Cultura & Società

Verrà presentato, lunedì 2 dicembre, al Gran Gala della Cultura del Vino, al Parc Hotel di Villa Immacolata, a Pescara, il libro di Enrico Di Carlo, “Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria” (ed. Verdone).

Verrà presentato, lunedì 2 dicembre, al Gran Gala della Cultura del Vino, al Parc Hotel di Villa Immacolata, a Pescara, il libro di Enrico Di Carlo, “Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria” (ed. Verdone). L’intervento dell’autore inaugurerà, alle ore 16.30, l’incontro con i grandi vini d’Abruzzo, inseriti nella Guida Bibenda 2014.

Il libro, oltre che in Abruzzo, è stato già presentato a Verona, Torino, Roma e Budapest.

Filippo De Titta, che conosceva d’Annunzio sin dalla nascita, scrisse nei suoi “Racconti dannunziani”: «In quanto poi al bere, da bimbo gli davano un po’ di vino con acqua; più tardi escluse totalmente il vino e restò per sempre bevitore di acqua purissima».

D’Annunzio era convinto che il vino potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a sostenere «che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone». E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Bart, al momento della pubblicazione del libro “Guida alle osterie d’Italia”: «Ma in voi l’ardor della sete deve aver distrutto la squisitezza della ghiottornia, caro mio dottore. E chi per ghiottornia / si getta in beveria, canta per voi Messer Brunetto», affermò provocatoriamente nella prefazione.

Eppure, l’occasione è propizia per tessere le lodi della Vernaccia di Corniglia, sul litorale delle Cinque Terre, «celebrata già dal Boccaccio e annoverata dal poeta tra le delizie offerte agli ospiti vegnenti nella feria d’agosto»; e dell’olente vino d’Oliena al quale d’Annunzio lega il ricordo di quando, in compagnia di Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, giunse nella «ospitale Sardegna tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate».

Il rapporto con l’alcol appare a volte contradditorio: «Mai bere. La coppa di Champagne presa, alzata fino al labbro, posata di nuovo, resta colma» e anche «il bicchiere di vin di Porto, di cristallo intagliato […] rimane colmo». Così d’Annunzio affida le proprie emozioni al suo diario intimo, “Di me a me stesso”. Siamo, forse, nel 1930. Il 28 aprile scrive di “pericolose esperienze”: «Dopo l’orgia e dopo il lungo digiuno, l’effetto del pasto mattutino – condito da un vago rimorso che somiglia a un vago senso di compiacenza! – quando io astemio chiedo una coppa di Champagne Mumm nella illusione del melenso orgiaste francioso o nostrano». Al figlio Gabriellino, nel rinviarne la visita al Vittoriale, scrisse: «Non sono ancora escito dalla stanza perché sto poco bene. Iersera bevvi una certa “malvasìa” a me donata dai Càlabri! E tu sai che io son quasi astemio».

È la solitudine a indurlo a bere, addirittura ad annegare «in un ruscello di Cerasella, per disperazione di questa mia vita miseranda», come telegrafò ad Amedeo Pomilio il primo gennaio 1926. Ed è «una così cupa tristezza» a metterlo nella triste condizione di desiderare, come manifestò a Letizia de Felici, il 9 ottobre 1926, «di tracannare una ventina di cocktails! E non ne ho avuto neppure uno».

«Non bevo vino dall’infanzia», scrisse ad Antonietta Treves il 2 marzo 1930. Qualche mese dopo, invece, cedette incredibilmente alle lusinghe del Soave. L’11 dicembre 1930, a Luisa Baccara, affettuosamente chiamata Smikra, confessò di un pasto a base di “buon Baccalà bianco e oliato”, di “frutta intrise di miele” e di “castagne in giuleppe”, e poi: «Io sono imbriaco perché ho vuotato una intera bottiglia – lunga e snella – di Soave veronese».

Il Montepulciano d’Abruzzo rimaneva pur sempre il vino degli affetti privati. Il primo dicembre 1932 scrisse al conterraneo ministro Giacomo Acerbo per ringraziarlo del restauro della casa pescarese. In quella occasione lo invitò al Vittoriale «pe’ magnà ‘nghe me nu belle piatte de maccarune e pe’ beve nu bicchierucce de montepulciane».

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