Cultura & Società, In rilievo

25 Aprile Racconti in quarantena – IL RISCATTO DI HANS di Mario Narducci

L’AQUILA – Sotto una pensilina di Viale Gran Sasso, una delle cinque vie del Torrione,
stava accovacciato Hans con il suo pastore tedesco a lato. Le gambe incrociate come un
santone indiano e del santone aveva tutto: le ossa che gli spuntavano aguzze da sotto i
vestiti laceri, i piedi che navigavano dentro sandali slabbrati, i capelli e la barba lunghi e
incolti che si confondevano e diventavano tutt’uno come un cespuglio di rosmarino, e
l’immobilità, che cessava appena quando piegava due o tre volte il capo per ringraziare la
gente che gli faceva suonare uno spicciolo dentro la scatola di latta.
Che non fosse però un santone c’erano a tradirlo il biondo del cespuglio e i monosillabi
gutturali e taglienti che emergevano dalla sua bocca quando acquistava un panino farcito,
che condivideva con il cane, nel bar a lato, spargendo sul bancone gli spiccioli appena
raccattati. Per il resto, la sua giornata trascorreva nel silenzio più assoluto, rotto soltanto a
sera, quando all’interno del bar, davanti a una birra più volte replicata, si lasciava andare a
spizzichi di confidenze con qualche altro “disperato” come lui.
Hans veniva da una regione della Germania del Nord. Aveva scelto L’Aquila per
viverci, perché all’Aquila era passato con la Wehrmacht al tramonto della seconda
Grande Guerra. Ma quel passaggio lo segnò per tutta la vita, carico come fu di
rastrellamenti e di eccidi, tragico colpo di reni di un esercito in sfacelo. Diciassette
assassinati a Onna, diciassette a Filetto, centovent’otto a Pietransieri, tra cui sessanta
donne e trentaquattro ragazzi sotto i dieci anni. Hans non era nei plotoni di esecuzione. E
nemmeno tra gli uomini che all’ordine del tenente Hassen rastrellarono il boschetto
presso il convento francescano di San Giuliano, catturando nove giovani, operai e studenti,
che stavano per raggiungere i partigiani a Bosco Martese, nel versante teramano, guidati
dal Colonnello aquilano Gaetano d’Inzillo.
E’ a Bosco Martese che ebbe luogo, qualche giorno dopo, la prima battaglia
partigiana d’Italia contro le forze occupanti. Una soffiata fece naufragare il sogno.
Catturati dai nazisti, i ragazzi furono obbligati a scavare due fosse comuni dove furono
gettati dopo l’esecuzione. Tra i nove, anche il figlio del Colonnello D’Inzillo, studente e
poeta. Inutili risultarono le mediazioni e le pressioni dell’Arcivescovo Carlo
Confalonieri che ottenne solo di poter benedire le fosse. Era il 23 settembre del 1943. Il
14 giugno successivo, a liberazione avvenuta della Città, le salme furono recuperate e
composte per i funerali che si tennero quattro giorni dopo. Una Piazzetta adiacente il
Corso, con una lapide che accoglie ogni anno l’omaggio di una corona della Municipalità,
ricorda i Nove giovani e il loro sogno infranto. Alcune panchine vedono oggi altri giovani,
spesso coppie di ragazzi, che continuano a sognare anche per chi non c’è più.
Hans non tornò in Germania, o vi tornò per fuggirsene via in cerca di riscatto. Seppure
non era stato tra gli assassini, avvertiva l’orrore di averne fatto parte. Non accettava di
essere un sopravvissuto, sia pure incolpevole data la giovane età, di una guerra diabolica e
sanguinosa scatenata dall’insipienza umana sposata a una folle sete di dominio. Riapparve
un giorno per le nostre strade, pellegrino verso i santuari dell’orrore, un cane pastore
tedesco al guinzaglio, lo sguardo perso nel vuoto e l’angoscia dentro di sé. Stazionò

dapprima alla piazzetta della memoria e furono giorni di pianto catartico. Seduto a una
panchina inseguiva la sua rinascita e cercava di trovarne la via. Nessuno seppe mai in quale
buco racimolasse il suo sonno.
La prima scelta fu il silenzio, il solo che gli permettesse di non contaminare con il suo
passato chi gli stava d’attorno e questa città che era sobbalzata in lutto sotto le urla dei
bombardamenti e alle raffiche di fucile. La seconda scelta fu meno lancinante, e fu quella
della povertà. Lui che era stato figlio di un delirio di onnipotenza ed in quel delirio era
stato allevato, altra strada non avrebbe avuto, sulla via del riscatto, che quella della
povertà. Diventato povero, sentì staccarsi poco a poco dalla pelle, sempre meno chiara, la
divisa impeccabile della follia, per rivestirsi di quella lacera di una umanità riconquistata.
Era un aprile piovoso, quello che lo vide, ancora una volta, un giorno, all’angolo di Viale
Gran Sasso, eletto a luogo dell’anima, stendere la mano nella richiesta umile della carità.
Il cane gli stava accanto immobile, compagno discreto e gratuito della nuova vita. Alcuni,
come sempre, gli camminavano davanti lasciando cadere la monetina nel barattolo di latta;
altri, i più, gli gettavano uno sguardo distratto e passavano oltre. Avviene sempre così con i
poveri, dei quali temiamo più il silenzio che la parola anche lieve, per non sentirne il
rimprovero. Hans non rimproverava nessuno, chiedeva solo perdono. Quanti anni erano
passati, nemmeno lui lo sapeva. I capelli erano diventati radi e bianchi. Erano apparse le
rughe e si infittirono sulla fronte, profonde come solchi d’aratro.
Si diradarono le birre che davano la stura alle mezze e confuse confessioni su un passato
inconfessabile. L’ultima volta che lo videro, avanti negli anni e più ischeletrito che mai, fu
nel solito bar, una sera, davanti a un bicchiere di birra che a fatica provava a svuotare. La
parola gli usciva lenta, ma non per ubriachezza. E gli occhi, gli occhi che aveva tenuto
sempre bassi in atteggiamento di umiltà, questa volta erano inspiegabilmente luminosi,
ridenti, come solo possono esserlo quelli di chi ha, finalmente, la coscienza rappacificata.
Lui non lo sapeva, ma era il suo 25 aprile. Era il riscatto della povertà.

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