Cultura & Società

Italia. La “trilogia natalizia” di Luigi Casale

La Cantata dei pastori

 

Spesso si sente parlare di “tempi forti”. L’espressione si riferisce ai momenti della nostra vita particolarmente significativi, dove maggiori sono l’impegno personale e la consapevolezza.

Generalmente se ne parla con spiccata allusione alla vita dello spirito e alla originalissima esperienza  morale, individuale e personale. Oppure nei momenti delle grandi scelte.

Chi conserva una visione trascendente della vita e della storia, dell’una e dell’altra si fa una rappresentazione ideale e al confronto di quella vorrebbe parametrare le proprie vicende umane, sia quelle personali che quelle collettive, familiari, sociali, storiche e politiche. Così, su un piano si installano  i valori assoluti, illuminati dalla riflessione filosofica, su di un altro vanno a collocarsi tutti i comportamenti della vita pratica, concreti e reali, che quotidianamente mettiamo in atto alla luce – si spera – di quei valori: amore, onestà, solidarietà, giustizia, che, poiché hanno una dimensione relazionale, ci fanno essere comunità di persone; insieme ad altri valori maggiormente legati alla nostra individualità, che chiamiamo virtù, e che caratterizzano la dignità del nostro essere uomini.

A queste condizioni la Storia Sacra, nella quale ci sentiamo anche noi inseriti se riteniamo di appartenere a quella categoria di persone, diviene in maniera esemplare emblema e rappresentazione della nostra miserevole vita di uomini. Un cammino verso la morte con la fede nella risurrezione per proiettare il ciclo vitale nella eternità di Dio.

Con questo spirito la Chiesa (comunità dei credenti) governa il culto – il servizio di adorazione dovuto alla divinità che si svolge nella liturgia annuale secondo riti e formule – proponendoci la storia della salvezza secondo unità tematiche: l’amore del Padre, la donazione del Figlio, l’accettazione della missione (“non mea, sed tua volutas”), la sua morte e risurrezione (il riscatto), la venuta dello Spirito Santo che rinnova l’umanità.  Questi temi, di per sé eterni e fissi, ci accompagnano come momenti di meditazione per l’anno liturgico. Il divino si incontra e interferisce con l’umano. In altre parole, s’incarna. Si compenetra dell’umano  trasfigurandolo. Ecco i tempi forti.  E Natale è uno di essi.

La profondità del Natale è la celebrazione di questo mistero divino. Ma nello stesso tempo è anche la sublimazione dell’atto umano, il più semplice, il più naturale. Forse è questo il valore simbolico delle luminarie, dell’abbondanza, della condivisione. Da una parte si ricerca l’intimità della famiglia, dall’altra il bisogno della più ampia compartecipazione nel sociale.

Su questi motivi ogni cultura ha accumulato una serie di tradizioni peculiari facendone altrettante occasioni di festa, tradizioni che al presente rischiano di essere dissolte dalla mentalità propria di quest’epoca di globalizzazione e di massificazione. E se da qualche parte ancora permangono, esse si riducono a pura manifestazione di folklore, svuotate come sono del contenuto morale e spirituale che in altri tempi costituiva la ragione del nostro umanesimo. Quando il Natale era soprattutto l’Avvento.

Il “calendario d’avvento”, il presepe, l’albero addobbato, la novena o la “corona d’avvento”, la serie di santi portatori di doni: tutti momenti e simboli che cadenzavano l’attesa, a cominciare già dal mese di novembre: la festa di tutti i Santi, la commemorazione dei fedeli defunti, la memoria liturgica di s. Martino, quella di s. Nicola, la festa dell’Immacolata, la memoria di s. Lucia, la solennità del Natale con la presenza del Bambinello, la domenica della sacra Famiglia, e la festa della Epifania. Ogni festa un piccolo dono, soprattutto ai bambini. E lo spirito che animava la comunità era quello del ringraziamento, improntato a propositi di conversione, chiaramente leggibili, oltre che nella formulazione degli auguri, negli atteggiamenti di carità e di speranza per il nuovo che ci attende espressi attraverso l’abbondanza di doni e la celebrazione della luce.

Nella letteratura meridionale c’è un’opera teatrale del genere “teatro religioso” che ben rappresenta tutti questi valori: la luce e le tenebre, il mito e la storia, il cielo e la terra, la vita e il sogno, la richiesta e la donazione dell’offerta, con al centro la nascita del Bambino che cambierà il mondo e la condizione dell’uomo. È quella che noi chiamiamo la “Cantata dei pastori”: un’opera del religioso Andrea Perrucci, dal titolo “Il vero lume tra le tenebre, ovvero la nascita del Verbo umanato”   (1698).

In breve: la storia dell’umanità, dove i “pastori” siamo noi.

 

I segmenti narrativi di questa rappresentazione teatrale vanno dal sogno di Benino, alla vita bucolica della famiglia di Armenzio, dalle vicissitudini di Razzullo alle peripezie di Sarchiapone,  dallo scontro titanico di angeli e demoni alla sofferta peregrinazione della sacra Famiglia, fino alla scena finale della natività del Redentore che ritrova tutti i personaggi della sacra rappresentazione inginocchiati davanti alla culla benedetta nella scena del Presepio (compreso il diavolo che per lunga tradizione napoletana si esibisce in una spettacolare caduta, assunta a prova della sua abilità di attore e di acrobata). Intercalati talvolta da chiari riferimenti alla realtà locale. Sempre che gli artefici della messa in scena, ricorrendo ad una ben collaudata tecnica in linea con le migliori tradizioni paesane, riescano a realizzare uno spettacolo che, pur durando più di tre ore,  favorisca il diretto coinvolgimento del pubblico.

È proprio l’azione corale, sulla scena e con il pubblico, a farne una “cantata”.

Così si articola la narrazione e si intrecciano i diversi filoni narrativi di un’opera che attinge al poema religioso, al dramma pastorale, al teatro comico, alla commedia dell’arte.

 

Nella mia prima infanzia, di questa opera teatrale era rimasta una memoria nella nostra famiglia in quelle poche battute dei personaggi, che mia madre utilizzava in funzione gnomica: erano infatti i suoi aforismi. Dal “Lasso sei, o Giuseppe?”, al “Voga Ruscie’, dàll’a ‘stu mazzariello, si no stu maleritto sciummo nce porta ‘nfunno comm’a chiummo”, oppure “…. Tuo fratello è andato a caccia, l’altro a pesca, e tu dormi, Benino!”

Tra le altre sue sentenze ce n’era una, sintesi da lei formulata, la cui idea probabilmente le proveniva proprio dalla conoscenza della Cantata dei pastori. Infatti, con l’avvicinarsi delle feste natalizie, tra le raccomandazioni che faceva a noi bambini soleva dire: “Statevi accorto! Ca ‘i chisti juorni cammìnano i riàvoli”.

 

Quando ero ancora ragazzino, nel più importante teatro della città  tutto il mese di dicembre teneva cartellone la Cantata dei pastori. Delle rappresentazioni di quell’epoca, a parte un certo movimento scenico e qualche passaggio tipico dei personaggi più caratteristici, per il resto ricordo ben poco. Ma solo nel Natale del 1972 ne colsi il senso, quando, perduto ormai il contatto col testo dell’opera (e rara era divenuta per noi l’occasione di poter assistere ad una rappresentazione della Cantata dei pastori), mi capitò di vederla con Patrizia, a Torre Annunziata realizzata dalla filodrammatica degli ex allievi dei Salesiani.

Poi, di nuovo, più recentemente mi è stata offerta l’occasione – forse si era nel 2007 o giù di lì – di rivederla a Castellammare presso la Parrocchia di s. Antonio; e questa volta, adattata dalla locale compagnia di attori secondo una prassi consuetudinaria, essa comprendeva anche il preludio del sogno di Benino con lo scontro tra il diavolo Uriel e l’arcangelo Gabriel.

Quel giorno la visione della scena del sogno di Benino con la guerra dichiarata dell’Inferno contro il Paradiso, mai vista prima, oppure passata inosservata e dimenticata, rischiarò e diede senso alla comprensione della frase di mia madre: “ ‘I chisti juorni vanno camminànno i riavoli”.

 

 

Luigi Casale

I Krampus

(“Stasera vanno camminànno i riavoli”)

 

All’avvicinarsi del Natale, alle raccomandazioni che la mamma, sempre preoccupata per noi figli, faceva a tutta la famiglia quando dovevamo uscire da soli o intraprendere una attività di un certo rischio (ma anche a nostro padre nello svolgimento del suo lavoro e nell’esercizio delle  responsabilità di capo-famiglia), aggiungeva questa espressione: “… E statevi accorto! Ca ‘i chiesti juorni vanno camminànno i riàvoli.”

Questo avvertimento ce lo sentivamo ripetere solo per la durate del periodo di Avvento.

Ora, che il diavolo fosse sempre in agguato per tentarci, lo avevamo appreso dal catechismo della prima Comunione; come sapevamo già che, nell’agonia della morte, di ogni uomo Satana si contendesse l’anima in lotta con l’Angelo custode. A dire il vero, tutti i giorni nell’Ave Maria recitiamo: “ … Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte”. Ma che schiere di diavoli se ne andassero in giro nei giorni lieti dell’approssimarsi delle festività natalizie era un messaggio che ci giungeva dalla coscienza popolare attraverso la voce della mamma. Dal punto di vista della dottrina, certamente era un fatto plausibile, anche indiscutibile, ma resta che la notizia non ci veniva dai canali ufficiali, quelli canonici dell’indottrinamento parrocchiale, bensì da una libera elaborazione popolare. L’amore per la mamma, poi, ci faceva accettare la sua apprensione e con essa l’accorata raccomandazione alla prudenza e alla saggezza.

La scoperta di due manifestazioni culturali fatta in seguito mi hanno svelato l’origine di quel modo di sentire popolare; entrambe legate alla tradizione natalizia: una del meridione d’Italia, l’altra di derivazione nordica; tutte e due formatesi nell’alveo della fede cristiana e della devozione ai santi.

La prima è la Cantata dei pastori, quella sacra rappresentazione del mistero della Natività raccontata come sfondo di una vicenda di uomini (commedia), che si metteva in scena nei giorni dell’attesa del Natale in ogni città del nostro circondario, se non addirittura in ogni parrocchia; alla quale nessuno doveva mancare.

La seconda è la festa di s. Nicola (6 dicembre), che nei paesi nordici chiamano Nikolaus.

La Cantata dei pastori, ho fatto in tempo a vederla non solo nella mia infanzia e nella mia giovinezza, ma, ancora una volta, anche in età adulta, avendo avuto la fortuna di partecipare ad una replica che si dava nella parrocchia di s. Antonio a Castellammare di Stabia, nel Natale del 2007.

Il corteo di Nikolaus  (s. Nicola), che la vigilia del 6 dicembre  distribuisce dolci, mandarini e frutta secca ai bambini lungo le strade della città, l’ho cominciato a frequentarlo invece da adulto, trattandosi di una tradizione viva  dei centri della provincia di Bolzano, dove dopo aver formato famiglia sono andato a vivere.

Tutte e due le manifestazioni mostrano la presenza fisica dei diavoli, impegnati ad ostacolare in tutti i modi la realizzazione del bene. Nello spettacolo teatrale della Cantata dei pastori ingannando, fuorviando, e minacciando in maniera fastidiosa i personaggi dell’azione scenica della commedia umana, e le figure della sacra rappresentazione: Giuseppe e Maria, e gli Angeli.  Mentre  nel codazzo che si forma al seguito del corteo di Nikolaus vi s’intrufolano sotto forma di Krampus (i diavoli), degli esseri mostruosi che ai bambini, anziché offrire leccornie e cose buone come fa s. Nicolò, danno colpi di verghe attorno alle gambe.

Le due scene della rappresentazione del male, proposte alla riflessione della coscienza morale, sono visibili a tutti: o nella sala del teatro, nel caso della Cantata dei pastori;   o lungo le strade della città, nel caso del passaggio di s. Nicolò. Da queste manifestazioni della tradizione natalizia, molto probabilmente, è derivato anche il convincimento popolare che faceva dire a mia madre: ‘I chisti juorni vanno camminanno i riavuli.”

 

Ma il diavolo, nella forma del serpente, è presente anche in un’altra rappresentazione simbolica (e iconografica) del periodo natalizio: quella legata alla festa dell’Immacolata (8 dicembre). Essa deriva direttamente dalla pagina della Bibbia in cui si legge che il Creatore condanna il serpente a strisciare nella polvere, e ad essere vinto (calpestato) dalla Donna, la tutta pura.

Luigi Casale  

Da Nikolaus a Babbo Natale

 

La festa di s. Nicola di Bari è riportata dal calendario al 6 dicembre. A questa data è già iniziato il nuovo anno liturgico (il ciclo temporale delle solennità cristiane celebrate dalla Chiesa) e ci troviamo – generalmente – nella prima  settimana d’Avvento;  o al massimo nella seconda.

[È noto il detto popolare, napoletano che recita:  “Comme barbaréa, accussì nataléa”; che ci fa calcolare il giorno della settimana in cui cade la festa della Natività del Signore. Infatti, S. Barbara è il 4 dicembre, Natale il 25. Tra le due date corrono 21 giorni, e poiché 21 è multiplo di sette, sono giuste tre settimane. Perciò il giorno nella settimana di santa Barbara (4 dicembre) è lo stesso giorno della settimana in cui viene Natale (25 dicembre). Sfido chiunque a verificare sul calendario. Eppure questa semplice ovvietà ha generato la convinzione tra la gente che “Comme barbaréa accussì nataléa” si applichi alle condizioni climatiche. La qual cosa, per altre considerazioni, potrebbe anche essere vera: ma solo per chi segue la luna.]

Ma ritorniamo a s. Nicola. Il nome è di origine greca (formato dalle radici di due parole che significano: vittoria e popolo) e del mondo greco è anche il personaggio. A metà del sec. IV fu vescovo di Mira, una città  della Turchia (oggi Dembre), sulla costa orientale del Mar Egeo. La sua devozione si diffuse in tutto l’Oriente, e particolarmente  in Russia. Nel sec. XI gli fu dedicata una  basilica anche a Bari; da qui la sua venerazione si diffuse in tutta Italia.

La memoria di s. Nicola è ricordata nei riti bizantino e copto. Nel nome di s. Nicola sono fiorite molte tradizioni popolari e iniziative di carità legate al Natale, che ne hanno fatto la figura del Santo Vescovo (Nikolaus) che benèfica giovani e fanciulle. In questa veste e con questo nome la sua conoscenza è passata poi a tutta l’Europa, sviluppandosi in modo particolare nei paesi nordici come festa di popolo con radicamento nel folklore delle varie località. In Italia la tradizione del Nikolaus che porta doni, di derivazione nordica, è viva solo nella provincia di Bolzano; e la sua venuta (nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità) è festeggiata con grande partecipazione di popolo. Al seguito del Santo, rivestito dei suoi paramenti da vescovo: mitria, chioma e barba bianca, pastorale, guanti, anello; che nelle case e per le strade porta i suoi doni a grandi e piccini, si muovono però anche i Krampus (i diavoli), esseri mostruosi che ostacolano i gesti di carità, i quali nella rappresentazione popolare infliggono pene corporali alle persone che nell’anno non si sono comportate bene, colpendole con fasci di rami secchi.

Molto rinomata è la festa che si organizza a Vipiteno la sera del 5 dicembre dove accorrono persone da tutto l’Alto Adige, e anche dal Trentino e dal Tirolo austriaco.

Dall’Europa del nord la tradizione del Nikolaus, con le migrazioni storiche verso l’America, passò nel Canada e negli Stati Uniti, dove il personaggio si liberò dei paramenti da vescovo, pur mantenendo il suo nome: Klaus, da Nikolaus.

Così Santa Klaus, nelle vesti con cui lo conosciamo oggi, ritornò in Europa e si chiamò Babbo Natale. E anche i Krampus scomparvero dalla sua iconografia classica, vista l’idea più adatta alla pubblicità e al consumismo. Da caproni, così come essi venivano rappresentati in Europa, si trasformarono in renne, costrette a trainare la slitta carica di doni.

Luigi Casale

 

 

 

 

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