La mobilità ciclistica è tra gli obiettivi dell’Unione Europea, ed elemento essenziale di numerose linee di finanziamento.
Occorre un cambiamento culturale e competenza nella predisposizione dei progetto.
Teramo, 27/01/2021.
Apprendiamo da alcuni organi di informazione delle dichiarazione delle sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil che chiedono di fare sintesi sui progetti di Recovery Fund cercando di non disperdere le idee.
In particolare ci ha colpito la dichiarazione di Fabrizio Truono, della UIL, che ha rimarcato come in questo momento l’Abruzzo, e la provincia di Teramo, abbiano bisogno di infrastrutture, sottolineando che, tra queste, le piste ciclabili non sono prioritarie.
Condividiamo con i sindacati la necessità di fare sintesi sui vari progetti e di non disperdere le idee, ma dissentiamo fortemente sul fatto che le infrastrutture per la ciclabilità siano un elemento non prioritario, quasi fosse un lusso che, in un momento di crisi quale quello attuale, non possiamo permetterci.
Ricordiamo che uno studio del 2016 (visionabile su https://ecf.com/groups/eu-
Lo studio dimostra che i benefici della mobilità ciclistica non riguardano unicamente settori quali i trasporti o le politiche ambientali, ma coinvolgono molte altre aree in cui la UE ha competenze specifiche come, ad esempio, la politica industriale, l’occupazione, la salute e le politiche sociali. I vantaggi della mobilità ciclistica si estendono anche ad ambiti sociali come l’integrazione dei rifugiati, l’accesso alla mobilità, l’impiego, ecc.
Il comparto bici, in Italia, nel 2019, ha generato un fatturato stimabile tra i 7 e i 12 miliardi, circa lo 0,7% della ricchezza nazionale (Il Sole 24 Ore, dossier Bike Economy 2019) considerando la produzione di bici e accessori, l’indotto delle vacanze in bicicletta e l’insieme delle ricadute positive scaturite dall’uso della bici come i risparmi sulla spesa sanitaria, sul welfare e di carburante.
Confartigianato nel Rapporto “Artibici 2020 – Artigianato e filiera della bicicletta”, raccoglie alcuni dati che aiutano a spiegare il valore dell’Italia e del suo artigianato nella filiera di produzione della bici. Ad esempio: delle 3.128 imprese del settore il 63,3 per cento (1.981) sono imprese artigiane, e danno lavoro a 7.409 addetti di cui 3.514 nell’artigianato.
Il made in Italy della bicicletta vale 609 milioni di euro, di cui 231 milioni di biciclette complete e 378 milioni di componentistica. È proprio nel confronto internazionale che si delinea l’eccellenza del prodotto italiano: primo Paese dell’Unione europea del 2019 per biciclette complete vendute all’estero, con 1.776.300 unità; quinto esportatore nel mondo di biciclette e componenti con il 6,5 per cento dell’export mondiale del settore, con un primato nell’esportazione delle selle (più della metà dell’export mondiale) e nei cerchioni con una quota dell’11,5 per cento.
Nel confronto con gli altri Stati membri, l’Italia è il secondo Paese dell’Unione per valore della produzione del settore, con 1.175 milioni di euro, dietro solo alla Germania – 1.927 milioni – e davanti alla Francia (543 milioni), al Portogallo (470 milioni) e alla Polonia (417 milioni).
In più, tra i dieci maggiori esportatori europei solo Portogallo e Italia registrano un saldo positivo del commercio estero (esportazioni maggiori delle importazioni). Anche in un quadro internazionale il made in Italy mantiene i suoi livelli di eccellenza: l’Italia è al quinto posto con una quota del 6,5 per cento nell’export mondiale.
Il turismo in bicicletta, negli ultimi anni e, soprattutto in tempo di restrizioni da Coronavirus, ha dimostrato di essere una valida alternativa ad altre forme di turismo, contribuendo alla valorizzazione di territori turisticamente marginali e alla riscoperta di quello che, in generale, viene chiamato turismo Slow. Studi sulla rete ciclistica del Trentino Alto Adige dimostrano che ogni euro investito nella ciclabilità ne genera 11 di indotto, considerando solo il cicloturismo; senza tener conto di altri elementi come salute, congestione del traffico minore, minor inquinamento, ecc.
Ma al di là dei grandi numeri e dei vantaggi, diretti e indiretti, che l’utilizzo della bicicletta, per la mobilità quotidiana ed il turismo, basta considerare l’alto costo che il possesso dell’automobile privata ha per ogni famiglia italiana. In Italia il tasso di motorizzazione è il secondo più alto d’Europa, con 646 automobili ogni 1000 abitanti. Se si pensa che il possesso di un’automobile media costa, tra ammortamento prezzo di acquisto, carburante, manutenzione, assicurazione, tasse, ecc., per una percorrenza di 15.000 km, da un minimo di 5.600 euro l’anno per una vettura di piccola cilindrata a 8.500 euro ed oltre per una vettura di media cilindrata (dati ACI).
Se, quindi, l’Italia avesse maggiori infrastrutture per la ciclabilità, oltre ad aumentare enormemente i vantaggi sopra indicati (valutati con una situazione di enorme ritardo del nostro Paese rispetto alle politiche per la mobilità ciclistica ed il turismo in bicicletta), le famiglie potrebbero scegliere di non possedere una doppia automobile, ad esempio, risparmiando diverse migliaia di euro.
Ma, per questo, e torniamo ad essere d’accordo con i sindacati, servono politiche mirate, pianificazione e non dispersione di risorse.
Un recente studio della European Cyclists’ Federation (ECF) evidenzia che nel nostro Paese esistono criticità ben delineate da alcuni dati specifici, come evidenziato in una specifica guida dedicata all’Italia. Il 23% delle emissioni dei gas a effetto serra è provocato direttamente dal traffico veicolare di cui circa l’80% è dovuto all’uso di un’automobile privata, un dato allarmante e in costante aumento negli ultimi anni. Si stima inoltre che il 3,3% della popolazione italiana (circa 2 milioni di persone) viva in aree dove gli standard europei di qualità dell’aria non vengono rispettati. L’Italia si è già impegnata a ridurre del 53% queste emissioni entro il 2030, un obiettivo non da poco che richiede un netto cambio di paradigma nella mobilità per essere raggiunto.
Per arrivare a ciò fino ad ora sono già stati attivati 35 PUMS, Piano Urbano della Mobilità Sostenibile, che ogni città dovrebbe seguire per delineare un futuro quanto più ciclabile. Altri 35 PUMS sono stati redatti ma non ancora approvati, mentre ulteriori 88 sono in fase di preparazione. Ma tutto questo sembra non sia abbastanza.
Le raccomandazione ufficiali che la European Cyclists’ Federation da al nostro paese sono ben precise. “L’Italia dovrebbe focalizzarsi in investimenti sulla transizione green e digitale, in particolare sull’uso e la produzione di energia pulita, trasporti pubblici sostenibili, ricerca e innovazione, una migliore gestione dei rifiuti e dell’acqua così come il potenziamento delle infrastrutture digitali”.
L’ECF, per attivare politiche bike friendly attraverso il Recovery Fund, consiglia vivamente all’Italia di spingere sugli obiettivi elencati nel National Energy and Climate Plan da poco sottoscritto:
– sviluppo della mobilità ciclistica attraverso la costruzione di piste ciclabili;
– promozione della mobilità cosiddetta sharing (bike, car e moto sharing con emissioni pari a zero);
– integrazione dei vari servizi di mobilità sostenibile (ad esempio parcheggi di biciclette in prossimità delle stazioni dei mezzi pubblici e parcheggi d’interscambio), quindi intermodalità con altre forme di trasproto (bus, treno, ecc.).
Un passaggio fondamentale per riuscire ad accedere a questi fondi è, però, quello di riuscire a tradurre le idee di mobilità ciclistica in progetti concreti e con una strategia coerente che tenga conto del rigido regolamento dell’Unione Europea.
Liquidare “le piste ciclabili” (che sono solo una parte del complesso sistema della ciclabilità) come un lusso, vuol dire non aver capito l’enorme potenzialità che hanno sul sistema economico del Paese.
Basterebbe leggere gli studi e i documenti programmatori dell’Unione Europea, che ci impongono di investire sulla mobilità sostenibile (da ultima la Strategia per una mobilità sostenibile e intelligente), copiare da Nazioni più virtuose (e furbe) di noi, e cambiare atteggiamento culturale.
Perchè il mondo è già cambiato; se l’Italia rimane indietro adesso, poi sarà difficile riprendere il passo.