Cultura & Società, In rilievo

LIA GIANCRISTOFARO –  ANTROPOLOGA LANCIANESE. OLTRE LE TRADIZIONI PER UN ABRUZZO DEL FUTURO, CON UN PICCOLO SGUARDO ANCHE SU MONTORIO AL VOMANO

 

Lia Giancristofaro, classe 1970, dopo anni di studio in Italia, in Canada e alla Sorbona di Parigi, e dopo aver realizzato progetti di ricerca in Brasile, Argentina, Australia, Europa e Stati Uniti, nel 2007 è diventata professore di Antropologia Culturale all’Università di Chieti-Pescara. Dirige la Rivista Abruzzese, rassegna trimestrale di cultura (fondata nel 1948 da Francesco Verlengia), discendente dalla teramana Rivista Abruzzese di Scienze Lettere e Arti (RASLA) che ebbe vita dal 1886 fino al 1919 ed era stata diretta, per molto tempo, anche dal sacerdote, storico e bibliografo don Giacinto Pannella, prozio del noto Marco Pannella.

Noi la conosciamo bene perché suo padre, Emiliano Giancristofaro, che è uno dei più importanti studiosi del folklore abruzzese, tra il 1964 e il 2000 si è interessato molto alle tradizioni montoriesi, come la Processione del Carnevale morto e Lu Stù (antichissimo gioco con carte speciali, sopravvissuto a Campli e, con regole diverse, a Montorio al Vomano). Ed anche perché pure lei, amica di chi scrive, si è appassionata alle nostre tradizioni (per esempio, ha catalogato la sopracitata Processione del Carnevale morto come Bene DemoEtnoAntropologico), e poi – la brava e bella Lia Giancristofaro – è anche un volto noto del piccolo schermo, avendo partecipato a trasmissioni televisive andate in onda su  Rai Uno, quali “A Sua immagine”, “Alle falde del Kilimangiaro”, “Geo” e “Unomattina”; su Tgr Abruzzo, dove ogni mattina curava uno spazio tutto suo, “Cultura e Società”, con un proverbio abruzzese; inoltre è apparsa anche su Rai International, Rai World e su altri canali tivvù.

Quest’intervista sui temi della tradizione è stata una conversazione amichevole, ma densa di contenuti relativi all’antropologia, e ci illumina su una visione aperta delle tradizioni, e non chiusa, non nostalgica, riferita al presente e al futuro, non solo al passato e alla conservazione. Si è occupata di emigrazione, a cui ha dedicato molti libri, e da questo vorrei partire per questa chiacchierata, dato il numero altissimo di espatriati dal Teramano e da Montorio (a Toronto, in Canada, dal 1987 c’è la “Comunità Montoriese al Vomano Club”, della quale, l’antropologa lancianese che ora vive a Chieti, è stata più volte ospite e ha realizzato parecchie interviste ai montoriesi-torontoniani).

A cosa si deve il tuo interesse per l’emigrazione dall’Abruzzo?

«Si deve al fatto che siamo tutti discendenti di emigranti, e che l’emigrazione dei nostri antenati ci ha regalato una bella quota del nostro benessere attuale. Non è una coincidenza che tutti i miei bisnonni maschi, ai primi del Novecento, siano andati negli Stati Uniti. Erano contadini analfabeti, eppure sono riusciti a trovare lavoro, a imparare l’inglese e a riportare in paese dei risparmi e la vita stessa. Sono stati fortunati. Alcuni, con quei risparmi, hanno fatto studiare i figli, cosa all’epoca costosissima. Un mio bisnonno, non avendo figli maschi, ha mandato all’università una femmina, facendole persino prendere la patente, come aveva visto fare in America. All’epoca, fu la prima donna del paese a guidare la macchina, ma altre compaesane si fecero coraggio e la seguirono in questa emancipazione, che consentiva peraltro di andare a lavorare come maestra o come ostetrica nei paesi vicini. L’emigrazione ha significato un grande arricchimento anche mentale».

Come nasce il fenomeno dell’emigrazione in Abruzzo?

«Nella nostra regione, l’emigrazione ha una storia antica, legata alla geografia, alla cultura e alla mentalità dei montanari. In Abruzzo era la montagna il volano dell’economia, e i montanari, ovvero la maggior parte della popolazione, scendevano ogni inverno verso il piano, per pascolare le pecore in zone verdeggianti e meno fredde, oppure per impiegarsi in lavori faticosissimi e pericolosi, come la mietitura o la bonifica delle paludi. Questo spostamento, nei secoli, si è caricato di altri significati, ed è divenuto per giovani un rito di passaggio all’età adulta. Alla fine dell’Ottocento, la crisi della Transumanza e l’impoverimento dei contadini scatenarono la grande emigrazione, e l’Abruzzo raggiunse il primato nazionale degli espatri. Alla forsennata ricerca di un lavoro all’estero, erano gli uomini forti: giovanotti, adolescenti, padri di famiglia. Andavano nelle Americhe come se stessero andando nelle Puglie o nel Lazio, pensando di tornare in pochi mesi. Invece, ci rimanevano vent’anni, per raggranellare i soldi sufficienti per comprarsi la terra o una casa. Alcuni di questi miricani si perdevano, altri venivano raggiunti da moglie e figli, i più tornarono in paese con una discreta fortuna. All’indomani della Prima Guerra Mondiale, il fenomeno diminuì, per riprendere nel Secondo Dopoguerra sotto forma di spostamento definitivo, con moglie e figli. L’emigrazione abruzzese finì negli anni Settanta, col “miracolo economico abruzzese”, ma è ripresa negli ultimi anni come “fuga dei cervelli”, cioè come perdita di giovani competenti in lavori particolarmente specialistici che purtroppo non riescono a svolgere dalle nostre parti».

Quali sono le caratteristiche peculiari che hanno distinto l’Abruzzo da altre regioni?

«Gli abruzzesi ebbero una disponibilità singolare a rischiare, a spingersi verso e oltre i limiti. Erano abituati ai pesanti lavori di bonifica delle paludi maremmane e laziali, alla mietitura sotto il sole di Puglia, alla vita ingrata del pastore, e finirono nelle fazendas del Sudamerica, nelle miniere del Belgio (si pensi al disastro di Marcinelle), in luoghi lontanissimi e difficili come il Canada e l’Australia, il Venezuela. Un’avventura esistenziale fatta di sacrificio, di sfida nei confronti dell’ignoto, di orgoglio lavorativo. Non per niente, dicono che siamo “i polentoni del Sud”».

Tu sei mamma di due splendide ragazze. Come hai conciliato il ruolo di madre con un lavoro di responsabilità?

«È stata un’esperienza pesante, come per tutte le donne che lavorano. Per anni e anni non ho avuto neanche un momento per me, e ho lavorato al computer fino alle tre del mattino, per non far mancare la mia presenza alle figlie durante il giorno. Sacrifici e rinunce che non sono nulla di nuovo per le donne che lavorano. Si tratta di una condizione piuttosto svantaggiosa, in Italia, ma personalmente non mi pento di aver accettato questa sfida. Spero solo che per le giovani mamme di oggi questa avventura possa diventare un po’ meno faticosa. È necessario prevedere politiche di supporto e spingere gli uomini a condividere le responsabilità della cura dei propri cari, che non può pesare solo sulle spalle della donna. Da questo punto di vista, la mentalità dovrebbe proprio evolversi. Ma vedo che le nuove generazioni sono abbastanza aperte, e che tanti ragazzi non si tirano indietro di fronte alle incombenze dei figli piccoli».

Nei tuoi libri dici che oggi non bisognerebbe parlare tanto di tradizioni, ma di “patrimonio culturale”. Perché?

«Nelle tradizioni, rientrano anche comportamenti gerarchici e violenti, come la disuguaglianza, il pregiudizio, il razzismo, l’esclusione sociale. In questo, ci aiuta l’antropologia culturale, che analizza le tradizioni in modo critico. È importante andare oltre la manifestazione superficiale ed emozionale delle tradizioni, come può essere, in questo caso, quella presentata dai mass media e dai social, che appunto dicono che tutto è bello, e si concentrano sulle emozioni collettive e sugli slogan, appiattendo il significato e la profondità delle implicazioni. Lo studio antropologico invece va alle radici dei fenomeni, attraverso una prospettiva ampia. E il patrimonio culturale è proprio uno di quegli “oggetti” che necessitano il superamento dei confini e delle delimitazioni tra le professioni (architetto, economista, amministratore, antropologo, etc.) e tra i settori dell’attività umana e sociale (edifici, territori, riti, feste, giochi, ambiente, artigianato, salute, alimentazione, educazione dei giovani). Possiamo dire dunque che le tradizioni che sono state discusse e analizzate dalla loro comunità, le tradizioni che possiamo, in modo ampio, considerare buone per l’ambiente e per la giustizia sociale, ecco, solo queste sono un “patrimonio culturale”. Invece, non possiamo dire lo stesso di quelle tradizioni che creano sofferenza inutile, conflitto sociale, danno ambientale. Fenomeni come un festival dell’artigianato, un torneo di un gioco particolare come Lu Stù o un cammino in ricordo delle vittime civili di una guerra, da questo punto di vista meritano attenzione anche se, magari, si tengono da pochi anni. Insomma, non è l’antichità che crea un patrimonio culturale, ma la validità dei suoi significati e il desiderio di trasmetterli alle nuove generazioni».

Per questo, tu ti occupi anche di “programmi politici” per il patrimonio culturale immateriale. In cosa consistono questi programmi?

«Come dicevamo, sbaglia chi pensa che il patrimonio sia una torsione verso il passato. Esso è, al contrario, una proiezione verso il futuro. Un “patrimonio” va oltre la mera pratica della tradizione, perché implica una riflessione, una responsabilizzazione, una tensione verso i giovani. Perciò le organizzazioni internazionali, e in particolare l’UNESCO, hanno sollecitato da parte degli Stati forme di legislazione che cercano di far dialogare i popoli, evitare le guerre, rispettare i patrimoni naturali e culturali. Tra i vari programmi internazionali per la salvaguardia del patrimonio culturale, c’è uno strumento particolarmente innovativo: la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003, ratificata da moltissimi Stati, tra cui l’Italia. Questo grande patto internazionale, voluto dagli studiosi di tutto il mondo, si avvale soprattutto di uno strumento simile ad un “inventario”. Parlo delle “Liste internazionali del patrimonio immateriale”, che raccolgono ad esempio elementi come la Dieta Mediterranea, iscritta nel 2013; la Coltura della vite ad alberello di Pantelleria, iscritta nel 2014; l’Arte dei muretti a secco, iscritta nel 2018; e anche la Perdonanza Aquilana e la Transumanza, iscritte nel 2020. Non si tratta di un premio, di un bollino che viene regalato alle città e alle comunità senza impegnarsi: ogni comunità (anche molto ampia) riferita a ognuno di questi elementi ha dovuto realizzare un progetto sostenibile, e ha dovuto fare ciò aprendosi al confronto e ad una dimensione di rete. La Convenzione del 2003 stimola nelle comunità questo nuovo approccio aperto, proprio il contrario della nostalgia chiusa, provinciale, spenta e polverosa che a volte troviamo nel concetto di “tradizione”».

Cara Lia, nel ringraziarti per la tua disponibilità e tornando alla mia Montorio, vorrei farti un’ultima domanda: hai mai sentito parlare de “La corsa pazza nuda” (frase italianizzata dal dialetto montoriese)? Potrebbe essere paragonata a la “Corsa degli Zingari” di Pacentro?

«Sì, ne ho sentito parlare. Anticamente, si disputava sulla sommità del Colle di Montorio, in contrada San Giovanni; la corsa partiva dai ruderi del mai ultimato Forte San Carlo e arrivava davanti l’omonima chiesetta. Chi vinceva veniva premiato col ricavato di una colletta generale. I partecipanti erano ragazzi, dagli 8 ai 12 anni, che correvano scalzi e completamente nudi in mezzo a due ali di folla che si chiudevano, di colpo, dopo il passaggio del vincitore, creando così confusione tra gli spettatori e gli altri concorrenti. Il tutto si svolgeva il 24 giugno, giorno in cui si festeggia la Natività di San Giovanni Battista. Non so se ci siano analogie con la “Corsa degli zingari”, bisognerebbe fare ulteriori ricerche. In quella di Pacentro c’è un dualismo, cioè l’aspetto religioso e quello laico/pagano, forse anche nella corsa montoriese, abolita negli anni 50 del Novecento, c’è la stessa dualità, dato che si disputava in quest’importantissima data liturgica. Su questo rituale sicuramente lavorerò con i miei studenti.

 

Pubblicato già su La Città, quotidiano d’Abruzzo, del 29 maggio 2021

 

pietro.serrani@tin.it

 

 

 

 

 

 

 

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