di Goffredo Palmerini
L’AQUILA – Il rientro dall’estero a L’Aquila, l’antica bellezza della città, la serenità del tempo ordinario e
l’incanto della natura d’ottobre, dispensano quella necessaria quiete per riordinare pensieri ed emozioni. Servono
un paio di giorni per riconquistare la quotidianità ed apprestarsi a scrivere il racconto dei giorni a New York.
Oggi è stata una bellissima giornata lucente d’azzurro, giunta ormai all’ora che volge al tramonto, quando la sua
maestà il Gran Sasso con l’erta di roccia del Corno Grande s’incendiano di rosso alla luce del sole calante. E’
questo il tempo di benessere per iniziare il racconto. Ero giunto a New York il pomeriggio di sabato 8 ottobre
con un volo ITA. Lunga fila agli sportelli dell’immigrazione, un’ora e mezza, poi il taxi mi porta dal mio ospite,
Mario Fratti, un “giovanotto” di 95 anni che non consente deroghe al suo concittadino aquilano. La sua bella
casa sulla 55^ Strada dev’essere sempre mia temporanea dimora. Cosicché diventa un cenacolo: di amicizia,
affetti, ricordi, narrazioni. E di aggiornamenti sulla amata sua città, L’Aquila, dov’egli nacque il 5 luglio 1927 e
che resta nel suo cuore, quantunque vi abbia vissuto solo i suoi primi vent’anni. Gli altri li ha vissuti a Venezia
per gli studi alla Ca’ Foscari, poi quelli del primo matrimonio che gli ha dato due figli, Barbara e Mirko, quindi
dal 1963 a New York, dove ha vissuto e vive la fiorente stagione di docente universitario, prima alla Columbia e
poi all’Hunter College, e di drammaturgo. A casa Fratti mi aspettano Valentina, nata a New York dal secondo
suo matrimonio, e Piero Picozza – romano, vive e lavora nella Grande Mela da una quarantina d’anni – che di
Mario è amico carissimo. Con Mario è subito una rimpatriata. In buona ripresa, dopo un’accidentale caduta in
casa, ci raccontiamo storie dell’Aquila, di antiche sue amicizie, di recenti fatti straordinari come la visita pastorale
di Papa Francesco alla città per la Perdonanza, l’antico giubileo donato agli aquilani da Celestino V nel giorno
dell’incoronazione al soglio pontificio nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, il 29 agosto 1294. Questo
della rimpatriata è il rito che più lo intriga ogni volta che gli faccio visita, ancor più atteso per via di quasi tre anni
di pandemia.
E’ una bella casa-museo la dimora di Mario Fratti, all’ultimo di 15 piani d’un palazzo primo ‘900 rivestito di
mattoni, circondato da svettanti architetture di cristallo cui si sono aggiunti, negli ultimi anni, arditi grattacieli a
ridosso del Central Park sud, splendenti nella loro altezza da vertigine. L’appartamento è pieno di targhe, trofei,
premi e riconoscimenti al drammaturgo, locandine teatrali in varie lingue e località del mondo, quadri, graziosi
ninnoli, aquile e cavalli di metallo, legno e ceramica. Molti dei ritratti, ad olio o disegni e incisioni, riguardano il
suo volto, come pure una scultura in bronzo assai espressiva. Pareti intere con libri di teatro e le sue numerose
opere pubblicate in diversi idiomi (le commedie di Fratti sono tradotte in 21 lingue). E poi tanto materiale a
stampa di Nine, il suo famoso musical premiato con ben 7 Tony Award, l’oscar del teatro. Insomma, è
l’ecosistema d’un grande commediografo qual è Mario Fratti per il teatro mondiale. Ma non solo. La casa
racconta, attraverso foto e ricordi, l’altra grande figura che fino all’alba del 1993 – deceduta il primo gennaio a 69
anni d’età – ha condiviso con Mario la vita, l’amata consorte Laura Dubman. Nata a San Francisco, già bambina
prodigio che aveva tenuto il primo concerto a 5 anni, era pianista di raro talento. S’era formata sotto la guida di
Arthur Rubinstein, un gigante del pianoforte. Tutti i critici musicali le predicevano un brillante futuro di
concerti. L’attendevano anni di successo, com’era già accaduto in concerti tenuti a San Francisco, New York,
Parigi. Ma Laura aveva poi preferito dedicarsi all’insegnamento, come istruttrice di tecnica pianistica. Rubinstein
stesso gli affidato la formazione musicale dei suoi figli. Poi Laura aveva cominciato, nel 1940, alla Metro Goldwin
Mayer ad insegnare ad attrici e attori le giuste posture al piano e lì aveva conosciuto Katharine Hepburn.
Sarebbe nata tra loro una forte e duratura amicizia, consolidatasi in una quarantennale corrispondenza. Casa
Fratti conserva gelosamente il pianoforte a coda che l’attrice donò a Laura, sua insegnante. Diverse grandi foto
della Hepburn, con dediche autografe a Laura o a Mario, sono esposte alle pareti di casa Fratti. Dalla storia
d’amore tra Laura e Mario, due forti personalità, nacque Valentina – stupefacente la somiglianza alla madre –,
ora affermata autrice e regista teatrale. Casa Fratti racconta anche un'altra singolarità: le finestre guardano quelle
dell’appartamento gemello, allora abitato da Tennessee Williams. Mario conversava con lo scrittore attraverso
gesti di saluto dalla finestra e brevi colloqui negli incontri sul pianerottolo dell’ascensore, fin quando lui risiedette
in quel palazzo, prima di trasferirsi all’Hotel Elysée, dove abitò e dove il 25 febbraio 1983 fu trovato morto.
Domenica 9 ottobre, alla Cerimonia di Proclamation – su cui ho già riferito nel precedente report – ho potuto
incontrare e salutare Josephine Maietta, presidente dell’AIAE, Peter Segalini, presidente del National Council
of Columbia Associations, il prof. Joseph Scelsa, fondatore e presidente dell’Italian American Museum, ora
ampliato nell’intero palazzo al 155 di Mulberry Street rispetto all’originaria sistemazione a pianterreno,
l’imprenditore e filantropo Angelo Vivolo, presidente della Columbus Heritage Coalition, Elisabetta Calello,
per tutti Lisa, già funzionaria del Consolato Generale ed ora infaticabile operatrice in molte associazioni culturali
e sociali nella Grande Mela. Ho conosciuto, dopo la cerimonia, il Console Generale d’Italia dr. Fabrizio Di
Michele, da un anno alla guida del Consolato più ambito nel mondo e assai stimato dalla comunità italiana e
dalle istituzioni americane. Mi sono concesso, dopo la cerimonia al Columbus Circle, una passeggiata in
Central Park. E’ sempre frequentato, ma di domenica è davvero un’altra cosa per presenze: famiglie, bambini
che giocano, chi fa footing e chi si gode il sole sugli speroni di granito scuro che si ergono dai prati smeraldo.
Stupendo è l’acceso ventaglio di colori del foliage. Intriga nell’immenso parco questo pullulare di vita, lo
straordinario e involontario spettacolo di varia umanità che si può osservare nei viali, lungo il Central Park Mall
e alla Bethesda Fountain. Lunedì 10 ottobre è stata giornata piena con la Parata del Columbus Day, della quale
ho già ampiamente riferito con l’altro articolo.
Dedico la mattinata di martedì 11 ad un giro di telefonate e a rispondere ad inviti e messaggi. Chiamo Domenico
Accili, professore alla Columbia University. E’ direttore del Russ Berrie Pavilion, prestigioso Centro di
Ricerca sul Diabete e sull’Endocrinologia. Aquilano d’origine, studi all’Università La Sapienza di Roma e al
Policlinico Gemelli, quindi negli Stati Uniti presso il National Institute of Heath di Bethesda (Maryland) dove è
stato capo della sezione Child Health, quindi a New York docente nella Facoltà di Medicina e primario al
Columbia Presbiterian Hospital. Insigne cattedratico e ricercatore, è spesso in giro per il mondo,
frequentemente in Giappone. Per i suoi meriti il Consiglio Regionale d’Abruzzo nel 2016 gli ha conferito il più
alto dei riconoscimenti. Mimmo, così lo si chiama in famiglia e tra amici – sono stato molto legato al padre
Achille Accili, Senatore della Repubblica per cinque legislature – mi dice che l’indomani ha un impegno a
Boston, ma concordiamo un incontro per giovedì a metà giornata. Una telefonata doverosa a Maria Fosco,
dirigente del Queens College, molto attiva nella comunità italiana di New York. Quest’anno non è stato possibile
programmare un incontro con l’associazione Orsogna MAS di Astoria, della quale è esponente di spicco.
Tuttavia mi informa sulle ultime novità e attraverso lei trasmetto il mio saluto all’intera comunità abruzzese.
Incontro Franco Borrelli, caporedattore di Oggi 7, magazine del quotidiano America Oggi, giornale con il
quale da anni collaboro. Parliamo di varie cose e delle nostre famiglie, di figli e nipoti, abbiamo la stessa età.
Infine Borrelli mi chiede se posso scrivere un reportage sul Columbus Day per il numero di Oggi 7 in uscita
domenica 16. Volentieri gli confermo disponibilità, anche se i tempi sono stretti e comportano un cambio
d’agenda. Salta la partecipazione presso Gracie Mansion, alle 18, alla cerimonia di Proclamation del Sindaco di
New York, Eric Adams. C’è da scrivere fino a tarda notte e poi scegliere le foto più significative a corredo
dell’articolo. Lo invio a Borrelli nei tempi previsti per l’impaginazione.
Nella mattinata di mercoledì chiamo Laura Benedetti per un saluto e per dirle che questa volta non potrò
andare a Washington, sono pochi i giorni a disposizione. Mi informo sulle sue attività. Laura è tornata
nuovamente a rivestire la carica di direttrice del Dipartimento d’Italiano della Georgetown University, uno dei
pochi dipartimenti di italiano indipendenti negli Stati Uniti e uno dei più grandi. In questo rinnovato ruolo Laura
si propone di creare nuovi legami tra il suo dipartimento e organizzazioni italiane, soprattutto grazie a un
programma di stage estivi. Uno di questi accordi, appena concluso, permetterà a uno studente o studentessa del
suo ateneo di trascorrere un mese a L’Aquila l’estate prossima, per svolgere un’esperienza formativa nell’ambito
delle attività promosse dalla Associazione “Donatella Tellini” – Biblioteca delle Donne. Mi congratulo con lei
perché proprio il giorno prima è uscito A Country of Paper, versione inglese del suo romanzo Un paese di carta,
pubblicato da Pacini nel 2015. L’idea d’una versione inglese è stata ispirata da un’iniziativa della prof. Donatella
Melucci, collega di Laura a Georgetown, che ha scelto Un paese di carta quale testo centrale d’un suo corso di
traduzione. Il lavoro della professoressa e dei suoi studenti ha fornito a Laura una base su cui operare numerosi
tagli, aggiunte e modifiche. A Country of Paper deve dunque essere considerato una riscrittura di Un paese di carta,
piuttosto che una semplice traduzione, sull’esempio di Amara Lakhous che redige diverse versioni dei suoi
romanzi a seconda della lingua prescelta. Dedicato a “L’Aquila, my city of paper”, la versione inglese del
romanzo mantiene al centro della narrazione il complesso rapporto di tre generazioni di donne con le proprie
origini e con la storia aquilana. Ringrazio Laura Benedetti per le feconde relazioni che mantiene con la sua città
d’origine.
Giovedì 13 in metro mi reco ad Harlem al Russ Berrie Pavilion per incontrare il prof. Accili. Sono le 12:30
quando arrivo davanti al suo ufficio. Mi vede, mi viene incontro. C’è grande amicizia tra noi, l’abbraccio è forte e
sincero. Ci eravamo visti l’anno scorso in ottobre a L’Aquila per il Centenario della nascita del Sen. Achille
Accili. Fui uno dei relatori al seminario di commemorazione, tenuto all’Auditorium del Parco alla presenza dei
figli del Senatore: Maria Assunta, già Ambasciatore d’Italia a Budapest e poi presso le rappresentanze ONU a
Vienna, Giulio, Bernadette e appunto Mimmo. Abbiamo parlato dei terribili mesi della pandemia, del lavoro
dei 40 medici della divisione ospedaliera che Mimmo dirige in quella zona di New York densa d’immigrati
centroamericani che anche per motivi economici hanno avuto problemi a proteggersi dal Covid. C’è stato il
tempo per un lunch nelle vicinanze. Siamo passati davanti al locale dove il 21 febbraio 1965 fu assassinato
Malcom X, ricordando le sue lotte per i diritti civili. Nel pomeriggio, dopo la pioggia della mattina, preferisco
restare in casa con Mario e Valentina. Abbiamo tante cose da raccontarci, anche sull’interessante progetto che
Valentina sta studiando, che approderà in una sua pièce teatrale. Venerdì 14 è tornato il sereno. La giornata è
dedicata ad una visita al Ground Zero Memorial, luogo della tragedia dell’11 settembre 2001, che fece 2.753
vittime nel crollo delle Torri Gemelle. Due singolari fontane di marmo scuro richiamano le piante dei due
grattacieli. Sulle balaustre che le contornano i nomi delle vittime. Belle le architetture della ricostruzione.
L’altissimo One World Trade Center richiama alla memoria le Twin Towers. Resto in silenzio davanti al luogo
che ricorda le vittime dell’attentato. C’è anche lo shopping, al Macy’s e sulla Quinta Avenue: i miei nipotini
Chiara, Francesco e Ilaria meritano un regalino dal nonno. Di rientro trovo il messaggio di Eleonora Pieroni,
moglie dello stilista Domenico Vacca che opera su New York. Lei di Foligno, assai versatile, è modella,
presentatrice e recentemente anche impegnata in una piccola parte nel film “Dante” di Pupi Avati. Viene a
salutare Mario, che conosce da anni. La sua casa è a un centinaio di metri, sulla stessa strada. Ci siamo conosciuti
a Roma l’anno scorso, in un evento culturale organizzato da Massimo Lucidi nel palazzo vaticano di San Carlo
ai Catinari.
In serata la visita a Mario di Vittorio Terracina. Figlio di genitori ebrei romani sopravvissuti alla Shoah, pittore
astratto, vive a New York dal 1978 ed è un grande amico di Fratti. Animo inquieto, Vittorio ha girato il mondo e
la sua vita è davvero un romanzo. Negli anni ’60 viaggia in tutta Europa e nel ’70 si ferma a Londa, dove resta
fino al 1975. Un anno dopo parte alla ventura in Messico, Guatemala, El Salvador, Panama, Colombia, Ecuador,
Brasile. Poi in India e Nepal, fino a fermarsi a New York. Empatico e ironico, facciamo subito amicizia, mi
sembra di conoscerlo da una vita. Passiamo un paio d’ore di buonumore, insieme con Mario e Piero. Domenica
16 è il mio giorno di partenza. Piero si cimenta bene in cucina e prepara un ottimo pranzo all’italiana, occasione
di saluti e promesse. Mario mi chiede quando tornerò a trovarlo, annuiscono Valentina e la sua amica Anna.
Prometto una visita per l’anno venturo. Nel pomeriggio un taxi mi porta al JFK Airport, infilando Queensboro
Bridge mentre il sole genera riflessi incandescenti sull’East River. A sera il volo per Roma, nella beatitudine delle
emozioni vissute.