Versi di Mario Lolli e Musica di Camillo Berardi.
Esecuzione della Corale “Gran Sasso” diretta dal M° Carlo Mantini
Le maggiori montagne abruzzesi, le più alte dell’Appennino, sono state testimoni silenziose di civiltà antichissime che affondano le radici nella preistoria, nei miti e nelle leggende, trasmesse da tempo immemore di padre in figlio, oralmente e a memoria.
Ignazio Silone ha scritto che “Il destino degli uomini della regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne”, ma anche l’origine della fiera stirpe abruzzese, “Forte e gentile”, è legata ai monti; non a caso la Majella e stata chiamata “Magna Mater” da Ovidio, Macrobio e Lucrezio, e “Montagna materna” dal popolo abruzzese.
L’inesausta sete di conoscere le nostre radici, e l’ansia mai sopita di riscoprire i caratteri originali della nostra cultura, in ogni tempo hanno cercato di ricostruire e ricomporre la genesi delle nostre origini, attingendo alla storia, scavando nella memoria e nei segreti del passato, attingendo anche nel fantastico e nell’immaginario.
Il maestoso Gran Sasso, aspro e selvaggio, con le sue vette vertiginose, definito “Re degli Appennini”, e la Majella, denominata “Gran Madre” e “Montagna materna”, con forme gentili, sinuose e morbide, hanno sempre ispirato l’immaginario, sia individuale che collettivo, sia colto che popolare, con ampi margini di fantasia, ma sappiamo che le leggende che ne derivano, sottendono sempre un fondo di verità.
La fiaba “Ci stea ‘na ‘ote”, scritta dal poeta aquilano Mario Lolli, è ambientata nel nostro pianeta, paragonata a un “gomitolo” (gammotta) – vagante nell’universo insieme alle stelle e ad altri corpi celesti – ricoperto da aridi oceani di rocce e da sconfinate distese di ghiacci, agli albori delle primordiali e rare forme di vita, prima della comparsa dell’uomo sulla Terra.
In questo scenario selvaggio e desolato, l’impervio Gran Sasso e la maestosa Majella – più bella delle altre montagne – assumono sentimenti umani e con la loro storia d’amore, accolta festosamente dal primigenio rigoglio della natura trionfante e variopinta, diventano i protagonisti, responsabili dell’origine della fiera stirpe abruzzese, “forte e gentile”.
La fiaba, desueta e al di fuori dei clichés convenzionali, rappresenta suggestivamente la “La leggenda degli abruzzesi” e come ogni favola incomincia con “Ci stea ‘na ‘ote” (C’era una volta).
Il canto musicato da Camillo Berardi è eseguito dalla Corale “Gran Sasso”: