In rilievo, Storie giuliesi

Giulianova. 1855, la sommossa contro l’industriale Camillo Massei.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 24.
di Sandro Galantini*
Ogni epidemia crea inevitabilmente paura. Quando nel 1855, dopo quello asiatico del 1837, il colera dal sud della Francia si diffuse in Italia raggiungendo anche l’Abruzzo, il terrore s’impadronì della popolazione. Un po’ dappertutto si svilupparono agitazioni, a volte innescate per scopi politici, col pretesto che il morbo non fosse un evento naturale bensì intenzionalmente sparso da “untori” al soldo dei “galantuomini”, cioè delle classi dirigenti. Il 29 luglio a Notaresco il farmacista antiborbonico Andrea De Luca, già sospettato nel 1849 di detenzione di armi proibite, aveva accusato un suo rivale di usare veleni. La falsa accusa, dovuta ad una meschina gelosia tra farmacisti, aveva creato il diffuso convincimento di una congiura ai danni della popolazione locale da parte della Commissione sanitaria, di medici, farmacisti e persino del parroco, che si diceva avesse avvelenato le ostie consacrate.
A Giulianova, pure il 29 luglio, circa un centinaio di individui armati di scuri e tagliapietra si era diretto minaccioso, gridando «viva il Re», verso la fabbrica di cremore di tartaro di Camillo Massei ubicata nei pressi dell’attuale bivio Bellocchio. Si era infatti sparsa la voce che l’industriale Massei, di origine teramana ma traferitosi da tempo a Giulianova di cui era stato sindaco dal 1838 al ’40, nascondesse nel suo casino di campagna vicino all’opificio una dozzina di “avvelenatori”. Non solo. Si diceva anche che insieme con il figlio Filippo, II eletto in Comune (cioè assessore), avesse ordinato all’estero un barile di veleno facendo morire di colera due mugnai che si erano rifiutati di versarlo nella macina. Il raid punitivo era stato però interrotto dalla presenza, vicino al fosso di Mustaccio, di un gendarme a cavallo per cui la turba si era dispersa. Non era vero che i Massei, come gli altri “gentiluomini”, ordissero per “attossicare” frutta, sale, zucchero, vini, pozzi e fontane, come il popolo impaurito credeva. Ma che, come in questo caso, qualcosa di vero ci fosse ce lo dice un documento d’archivio marchigiano. Una missiva anonima per il Delegato apostolico di Ascoli riferiva di un intenso traffico illecito di merci tra S. Benedetto del Tronto, iniziato nel 1854 e proseguito nel 1855 nonostante l’epidemia colerica e quindi pericolosissimo, ed il vicino Regno. A capo dell’organizzazione malavitosa era l’insospettabile farmacista sanbenedettese Giuseppe Leti il quale, complici i «primi del paese che le cariche pubbliche occupano» e con la copertura del corrotto Commissario sanitario Aleandro Anelli, ricavava dalla «Contrabandiera società» rilevanti guadagni. Tra le merci spedite oltre Tronto da S. Benedetto, dove nella sola giornata del 13 luglio 1855 il colera aveva falciato 38 persone, anche «rete, e cordaggi ed altri generi» che continuamente Gioacchino Palestini recava, tramite «nascosto imbarco», proprio a Camillo e Filippo Massei.
Tu, Elso Simone Serpentini, Simone Gambacorta e altri 54
Commenti: 23
Condivisioni: 2
image_pdfimage_print
Condividi:

Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Controllo anti spam: * Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.