di Mario Setta *
SULMONA – Ai piedi del monte Morrone, contrafforte della Maiella che domina la Valle Peligna, nello spazio di pochi chilometri di perimetro si conserva la memoria d’un tempo più che bimillenario: dall’era pre-cristiana del santuario di Ercole Curino, al medioevo dell’eremo di Pietro da Morrone-Celestino V e dell’Abbazia di Santo Spirito, fino alle due guerre mondiali con il Campo di concentramento di Fonte d’Amore. Un territorio che unisce spiritualità religiosa e solidarietà umana. “Epopea”, “Resistenza Umanitaria” è stata definita dagli storici la solidarietà dimostrata dalla gente peligna ai prigionieri di guerra, che ricordano “the Sulmona’s spirit, lo spirito di Sulmona” (cfr. “E si divisero il pane che non c’era” (a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona).
Il Campo di Concentramento di Fonte d’Amore – di recente passato dall’Esercito italiano al Comune di Sulmona ed diventato più facilmente visitabile – fu costruito per i prigionieri della prima guerra mondiale (1915-1918). Vi furono sistemati i prigionieri di nazionalità austro-ungarica, adibiti ad operazioni di rimboschimento, lavori agricoli e artigianali. L’epidemia “spagnola” provocò la morte di oltre 400 persone, sepolte in seguito al sacrario di guerra austro-ungarico nel cimitero comunale di Sulmona. Durante la seconda guerra mondiale (1940-1945) al Campo fu assegnato il numero 78 e divenne luogo di detenzione dei prigionieri alleati anglo-americani, catturati prevalentemente nella campagna d’Africa. Secondo una mappa del settembre 1943, pubblicata da “The Red Cross and St. John War Organization”, i prigionieri di guerra (POW, Prisoner Of War) detenuti nei campi di concentramento italiani erano più di centomila. Lo storico inglese Roger Absalom, il maggiore esperto sui prigionieri di guerra alleati in Italia, parla di circa 80.000 prigionieri alleati in Italia. Al Campo 78 ve n’erano oltre tremila. Qui di seguito le testimonianze lasciate da alcuni progionieri.
- La descrizione del Campo di JOHN ESMOND FOX, nel 1942.
«Come arrivammo intravidi il campo che stava ai piedi della montagna, in aspro contrasto con la ricca campagna della valle. Non avevo mai visto un campo, in precedenza, e avevo trovato difficile anche immaginarlo… La facciata del campo era quella tipica di ogni caserma, con posti di guardia e uffici. […] Ora eravamo veramente chiusi da alte mura e da alte montagne, controllati da guardie armate sulle torri di controllo. Avvertivamo una sensazione di ineluttabilità e la maggior parte di noi sembrava rassegnata al fatto di dover restare lì per tutta la durata della guerra. Il luogo appariva uggioso, senza colore, senza il canto degli uccelli e il cinguettio monotono dei passeri; mi chiedevo quanto si potesse durare con una esistenza così opprimente. della baracca era un labirinto di letti a due piani, alti circa due metri, disposti così vicini che andare da una parte all’altra richiedeva una grande destrezza… […] E’ strano rilevare come uomini di varia estrazione sociale, diversi per lingua e costumi, credo e razza, imprigionati insieme per qualche crudele capriccio del fato, dominati con la forza, privati e spogliati della propria individualità e ridotti al solo comune denominatore di esseri umani, siano capaci di gettar via l’orgoglio e il pregiudizio per un legame di amicizia, trovando uno scopo di vita e lottando contro un comune nemico. Penso che questo sia uno degli aspetti della vita che può essere soltanto sperimentato, sfortunatamente, in circostanze infelici come queste. Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita di tutti i giorni. Il mondo allora davvero sarebbe ad un passo dall’estrema utopia dei nostri sogni più cari».
(J. E. Fox, Spaghetti and Barbed Wire tradotto in italiano con il titolo “Spaghetti e filo spinato”, a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, ed Qualevita, Torre dei Nolfi, 2002). John Esmond Fox riuscirà a fuggire dal campo, rifugiandosi presso la famiglia Silvestri, nella frazione di Cantone e da qui, nel gennaio 1944, oltrepassando il Guado di Coccia, innevato, raggiungerà Casoli, dove si trovavano gli Alleati.
- Per altri prigionieri, la scena appare meno lugubre. Anzi, l’ambiente e il clima culturale della classicità latina servono ad alleviare le sofferenze della prigionia. In quest’ottica, infatti, DONALD I. JONES sembra quasi aggrapparsi ad Ovidio per farne un modello ed un maestro di vita:
«Ovidio scrisse nelle “Metamorfosi”: “Tempus edax rerum”, il tempo tutto divora; egli nacque a Sulmona nel 43 a.C., eppure le sue parole risuonavano vere nel 1943 nel campo dei prigionieri di guerra di Sulmona… Il campo di prigionia, o per dare la sua denominazione precisa, Campo dei prigionieri di guerra n.78, era situato a circa 5 miglia da Sulmona, in un piccolo villaggio chiamato Fonte d’Amore. Che nome per un campo di prigionia! […] Lo stesso campo era di forma rettangolare, circondato da un alto muro di pietra e, come se questo non fosse stato sufficiente, le autorità italiane avevano cementato cocci di vetro rotto in cima al muro e avevano aggiunto due alti recinti di filo spinato lungo il perimetro… Il campo era diviso in cinque reparti: uno per gli ufficiali, uno per i sergenti… gli altri tre per gli altri ranghi… Grazie al regolare invio dei pacchi della Croce Rossa, che si aggiungevano alle insufficienti razioni italiane, sopravvivemmo nel periodo tra l’ottobre del 1942 e il settembre 1943 a Sulmona ed eravamo in buona salute».
(D. Jones, Escape from Sulmona, tradotto in italiano con il titolo “Fuga da Sulmona” a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, ed. Qualevita, Torre dei Nolfi 2002). Donald I. Jones fugge dal campo e dopo vari mesi di peregrinazioni in Abruzzo, alle falde del Gran Sasso, nei paesi della Valle del Tirino, riuscirà a tornare nell’esercito alleato.
- JOHN FURMAN, trasferito a Sulmona dal Campo n. 21 di Chieti, scrive:
«Partii con un convoglio il pomeriggio del 23 settembre; e circa due ore dopo arrivai in un campo, cinque miglia a nord di Sulmona. Lì ci ritrovammo con gli amici partiti coi convogli precedenti, e ci affrettammo a farci descrivere tutti i particolari delle fortificazioni del campo, che erano riusciti a osservare. Un certo numero di ufficiali – compreso all’incirca fra dieci e cinquanta – aveva messo in atto un piano di fuga la notte precedente. Alcuni erano stati catturati mentre tentavano di evadere. Di conseguenza, i tedeschi avevano passato la giornata a rafforzare difese e fortificazioni. E avevano aumentato le sentinelle, piazzate le mitragliatrici, messi a fuoco i riflettori. […] Dopo un’ispezione generale, ci rendemmo conto che andarcene stava diventando un affare tutt’altro che semplice. Tutto quanto il territorio entro il quale eravamo tenuti prigionieri era circondato da un doppio recinto di filo spinato. Le sentinelle vi facevano la guardia, armate di torce e di altri mezzi anche più offensivi. Al di là del recinto esterno, erano piazzate le mitragliatrici con un buon campo di tiro» (John Furman, Be not fearful, in italiano “Non aver paura”, Garzanti, Milano 1962).
John Furman fugge dal Campo 78, andando a nascondersi per alcuni mesi al Borgo Pacentrano, a Sulmona. In seguito, con altri compagni, guidati da Iride Imperoli Colaprete, raggiungerà Roma, sarà catturato e riuscirà di nuovo a fuggire, assistendo alla liberazione di Roma il 4 giugno 1944.
- WILLIAM SIMPSON non metterà piede nel campo di Fonte d’Amore, perché poco prima di arrivare, salta dal camion e si dà alla fuga. Racconta: «Quando svoltammo dalla strada principale… afferrai una barra sopra la testa, saltai sul sedile, poggiai il piede sinistro sulla coscia del londinese e mi accucciai. Da quel lato c’era una siepe alta. Il cuore mi batteva. Le marce grattavano. Il camion incominciò ad accelerare. Gelai. Era un suicidio. Il londinese, sforzandosi di tenere ferma la sua coscia, mi vide barcollare. “Vai, salta!” urlò. Mi lanciai fuori, oltre la siepe. Il pensiero del mitra della guardia attutì il mio impatto con il suolo. Rotolando, mi ricordai delle guardie sulle motociclette. C’era un fossato poco profondo oltre la siepe. Vi scivolai dentro, con la faccia a terra. I sidecar stridettero, abbordando la curva e rimbombarono mentre mi passavano accanto a distanza di pochi piedi. Il rumore svanì. Piegai un braccio, una gamba; si muovevano. Alzandomi, tolsi la terra e la paglia dalla mia uniforme inglese e dai pantaloncini color kaki, più adatti per il deserto. In quel piccolo campo il fieno era stato appena tagliato».
(William Simpson, A Vatican Lifeline ’44, tradotto in italiano col titolo “La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano”, a cura del Liceo Scientifico Statale Fermi di Sulmona, presentazione di Roger Absalom, ed. Qualevita Torre dei Nolfi, 2004).
William Simpson incontrerà Mario Scocco e Roberto Cicerone che lo aiuteranno a nascondersi al Borgo Pacentrano. Si recherà a Roma, dove sarà ricatturato e incarcerato a Regina Coeli. Le sue peripezie sono narrate nel libro appena citato. Nel dopoguerra Simpson diventa responsabile della “Allied Screening Commission”, la commissione creata per ricompensare gli italiani che avevano aiutato i prigionieri. Il giorno 18 maggio 1946, nell’aula comunale di Sulmona, Simpson afferma: «Sulmona è stato uno dei pochi centri italiani che si siano veramente distinti in questa opera di solidarietà e di carità cristiana: questa simpatica cittadina, che mi ha ospitato gentilmente sia da prigioniero che da uomo libero, la considero come la mia seconda patria. Sulmona ha salvato dagli artigli germanici ben settemila prigionieri alleati. Difficilmente potremo dimenticarlo».
- SAM DERRY, “Linea di fuga 1943-1944, Sulmona-Roma-Città del Vaticano”, Qualevita, Torre dei Nolfi 2011, traduzione italiana a cura degli studenti del Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II di Roma, titolo originale The Rome Escape Line.
L’autore, Sam Derry, dopo il suo audace salto dal treno che lo sta conducendo da Sulmona a Roma e da qui in Germania, si nasconde in un pagliaio nelle vicinanze di Roma, a Salone. In seguito, nascosto su un carretto, sotto un cumulo di cavoli, raggiunge Roma e incontra Mons. O’Flaherty, che lo ospita prima al Collegio Teutonico e poi nella Città del Vaticano. Qui, con la collaborazione di Furman e Simpson, organizza la più grande operazione di salvezza di prigionieri fuggiaschi, ebrei, perseguitati politici. Le vicende narrate nel libro si svolgono proprio fra Roma e Sulmona: la fuga verso Roma parte dal campo di prigionia di Sulmona dopo l’8 settembre 1943 e segna l’inizio della sua azione nella capitale, insieme a Mons. O’Flaherty, la cosiddetta “primula rossa del Vaticano”, realizzando la “British Organization”, il cui scopo era offrire una rete di protezione ai numerosi ex prigionieri del Commonwealth in attesa dell’arrivo degli alleati.
- JACK GOODY, “Oltre i muri. La mia prigionia in Italia”, Il mondo 3 edizioni, Roma 1997.
«Il convoglio si era fermato nel campo di calcio che era stato scavato sul versante della collina; il gruppo che era arrivato da Chieti nei giorni precedenti era assembrato in un angolo guardato a vista dalle sentinelle. I nuovi arrivati a Sulmona scaricarono i bagagli, si trascinarono lungo il pendio e si raggrupparono in ordine sparso mentre i tedeschi cercavano di contarli. Una guardia urlò a squarciagola puntando il mitra per tenere separati i gruppi. Quando la confusione cominciò a placarsi, alcuni del vecchio contingente si avvicinarono e diedero il benvenuto ai nuovi arrivati di là dallo spazio di transito. “Che posto schifoso”. “E di male in peggio: in Germania” […] L’area degli alloggi sembrava un alveare diviso in tante sezioni da muri che ora erano crollati in più punti. Il settore più in alto era ciò che era rimasto di quello che doveva essere il reparto ufficiali; questi alloggi sembravano comunque molto più comodi di quelli di Chieti, avevano piccole camere, letti singoli e mobili resistenti. […] Cibo o non cibo, l’idea della fuga era presente alla mente di molti e stava prendendo la forma di una vera e propria mania».
Jack Goody, antropologo di fama mondiale, docente a Cambridge, fuggiasco sulle montagne della Valle del Sagittario, dopo essere saltato dal treno che lo portava in Germania. In una conferenza all’università di Teramo ha detto: «Non ho passato molto tempo in Abruzzo, ma il tempo che vi ho passato è stato molto intenso e mi ha segnato per sempre». Nel maggio 1998 è tornato in Abruzzo, a visitare il Campo di concentramento n. 78 di Fonte d’Amore, a Sulmona. Da uomo libero, dopo più di mezzo secolo, Goody si è avvicinato alla baracca che l’aveva visto prigioniero ed è rimasto solo, pensoso, profondamente emozionato.
- UYS KRIGE è uno dei più grandi scrittori sudafricani, autore di poesie, racconti, opere teatrali. Amico di Ignazio Silone, che parla di lui nella prefazione al dramma “L’avventura di un povero cristiano”, scrive un’opera dal titolo “The way out”, tradotta in italiano con il titolo “Libertà sulla Maiella” (ed. Vallecchi, Firenze 1965), nella quale narra dettagliatamente la sua prigionia al Campo ’78 e la sua fuga, accolto dai contadini di Villa Giovina a Bagnaturo, dai pastori alla “casa delle vacche”, e in seguito a Campo di Giove, a Palena, a Gamberale fino al Molise, dove si ricongiungerà con gli alleati. Nel Campo di prigionia di Fonte d’Amore, il 15 gennaio 1942, Krige scrive questa poesia dal titolo “Midwinter”, “Pieno inverno”.
Svanite le montagne, svanito il Gran Sasso,
ogni dirupo, desolato, scosceso, roccioso e scuro,
inghiottito dalla nebbia;
e scomparse anche le collinette da poco formate,
appena accumulate e già imperlate
di ghiaccio, qui, nell’angolo del cortile,
non più grande del mio pugno. […]
Siamo giunti alla fine di tutti i nostri giorni,
di tutte le nostre notti; in queste
quattro pareti di un cupo rosso marrone di giorno, di un nero
come la pece di notte,
non c’è possibilità alcuna di andare avanti né indietro.
Questa è la nostra vita, la nostra morte-in-vita;
questa tristezza, questo pallore spettrale
su ogni branda a mezzogiorno, questo freddo
al culmine del giorno gelido come il ghiaccio
ma che brucia, che brucia
proprio come l’abbraccio della guerra, l’amaro bacio della battaglia
che divampa.
[…]
- JOHN VERNEY, “Un pranzo di erbe”, a cura dell’Associazione culturale “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail”, Qualevita, Torre dei Nolfi 2014. John Verney non ha scritto un libro. Ha scritto una lettera d’amore per i contadini che li avevano sfamati, aiutati, amati. Non ha confessato solo i suoi sentimenti, ma ha dimostrato che amare significa conoscere la storia, rivivere l’ambiente, condividere fatiche e speranze. «Quasi tutto quello che è stato importante per la mia vita lo devo alla guerra. Stavo per aggiungere: all’Abruzzo» (Almost everything in my life that has really mattered goes back somehow to the war. I was about to ad: Goes back to the Abruzzi). Ha espresso profonda gratitudine per aver imparato, in quei mesi di fame e di rischi, tra grotte di montagna e nascondigli nelle case, che vivere e aiutare gli altri a vivere è l’unico scopo che valga la pena di raggiungere. Una testimonianza straordinaria, quella di Verney. Forse la più coinvolgente e la più bella delle opere scritte dagli ex-prigionieri di guerra in Abruzzo. Artistica nella forma e profonda di contenuto. Solo un innamorato poteva esprimere parole indimenticabili. Verney era ed è rimasto un artista, anche dopo la tragedia della guerra. Quando, più volte, è tornato in Abruzzo, vi è tornato con la voglia di conservare e ravvivare quello spirito di innocenza o, come la chiama, “nostalgie de la boue” (nostalgia della genuinità), che l’affascinava. «Sono venuto per riprendermi qualcosa. L’interesse per la vita, si potrebbe dire, o il gusto per le cose essenziali, come il pane. Succede, spesso, che da giovane leggi un libro che ti colpisce e influenza la vita. Poi nella mezza età cerchi di rileggerlo… Sono venuto qui per rivivere un’esperienza, ricordare l’importanza della gentilezza disinteressata, apprendere di nuovo una lezione che ho imparato in Italia durante la guerra…».
- STANN SKINNER
Stan Skinner nasce a Londra nel 1920, da famiglia medio borghese. Studia, con discreti risultati, alla “Grammar School”di Wallington, una delle migliori della Gran Bretagna. Ma la sua passione dominante è lo sport – soprattutto il cricket e il calcio – nel quale promette una brillante carriera. A soli 17 anni, assunto da una banca, lascia la scuola. La sua sarebbe stata una tranquilla vita dedita più allo sport che al lavoro, infatti le banche inglesi di prestigio, come la sua, avevano una loro squadra che attraverso i successi sportivi pubblicizzava la banca stessa. Ma a vent’anni, la guerra irrompe nella sua vita, come in quella di milioni di suoi coetanei, sconvolge ogni progetto, e gli fa conoscere infinite sofferenze. Dalla guerra guerreggiata al campo di concentramento di Sulmona, al terrificante bombardamento alla stazione di L’Aquila, dove viene gravemente ferito, ad una lunga degenza ospedaliera e ai suoi terribili postumi.
Il libro Sulmona and after (“Sulmona e dopo”) di Stan Skinner è la narrazione di una serie interminabile di terribili avventure dopo l’8 settembre e la fuga dal campo 78 di Sulmona. Una vera odissea. Il libro sembra un racconto di avventure mentre è storia vissuta, di stragi, di sofferenze, di infermità dovute ai bombardamenti e, finalmente, di liberazione e di ritorno alla vita e al lavoro. Skinner non ha dimenticato Sulmona, questa gente allora generosa. È tornato per i 40 anni dalla fine della guerra e tante volte ancora, con Joe Drew, l’organizzatore dei nostalgici raduni. Lui stesso fu l’organizzatore di uno di essi. Scrive: «Abbiamo fatto amicizia e mantenuto questa amicizia con le autorità locali e con coloro che hanno aiutato i prigionieri. Essi sono venuti a Londra e noi siamo ritornati a Sulmona quattro volte». Ricorda, per la splendida accoglienza, il sindaco, l’esercito e il capo della polizia municipale Gianni Febbo. Una lapide, nel cortile del Comune, ricorda questo rapporto di autentica amicizia fra italiani e inglesi. È “lo spirito di Sulmona”, come è stato definito dagli stessi inglesi.
- JOHN LEEMING, “Always To-morrow”, in italiano “Sempre Domani”, storia di un ufficiale inglese, prigioniero di guerra in Italia, trad. di Franca Del Monaco, ed. Qualevita, 2018.
Un libro che racconta la vita di un uomo è sempre un libro di storia. Una storia umana. Il libro di John Leeming, dal titolo inglese “Always To-morrow”, in italiano “Sempre Domani”, racconta i suoi tre anni di prigionia in Italia, nel periodo della seconda guerra mondiale. Un libro, resoconto particolareggiato di episodi e riflessioni, di progetti e delusioni. L’autore descrive la sua esperienza con vivace umorismo e quasi totale assenza di pessimismo. Sono vicende originali di vita realmente vissuta. L’ottimismo ed il fascino dell’avventura riescono a sdrammatizzare situazioni obiettivamente tragiche, persino divertendo il lettore.
Leeming, ufficiale dell’Air Force britannica, si trova su un aereo, decollato da Londra diretto a Malta per trasferirvi una ingente quantità di sterline, colpito dalla contraerea tedesca e precipitato in Sicilia nei pressi di Catania. L’aereo si schianta, ma l’equipaggio resta incolume. Da quel momento, i militari inglesi sono prigionieri degli italiani: «Tutto questo accadeva il 20 novembre 1940, cinque mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia», annota Leeming. Gli inglesi, ormai prigionieri degli italiani, vengono condotti a Catania, al quartiere generale, accolti dal generale Lodi. «Io chiesi ad un ufficiale italiano che avrei avuto bisogno di un medico perché mi guardasse il braccio. Assicurandomi che il dottore sarebbe venuto presto, l’ufficiale mi insegnò la prima parola in italiano. Una parola che avrei sentito spesso nei futuri due anni e mezzo. “Domani. Domani” è qualcosa di particolarmente italiano. Una parola molto usata, pronunciata in quasi tutte le conversazioni». Da Catania vengono trasferiti a Roma. All’aerodromo di Centocelle.
Da Roma a Sulmona, a Villa Orsini, il campo di prigionia per ufficiali e generali inglesi. A Sulmona ricevono ottima accoglienza e si troveranno in buona compagnia, assistiti con la massima cura, con rispetto e con reale disponibilità a soddisfare le loro istanze.
Da Sulmona vengono trasferiti a Vincigliata, in provincia di Firenze. La vita a Vincigliata diventa dura e controllata, opprimente per un prigioniero. I loro progetti di fuga a volte falliscono, altre riescono, anche se poi verranno ricatturati. Leeming riuscirà a farsi riconoscere “malato mentale” e tornerà in patria nonostante gli inciampi dovuti a macchinosi impedimenti burocratici e alle sofferenze patite per essersi ridotto in condizioni fisiche gravissime.
*Storico, Associazione Culturale “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail”
Bibliografia: Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta (a cura di), “Terra di Libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”, edizioni Tracce-Fondazione Pescarabruzzo 2014.