella infanzia calabrese a
Gioiosa Jonica, ricordando il caro papà di Mimmo e Franco amici miei carissimi
emigrati con la famiglia giovanissimi nel 1958 a Torino.
Entrambi protagonisti nel mondo politico, musicale, culturale e sociale piemontese e
italiano. Franco purtroppo è venuto a mancare 12 anni fa a soli 59 anni, ucciso da un
tumore contro il quale ha combattuto a lungo. Ha scritto La Stampa: “Franco Lucà
profeta del folk, intellettuale della musica, padre del Folk Club. Tenace e cocciuto. Uno di
quei meridionali che hanno fatto grande Torino”. Mimmo, laureato in scienze politiche,
deputato del Pds per la prima volta nel 1994, è stato rieletto per altre quattro legislature
consecutive. E’ stato tra i fondatori dell’Ulivo di Prodi e del Pd. Esponente di primo piano
delle Acli.
Giorgio, un’ultima curiosità. Ricordo quando hai lasciato Gioiosa Jonica per emigrare in
America, ricordo bene il tuo grande impegno nel mondo dello scoutismo e anche che avevi
una grande passione per la fotografia e facevi, come fai ancora oggi, bellissime foto. Alcune
le ho pubblicate con il tuo nome sul finire degli Anni Sessanta sulla Tribuna del
Mezzogiorno, il giornale che era il concorrente della Gazzetta del Sud e si stampava a
Messina. Adesso mi sfugge quale è stato esattamente l’anno in cui hai varcato l’Oceano.
“La zia Marianna è venuta negli USA quando aveva 13 anni, ancora bambina. Io invece
ho “traslocato” nel 1970, già “vecchietto” di quasi trent’anni… Diplomato in ragioneria,
qui in America ho frequentato l’Università per diversi anni, di sera, per poter utilizzare la
conoscenza in ragioneria che avevo acquisito in Italia. Mi sono iscritto all’Università
quando avevo superato i quaranta anni… Devo ammettere che di coraggio ne ho avuto
anch’io, tanto…”
Storia esemplare di quella che Corrado Alvaro chiamava “attitudine del calabrese al
sacrificio”. E le tue parole conclusive mi fanno ricordare il mondo dell’emigrazione con il
calabrese della prima metà del Novecento “uomo moderno, attivo, intraprendente, capace
di correre il mondo a suo solo rischio”, come affermava il grande narratore di San Luca.
*Già Caporedattore centrale TGR Rai