Come sta accadendo ormai da qualche anno, alcuni dei nostri Comuni
montani hanno emanato, a fronte di nevicate abbondanti, Ordinanze
(cosiddette “contingibili ed urgenti”) che hanno vietato qualsiasi attività in
montagna: escursionismo, scialpinismo, alpinismo e ciaspolate sull’intero
comprensorio del territorio comunale di competenza.
L’Art. 54, comma 4, del Dlgs 267/2000 (TUEL – Testo Unico delle Leggi
sull'ordinamento degli Enti Locali) prevede che «Il sindaco, quale ufficiale
del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e
urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di
prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e
la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono
preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione
degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione».
La Sezione dell’Aquila del Club Alpino Italiano ritiene di dover intervenire,
per meglio chiarire e sintetizzare, a vantaggio della pubblica opinione, la
propria posizione in merito, affrontando tematiche legate alla responsabilità
ed al pericolo, nello svolgimento delle attività in montagna.
La prima riflessione riguarda il tema della responsabilità personale.
Colui che va in montagna decide liberamente di dedicare il proprio tempo
libero ad una passione; molte persone, a volte anche sollecitate da un
sistema mediatico di divulgazione delle informazioni superficiale e
allarmista, ritengono questa scelta pericolosa e – di conseguenza – inutile e
non necessaria. Ovviamente, pericolosa può anche esserlo. Secondo questo
meccanismo “logico”, si possono tuttavia considerare inutili e
intrinsecamente pericolose anche molte altre attività, non legate agli
spostamenti ritenuti “utili”, cioè quelli dettati da varie necessità o attività
professionali. A puro titolo di esempio pensiamo al jogging (350 pedoni
muoiono ogni anno investiti da automobili), al ciclismo (600 decessi ogni
anno), agli spostamenti in automobile (4500 morti per incidenti ogni anno),
a quelli in motocicletta (1500 morti l’anno). Sono numeri alti e
impressionanti, soprattutto se rapportati alle circa 20 vittime annuali,
causate dalle attività invernali in montagna, sull’intero territorio della nostra
Italia che di tutto manca, tranne che di montagne.
La seconda riflessione, su cui dobbiamo soffermarci in modo più attento,
riguarda la pericolosità, per se stessi e per gli altri, dell’attività in montagna
e la responsabilità che ne deriva.
La differenza fra il pericolo per se stessi e quello per la collettività non è
di poco conto. Se un Sindaco emana un’Ordinanza restrittiva, per una data
area o per l’intero territorio comunale, necessariamente può e deve farlo per
la tutela pubblica, mirando a limitare un pericolo collettivo e a garantire
incolumità pubblica e sicurezza urbana, ambiti difficilmente collegabili
all’attività del singolo appassionato, che si muove in un ambiente selvaggio,
non antropizzato e lontano da infrastrutture o insediamenti urbani.
I più recenti esempi sul nostro territorio del genere di Ordinanze di cui
stiamo parlando, riguardano il Comune di Rocca di Cambio (Ordinanza 7
gennaio 2021, revocata il 20 gennaio 2021), e il Comune di Lucoli
(Ordinanza 27 gennaio 2021, revocata il 5 febbraio 2021).
La legittimità di questo tipo di Ordinanze è stata osservata sia dai
Tribunali Amministrativi, sia in studi e convegni; ne è risultato che, nella
quasi totalità dei casi, queste Ordinanze sono state emesse in violazione del
citato Art. 54 del Dlgs 267/2000 che le prevede, mancando la cosiddetta
“urgenza qualificata”. Infatti tali Ordinanze devono e/o possono essere
emesse quando vi sia un evidente pericolo per “l’incolumità pubblica e la
sicurezza urbana”, mentre è chiaro che, invece, queste Ordinanze non si
riferiscono affatto al contesto urbano di cui si parla nella Legge, su cui si
estende la correlativa responsabilità amministrativa, ma riguardano l’esatto
contrario, cioè l’ambiente montano e selvaggio, ben distante dal contesto
urbano e da qualsiasi responsabilità dell’Amministrazione comunale.
Dato che queste Ordinanze limitano oggettivamente la libertà individuale,
sono spesso considerate incostituzionali, perché la libertà personale può
essere limitata soltanto da Leggi e non da Ordinanze comunali, magari
anche emanate fuori dal contesto per le quali sono previste.
L’ultima riflessione riguarda la necessità della data di scadenza che
Ordinanze di questo tipo devono avere, non potendo essere quindi valide
sine die; potrebbero semmai essere prorogate alla scadenza, ma una
scadenza devono prevederla.
La motivazione in base alla quale i Sindaci dei nostri territori montani così
frequentemente ricorrono a Ordinanze restrittive, è molto probabilmente
riconducibile alla fortissima pressione mediatica che essi stessi sono
costretti a subire: chiudere, interdire, vietare, divengono mezzi per tutelare
l’Amministrazione stessa da non infrequenti azioni legali. In questi casi
sarebbe, però, più intellettualmente onesto parlare di atti di autotutela, non
a vantaggio della collettività.
Il 27 marzo 2018 a Fonte Cerreto (Gran Sasso d’Italia), ha avuto luogo un
interessante Convegno dal titolo “Perché vietarci di andare in montagna?”. Il
Convegno, nato dall’Ordinanza di divieto a percorrere la Val Maone,
emanata dal Comune di Pietracamela, ha visto la presenza di molti
appassionati, degli avvocati Vincenzo Cerulli Irelli e Roberto Colagrande, di
professionisti della montagna, di esponenti del mondo politico abruzzese e
dell’Associazionismo del settore.
In quella occasione si analizzò a fondo il problema, lo si osservò dai vari
punti di vista: quello del fruitore, del professionista e del giurista. In sintesi
lo Stato, e quindi il Comune, secondo Cerulli Irelli, può intervenire per
bloccare chi mette in pericolo la sicurezza altrui, non chi affronta un pericolo
per sua libera scelta. Anche la nuova Legge Regionale sulla montagna
impone agli scialpinisti di avere con sé ARTVA, pala e sonda non per limitare
le loro attività, ma per salvaguardare se stessi e gli eventuali soccorritori,
che forniscono un servizio pubblico.
Le Ordinanze già emanate e, dati i precedenti, quelle che
presumibilmente verranno emanate a seguito di ogni importante nevicata,
possono tuttavia produrre effetti “collaterali”: da una parte si promuove e si
pubblicizza il proprio territorio, vantandone le attrattive, i servizi e la
capacità di accoglienza, evocando a tal fine la selvaggia bellezza delle nostre
montagne; dall’altra si emanano Ordinanze restrittive che decretano, in
modo neppure tanto implicito, la pericolosità oggettiva dell’andare per i
nostri monti.
Il Club Alpino dell’Aquila, per interrompere quello che sembra essere un
corto circuito istituzionale, ritiene di dover rammentare a tutti che
l’alpinismo, lo scialpinismo, e tutte le altre discipline che prevedano la
frequentazione della montagna invernale, implicano un’intrinseca
componente di rischio, che occorre imparare a riconoscere e gestire, grazie
all’acquisizione di consapevolezza ed esperienza, percorrendo un cammino
di apprendimento lento e progressivo; un percorso di responsabilità, umile
ed accorto, che porti a saper valutare, prima dell’uscita sul terreno innevato
– e successivamente in loco – le possibili insidie, legate alle mutevoli
condizioni della meteorologia e del manto nevoso. Queste considerazioni
valgono particolarmente sull’Appennino, dove i venti e le forti escursioni
termiche possono creare gravi elementi di rischio (ghiaccio, pericolo di
distacco di valanghe, siano esse spontanee o provocate).
Le Amministrazioni comunali possono certamente rivolgersi alle tante
competenze a loro disposizione: la presenza sul nostro territorio di Guide
Alpine e altre figure di professionisti della montagna, i servizi Meteomont
dell’Arma dei Carabinieri e delle Forze Armate, la struttura del CAI, con il
suo Corpo Istruttori e le sue Scuole, il suo Servizio Valanghe Italiano, il
Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico, i Corpi di Soccorso della
Guardia di Finanza, dei Carabinieri, dell’Esercito. Non manca la possibilità di
attingere a queste preziose fonti di consigli, pareri, suggerimenti e indirizzi.
Le nostre belle e martoriate “terre alte”, che in passato sono già state
tanto provate da emigrazione e spopolamento, oggi lo sono ancora a causa
di terremoti, incuria del territorio, mancanza di lungimiranza e progettualità.
I divieti e le chiusure, oltre alla fastidiosa privazione della libertà di poter
decidere, comportano anche l’allontanamento da quella che il CAI, a livello
nazionale e locale, considera la strada maestra per il futuro dell’economia
delle aree montane. Il Club Alpino promuove la scelta di un turismo lieve,
poco impattante sull’ambiente, basato su una organizzata semplicità, che
tanto manca all’uomo civilizzato del Terzo millennio, a cui, teoricamente,
non mancherebbe nulla.
Occorre lavoro e impegno per stimolare un turismo di massa, diverso e
libero; servono lungimiranza e fantasia, per saper attrarre persone
responsabili, educate e consapevoli. Certamente occorre anche prudenza
nella pianificazione e nella realizzazione di infrastrutture, per le quali si
fanno investimenti milionari con progetti di sviluppo, spesso tanto faraonici
quanto miopi. Troppi ruderi, troppi tralicci, troppe stazioni sciistiche
abbandonate e dismesse ci rammentano che il cambiamento climatico e
quello socio-antropologico hanno scritto la parola fine in fondo alla
narrazione degli iperbolici vantaggi, derivanti dal turismo di massa negli
anni del boom economico, vantaggi che – semplicemente – non ci sono più.
Vincenzo Brancadoro e Ugo Marinucci
Presidente e Vicepresidente CAI L’Aquila