Sarà presentato a Budapest, giovedì 3 ottobre, all’Istituto Italiano di Cultura, il libro di Enrico Di Carlo “Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria” (Ed. Verdone).
L’autore, nato a Chieti, nel 1960, in questo libro (che esce dopo tre anni dalle prime due fortunate edizioni di Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese) approfondisce il rapporto dello scrittore con il vino e con l’alcol. Argomento particolarmente interessante, soprattutto in considerazione del fatto che d’Annunzio era astemio, come confermano i suoi più accreditati biografi.
Egli era convinto che il vino potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a sostenere «che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone». E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Barth, al momento della pubblicazione del libro guida alle osterie d’Italia.
Per quanto riguarda l’interesse per il cibo, d’Annunzio non era né un mangiatorené un ghiottone né un buongustaio. Per lui non c’era che l’essenzialità, per così dire, storica della cucina abruzzese; in altri termini, per lui tutta la cucina nostrana consisteva e compendiava nel sapore in generale, quel sapore fatto di calore umano, di ricordi di tempi lontani, di sentimenti, di affetti familiari, di nostalgia per il tempo perduto e non ritrovato.