Silvi. Sandro subito a casa. Interrogazione parlamentare per liberare il comandante Sandro De Simone

Sandro subito a casa

Gambia, sequestro peschereccio italiano e arresto del nostro concittadino Sandro De Simone, accusato, insieme al suo direttore di macchine, Massimo Liberati, di San Benedetto del Tronto (AP), di trasportare a bordo della nave Idra Q. una presunta rete da pesca con dimensioni delle maglie non a norma.

L’amministrazione comunale porge piena solidarietà alla famiglia De Simone e nel apprendere questa mattina la triste notizia dagli organi di stampa si è adoperata sin da subito con i sui referenti nazionali per far si che Sandro torni a casa.

Proprio in queste ore, l’On Gianni Melilla, sta intervenendo in aula di Montecitorio con un interrogazione urgente all’indirizzo del Ministro degli Esteri per chiedere lo stato dei fatti e di intervenire per un immediato ritorno a casa dei due marinai italiani.

TESTO INTERROGAZIONE:

Interrogazione a risposta scritta
Ai Ministri agli Affari Esteri e all’Agricoltura
per sapere-premesso che:
un pescherecccio italiano della Italfish di Martinsicuro (Teramo) è stato sequestrato in Gambia per presunte violazioni delle normative di pesca;
sono in stato di arresto il capitano della imbarcazione Sandro de Simone, abruzzese di Silvi (Teramo) e il capitano di macchina Massimo Liberati, marchigiano di San Benedetto del Tronto (AP);
i due italiani sono ovviamente in grave stato di disagio con il peschereccio sequestrato nel porto di Banjiul;
i familiari e le comunità marittime abruzzesi e marchigiane sono giustamente preoccupate e hanno chiesto un urgente intervento delle Autorità Italiane e della Farnesina e dell’Agricoltura e Pesca in particolare;
-:quali iniziative sta assumendo per risolvere questa grave emergenza che coinvolge due nostri connazionali in quel Paese africano.

Roma marzo 2015 Gianni Melilla e Lara Ricciatti




LA CULTURA E’ MIGRAZIONE

LA CULTURA E’ MIGRAZIONE

Annotazioni sulla Giornata delle Culture migranti tra Italia e Argentina

di Carla Morselli *

 

ROMA – “La cultura è migrazione” dice Federico Gonzalez Perini , addetto culturale dell’Ambasciata Argentina in Italia, introducendo la “Il giorno di Stefano”,  dal titolo di un libro della scrittrice italo argentina  Maria Teresa Andruetto.

Simona Cives, responsabile della Casa delle traduzioni del Comune di Roma, introduce Ilide Carmignani traduttrice del libro, che ci propone la traduzione come viaggio sulle orme di chi ha scritto. Segue una tavola rotonda a cui partecipano Maria Rosaria Stabili (Università di Roma Tre) con un tema di “tensioni identitarie tra passato e presente”, mentre Claudia Zaccai (Università di Roma La Sapienza)  legge un suo  testo “l’esiliato in cerca del suo narratore”, e Goffredo Palmerini  (giornalista e scrittore) con “Cenni di storia dell’emigrazione italiana, gli abruzzesi in Argentina” ci fornisce dati  anche ottimisti su italiani che hanno realizzato i loro talenti in Brasile e in Cile oltre che in Argentina. Ottima iniziativa, anche se così stretta nei tempi da non lasciar spazio al dialogo e ai fatti del presente.

La cultura è quel che resta, quel che il ricordo costruisce in noi nel tempo, quel che trasformiamo nel gesto quotidiano. Ma c’è il momento del trauma del distacco della separazione in cui spaesati privati di una lingua comune immersi in una zona d’ombra e di freddo siamo stranieri e restiamo tali. Costretti a narrarci il percorso dei giorni, con altre parole, senza riferimenti precisi, con le tasche vuote e un bagaglio affatto leggero, camminiamo sulle vie dell’assurdo in cerca di un luogo senza riuscire a dipanare il dolore.

Il suono di una lingua, una canzone, un modo di dire, una poesia imparata nell’infanzia sono a volte quel che resta. Migrare è spesso una radice scoperta che cerca la terra, l’acqua e il sale per non perdersi nella follia e nella disperazione. Soffre l’anima del mondo avvolta in stracci e ci sfiora. Rimuoviamo il dolore di migrare, rimuoviamo le morti sul sentiero o in acqua, mentre impegnati a sopravvivere, vediamo l’indifferenza acuta degli altri, immersi anche loro nella stessa arte.

La rimozione non consente ai sensi di sperimentare il reale con  la stessa ricchezza che la protezione del luogo e della lingua in cui siamo cresciuti ci dava, l’occhio sperimenta altri usi, siamo costretti ad una traduzione costante,  distinguiamo la diversità, troviamo altri oggetti immagini, illusioni. E’ un nuovo mondo in cui restiamo a lungo stranieri, in cui cerchiamo altri stranieri, in cui è difficile concedersi il silenzio e  l’abbandono.

L’identità, chi sono, chi siamo occorre saperla per poterla lasciare, per poter  pensare di nuovo ed aprirsi, ridivenire flusso, cambiamento, gioco di relazioni e  un’altra identità che ride di presunte libertà. L’arte allora viene in soccorso con l’emozione e il comune sentire, l’arte è quel che resta, si innesta nel sentimento, tira i fili di una storia illogica, in cui il vissuto ritrova un altro peso e una misura. L’arte disinnesca solitudini: si tratta di vivere. Nel frattempo ad alleviare questo strappo non abbiamo un facile riconoscimento, né una tutela o vie di integrazione,  sappiamo in che stato versano le strutture d’accoglienza.

Passano generazioni prima che un’altra terra diventi la nostra e ci sia famigliare. La conoscenza e la cultura sono le armi con cui non perdere il filo degli affetti lasciati, il lavoro e la dignità la base breve su cui sostiamo nella condizione precaria del migrante. Si perpetua il dramma e coi tempi di crisi ci somigliamo tutti migranti o no,  senza volerci davvero riconoscere.

 

*www.italianitalianinelmondo.com  




USA. Caro Direttore, ho deciso: nel 2017 chiedero’ il trapianto della mia testa.

Sono stanco e vorrei ritrovare  ;’enrusiasmo e la forza de givoani,tornare
a fare il tifo di una volta per la squadra  di Giulianova e tante altre cose.
Adesso non scoppiare a ridere ne’ pensare che di colpo sono impazzito,
ti prego. Vedi,il medico torinese Sergio Canavaro ha annunciato che nel 2017 potranno effettuare il trapianto della testa. Ha anche spiegato le parti tecniche,molto difficili da comprendere.L’importante e’ che ha insistito nel sostenere che il trapianto potra’ essere fatto. Crediamno allora,alla scienza italiana.
Che cosa potro’ fare prima del 2017? Dopotutto sono appena due anni.
Troveranno una testa “nuova” per me (e per tutti gli altri che vorranno fare lo stesso?). Certo non avranno una testa viva. Soltanto una testa morta.
Ma,si sa,dopo la morte  il cervello non funziona piu’ perche’ non riceve piu’ il sangue dal cuore. Un problema,caro Direttore.Ma anche se riusciranno in qualche modo a rimediare a questo particolare problema,chi mi dice che la testa “nuova” avra’ tutto quanto spero di avere? Pensa se si tratta di una testa di un teramano.Sai bene l’antagonismo fra noi e loro,anche siamo a venti cholometri di distanza.Tifera’ per Giulianova o per Teramo? Sara’
un cervello tirchio o di uno spendaccione? Quante domande,direttore.
Bisogna pensarci bene prima di gettare la mia testa (pur se avanti negli anni e stanca di sentire le solite fesserie) e accettarne  una “nuova”.
Tu che dici?
Benny Manocchia

 




A ROMA, IL 25 E 26 FEBBRAIO, DUE INTERESSANTI EVENTI SULLE MIGRAZIONI

23 Febbraio 2015

 

 

A Casa Argentina Giornata delle Culture migranti, alla Sapienza focus con 6 libri sull’emigrazione

 

di GoffredoPalmerini

 

 

ROMA – Il 25 febbraio a Roma, presso Casa Argentina, in Via Veneto 7, si tiene la Giornata delle Culture migranti tra Italia e Argentina, prima edizione d’un evento che nella stessa data sarà celebrato ogni anno. Una riflessione a più voci sul patrimonio culturale consolidatosi in due secoli di migrazioni tra l’Italia ed il grande Paese latino americano, il più italiano del mondo per cultura ed entità degli italici in seno alla sua popolazione. “Il giorno di Stefano”, questo il titolo della manifestazione, è promosso ed organizzato dall’omonima Associazione culturale presieduta da Marina Rivera. Il nome metaforico della Giornata nasce dal romanzo “Stefano” della scrittrice argentina Maria Teresa Andruetto che narra le difficoltà vissute da un ragazzo italiano costretto ad emigrare in Argentina. Il romanzo sarà presto nelle librerie, tradotto in italiano da Mondadori, con il titolo “Il viaggio di Stefano”.

 

Ricco di spunti e sinestesie il programma della manifestazione, che prende avvio alle ore 18 con il saluto dell’Addetto Culturale dell’Ambasciata d’Argentina, Federico Gonzalez Perini, e con la presentazione delle organizzatrici Marina Rivera e Cristina Blake (Associazione Culturale “Il giorno di Stefano”). Alle 18:15 segue un breve video di Maria Teresa Andruetto e letture in spagnolo di brani tratti dal libro “Stefano”; alle 18:30  “Italia, andata e ritorno. La traduzione del viaggio di Stefano” a cura di Ilide Carmignani, introduce Simona Cives (Comune di Roma), e reading di brani del libro “Il viaggio di Stefano”; alle 19:00 la Tavola rotonda “Culture migranti tra Italia ed Argentina. Narrazioni e immagini”, introdotta e coordinata da Virginia Sciutto (Università del Salento), con gli interventi di Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore, Maria Rosaria Stabili (Università Roma Tre) e Claudia Zaccai (Università di Roma La Sapienza); alle 19:40 “Culture migranti tra Italia e Argentina. Voci e Musica”, con un concerto dell’Artificio Vocal Ensemble, diretto dal M° Alberto De Sanctis.

 

Il 26 febbraio, alle ore 17, presso la Sapienza Università di Roma (Facoltà di Lettere e Filosofia, Aula A Dipartimento di Storia, 2° Piano), organizzato dai docenti Flavia Cristaldi e Stefano Pelaggi, si svolge l’interessante focus “Voci d’Autore. Sei volumi per le Migrazioni”, la presentazione incrociata di sei libri sulle migrazioni, nel senso che ciascun autore presenta il volume di un altro. Una kermesse che permette di aprire più finestre di riflessione sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione. L’evento si apre con il saluto dell’Ateneo, affidato al Prorettore Antonello Biagini, e al direttore del Dipartimento Paolo Di Giovine. Queste che seguono le pubblicazioni e i corrispondenti Autori (o curatori), mentre resta la sorpresa di conoscere al momento chi autore presenterà che cosa: Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (Tiziana Grassi), Rapporto Italiani nel Mondo (Delfina Licata), Andarsene sognando (Eugenio Marino), E andarono per mar a piantar vigneti. Gli italiani nel Rio Grande do Sul (Flavia Cristaldi), Emigrazione e colonialismo in America Latina (Stefano Pelaggi), Percorsi migratori della contemporaneità (Silvia Aru, Andrea Corsale, Marcello Tanca). Lo sguardo di Autori prestigiosi su un così ampio campo di trattazione non mancherà di stimolare interessi ed approfondimenti in tema di migrazioni. Chi scrive è chiamato a coordinare gli interventi di presentazione e il dibattito con il pubblico.

 

Giova dare ora un breve cenno sulle opere oggetto di presentazione e sugli Autori. A cominciare dal Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (SER ItaliAteneo e Fondazione Migrantes, 2014), opera monumentale la cui idea progettuale si deve a Tiziana Grassi, curato dalla stessa con Delfina Licata, Enzo Caffarelli, Gian Carlo Perego e Mina Cappussi.. Il volume si articola in 1.500 pagine con oltre 700 lemmi-articoli, 160 box di approfondimento, 17 appendici monotematiche, 500 illustrazioni a colori e in bianco e nero ed è il frutto del lavoro di 169 autori, nella maggior parte dei casi docenti universitari e rappresentanti di istituzioni e associazioni impegnate nell’ambito delle migrazioni italiane all’estero, supervisionati da un consiglio scientifico di 50 esperti che rappresentano l’Italia e numerose altre nazioni. Il Dizionario Enciclopedico racconta una pagina fondativa della storia italiana quale è stata la Grande Emigrazione tra Ottocento e  Novecento e che giunge fino ai nostri giorni con decine di migliaia di italiani che continuano a muoversi verso altre terre. Una pagina fatta di coraggio, di sacrifici, di sogni e conquiste e che ha visto partire oltre 27 milioni di connazionali, che oggi esprimono un portato di circa 80 milioni di oriundi. Il taglio del Dizionario è scientifico, i testi sono opera di studiosi esperti che hanno approfondito quasi ogni aspetto possibile del grande tema dell’Emigrazione italiana con gli strumenti analitici, le fonti accreditate, i richiami bibliografici in una prospettiva transdisciplinare. Tiziana Grassi è nata a Taranto, vive e lavora a Roma. Giornalista, ricercatrice e studiosa di migrazioni, è stata autrice di programmi televisivi di servizio per gli Italiani all’estero a Rai International e consulente di programmi culturali per Rai Uno. Laureata in Lettere Moderne, si interessa di Emigrazione-Immigrazione e di sociologia della comunicazione. Collabora con la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e ha insegnato in un Master post laurea presso il Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dello stesso Ateneo. Ha pubblicato diversi volumi di saggi e poesie. E’ stata ideatrice del progetto e appassionata anima motrice del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo.

 

Rapporto Italiani nel Mondo (Fondazione Migrantes, Tau Edizioni, 2014). Giunto alla sua IX edizione, il Rapporto è un punto di riferimento essenziale per chiunque abbia necessità di approcciare le tematiche dell’emigrazione italiana. Il volume, curato da Delfina Licata, consta di 47 approfondimenti elaborati da 55 autori dall’Italia e dall’estero. E’ uno strumento culturale che si propone di trasmettere informazioni, nozioni, conoscenze sull’emigrazione italiana di ieri e di oggi, attraverso un linguaggio semplice ed immediato. L’intento di questa annuale fatica editoriale della Fondazione Migrantes è quello di mettere a disposizione del pubblico più vasto un testo che parli, in termini strutturali, di un aspetto fondamentale della “Storia di un Paese e della Storia di un popolo”, qual è l’emigrazione italiana, delle vicissitudini sociali, economiche, politiche, ma anche dei tanti problemi affrontati dai migranti in un mondo in costante e veloce cambiamento. Delfina Licata, ricercatrice sociale. Caporedattore del Rapporto Italiani nel Mondo, per la Fondazione Migrantes, ne è curatrice dal 2006, sin dalla prima edizione. È da diversi anni attenta studiosa delle tematiche legate alla mobilità umana e, in particolare, all’emigrazione italiana all’estero e all’immigrazione in Italia. Autrice e co-autrice di numerose pubblicazioni, di diversi saggi e articoli su volumi e riviste scientifiche, compreso il Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, della quale opera ha tenuto il Coordinamento scientifico.

 

Andarsene sognando” (Cosmo Iannone Editore, 2014) di Eugenio Marino è un volume che racconta l’emigrazione italiana attraverso la canzone. In molti si sono occupati della canzone italiana, anche personaggi del mondo della politica, ma in pochi hanno sviscerato il tema dell’emigrazione nella canzone. Eugenio Marino ricostruisce in questo libro la storia dell’emigrazione attraverso la canzone: il genere che probabilmente più della letteratura, della storiografia e della politica ha trattato il grande esodo italiano. E consegna a lettori e studiosi un’opera utile, completa e trasversale a tutti i generi musicali, per poter riflettere e avvicinarsi con serietà e rigore alle nostre comunità nel mondo e a un tratto portante della nostra identità nazionale, qual è l’emigrazione. Dal canto popolare dei movimenti migratori interni di tipo stagionale alle canzoni dei giovani “cervelli in fuga” diffuse su Youtube, passando per le canzoni di lotta, leggere, gastronomiche e del cantautorato italiano: un excursus nella storia della canzone italiana e dell’emigrazione che ricostruisce e rintraccia gli snodi fondamentali e le svolte, richiamando alla mente i principali protagonisti della storia della musica leggera italiana. Eugenio Marino è nato a Crotone nel 1973. Vive e lavora a Roma, dove si è laureato in Lettere Moderne con una tesi sui rapporti tra letteratura e canzone italiana d’autore, nello specifico su De André, Guccini e De Gregori. E’ responsabile del settore Italiani nel Mondo del Partito Democratico. Ha pubblicato tre libri e scritto numerosi articoli in tema di emigrazione.

 

Nel volume “E andarono per mar a piantar vigneti. Gli italiani nel Rio Grande do Sul” (Fondazione Migrantes, Tau Edizioni, 2015), freschissimo di stampa, Flavia Cristaldi esplora l’emigrazione italiana nel sud del Brasile. A distanza di 140 anni dalle prime partenze organizzate dall’Italia e dai primi arrivi nel Rio Grande do Sul, il volume ripercorre attraverso gli occhi di una geografa italiana i percorsi dei migranti indagando quei comportamenti e quelle strategie che hanno portato alla creazione in terra brasiliana di nuovi territori caratterizzati da elementi di italianità. Ponendo al centro del discorso la valorizzazione delle tradizionali tecniche vitivinicole, riproposte e riadattate al contesto brasiliano dai migranti, Flavia Cristaldi indaga l’azione dei contadini e delle loro famiglie nella costruzione di quei paesaggi segnati dall’uva e dal vino che ancora oggi raccontano le origini degli abitanti. L’appartenenza all’Italia e alla sua discendenza informano così il territorio, lo caratterizzano nei segni e nei valori culturali, ne determinano le forme e l’uso, raccontando al mondo il piacere di poter bere un bicchiere di vino di cui ogni goccia fa esplodere nella memoria e nell’inconscio l’epopea dei migranti italiani e delle loro conquiste. Flavia Cristaldi è professore associato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza e docente nei moduli di Geografia Umana e Geografia delle Migrazioni. È Consigliere della Società Geografica Italiana e membro del Comitato Scientifico del Rapporto Italiani nel Mondo e del Dizionario Enciclopedico delle migrazioni Italiane nel Mondo. Ha pubblicato più di 120 volumi e articoli in prestigiose sedi nazionali e internazionali, con una speciale attenzione ai temi delle migrazioni.

 

Emigrazione italiana e colonialismo in America Latina”, di Stefano Pelaggi, è un testo di prossima pubblicazione ed è incentrato sui tentativi del Regno d’Italia di coniugare i flussi migratori con le esigenze di politica estera e  commerciale del paese. L’espansionismo in America latina è il prodromo delle forze che qualche decennio dopo porteranno il paese in Eritrea e in Libia, questa dinamica risponde al desiderio italiano di ottenere una statura internazionale ma soprattutto una volontà di sopravvivenza alle strategie politiche protezionistiche delle altre potenze europee. L’analisi si sofferma sulle azioni della Regia Marina in difesa delle comunità italiane nella regione, sul ruolo di un gruppo di studiosi della Società Geografica Italiana nella creazione di un ambiente culturalmente favorevole ai fini espansionistici e su alcune opere letterarie dedicate all’America Latina che segnarono l’immaginario collettivo. Stefano Pelaggi è Dottore di ricerca in “Storia dell’Europa” presso l’Università di Roma La Sapienza. Vice direttore del quotidiano L’Italiano, si occupa di emigrazione e relazioni internazionali. E’ autore di numerosi saggi ed articoli su tematiche storiche e geopolitiche. Svolge attività di ricerca e docenza presso La Sapienza Università, l’IULM di Milano e l’Università Niccolò Cusano di Roma.
Il volume “Percorsi migratori della contemporaneità” (CUEC editrice, 2014), a cura di Silvia AruAndrea Corsale – Marcello Tanca, è un interessante lavoro con qualificati contributi scientifici di numerosi studiosi e ricercatori in tema di migrazioni, con particolare attenzione a forme, pratiche e territori del fenomeno migratorio. Interessanti approfondimenti nei campi della mobilità e delle dinamiche socio territoriali; su provenienza, destinazione, tempi e modalità dell’emigrazione; infine, riguardo l’immigrazione in Italia, l’altro e l’altrove nel contesto italiano. L’umanità, osservava Vidal de la Blache, è un “fenomeno in movimento”: la storia del mondo è storia di mobilità e di migrazioni. Il volume raccoglie gli esiti delle Giornate di studi “Migrazioni e sviluppo locale nell’area mediterranea. Esperienze di ricerca a confronto” e del Seminario “Migrazioni e processi di interazione culturale”, svoltisi entrambi nel 2012 presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari. Silvia Aru, Andrea Corsale e Marcello Tanca, curatori  del volume, sono ricercatori presso il Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Università di Cagliari

 




L’APPROFONDIMENTO. Commemorazioni 50° anniversario della tragedia di Mattmark

 

Al Senato una Mostra per ricordare. Tra Emigrazione e Storia del lavoro.

di Tiziana Grassi

 

ROMA – “Volevamo braccia, sono arrivati uomini”, questa l’emblematica frase di Max Frisch che – a testimonianza del ‘clima’ che ha accolto gli italiani emigrati all’estero tra Otto e Novecento – apre il Catalogo della mostra fotografica “Mattmark, Tragedia nella Montagna”, il primo degli eventi legati alle celebrazioni commemorative per il 50° anniversario della Catastrofe avvenuta nel 1965, e promosse dal Comites Vallese, dall’Associazione ItaliaVallese e dal Comitato ad hoc “Mattmark 1965-2015”. Un catalogo rigorosamente trilingue – tedesca, francese e italiana – per una mostra commemorativa inaugurata nei giorni scorsi presso la Sala degli Atti Parlamentari della Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini” che ci immerge in una tragica pagina dell’Emigrazione italiana e delle migrazioni tout court, tragedie della montagna ieri, tragedie del mare oggi, nell’eclissi di ogni Pietas. Scorrono, a richiamare l’urgenza della Memoria, le immagini di una Mostra-racconto che ci riguarda: lo studio del progetto della diga, il ghiacciaio dell’Allalin e il sottostante lago di Mattmark, la benedizione, la conferenza stampa che annuncia l’inizio dei lavori di costruzione, il cantiere al lavoro di notte. Lo struggente racconto per immagini procede con la festa alla fine dei lavori e l’inaugurazione ufficiale, secondo la liturgia del Rito propiziatorio.

 

Seguono immagini con operai che ci guardano, sorridenti, dai loro enormi camion per il trasporto pesante. E’ l’Innocenza contro la Morte, in quei sorrisi di uomini al lavoro. Epperciò risulta tanto più stridente e straniante quella didascalia: “La vigilia della catastrofe. Da sinistra a destra: Giancarlo Acquis, Merlin da Meano, Augusto Praloran”. Il fotogramma successivo è il silenzio di una distesa infinita di neve. Il Dopo. E’ il 1° settembre 1965. Le fotografie ci restituiscono uomini al lavoro mentre cercano di salvare i compagni sepolti sotto il ghiaccio. Le immagini della mostra/catalogo scorrono: l’immensa massa di neve sul cantiere della diga vista dall’aereo il giorno successivo alla catastrofe lascia sgomenti. Come il Registro dei dispersi, le ricerche dei corpi delle vittime della valanga, gli articoli di giornale di quei giorni: “Non c’è speranza per i sepolti vivi di Mattmark. Solo otto salme dissepolte. Secondo un rapporto delle autorità i ‘dispersi’ sono ottantadue, di cui forse cinquantacinque italiani. Dieci si sono salvati fuggendo sulle montagne. Oggi bombardamenti con ‘bazooka’ contro il ghiacciaio superiore. Il pianto dei compagni di lavoro. Impressionanti racconti dei superstiti e messaggi degli scampati alle famiglie in Italia. ‘Erano tre giorni che la montagna faceva la mossa’ ”. (Corriere della Sera). Dopo, siamo lì con loro, con i sopravvissuti. Con i fermo-immagine delle vedove avvolte nei veli neri del lutto, impietrite mentre stringono rosari. Siamo con gli orfani di Mattmark. In giacca nera. Serissimi. Bambini, e già consapevoli. Seguono le fotografie dei processi, inquietanti. Sono i dolorosi fotogrammi di una tragedia annunciata, sequenze della Storia, la nostra. Perché la tragedia di Mattmark del 30 agosto 1965 resta, ancora oggi, a distanza di 50 anni, un ricordo vivo nella popolazione del Vallese, accomunando nello stesso tragico destino lavoratori migranti e svizzeri. Una sciagura in cui perirono 88 lavoratori di diverse nazionalità di cui 56 italiani. In questo triste numero era presente l’Italia intera, dalle Alpi alla Sicilia.

 

Erano le 17 e 15 del 30 agosto 1965, quando il tempo si fermò. A 2.120 metri d’altitudine, un intero costone del ghiacciaio dell’Allalin, nelle Alpi del Vallese, si staccò e precipitò a valle travolgendo il cantiere e seppellendo sotto una montagna di ghiaccio gli operai che stavano lavorando alla costruzione della diga del lago di Mattmark, nella Valle di Saas, una delle infrastrutture più importanti d’Europa. 88 i morti, 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi ed un apolide. Gli orfani furono 85. “Pochi istanti prima che venisse giù parte del ghiacciaio, istintivamente, le vittime corsero verso le baracche nel vano tentativo di cercare rifugio, ignari che quella massa enorme era diretta proprio verso di loro – annota Toni Ricciardi, Docente all’Università di Ginevra, uno dei massimi studiosi di storia dell’emigrazione italiana in Svizzera -. In pochi secondi le baracche e quanti sperarono di aver trovato in esse riparo furono sepolti sotto oltre 50 metri di ghiaccio, ghiaia e sassi. La fase dei soccorsi fu complessa ed emotivamente molto toccante perché furono gli stessi colleghi di lavoro ad effettuare, insieme all’esercito, il recupero delle salme, o meglio, di ciò che rimase delle stesse. (…)”.

 

“La gran parte di questi operai aveva lasciato la terra natale per far vivere le loro famiglie – annota Stéphane Marti, responsabile del “Progetto Mattmark 1965-2015”, curatore del catalogo della Mostra -. Questi si erano uniti ai lavoratori svizzeri e con essi avevano imposto a questo universo di ghiaccio, neve e roccia, un’opera titanica di cui non avrebbero mai visto la realizzazione. L’epopea delle grandi costruzioni di dighe deve essere raccontata al mondo moderno che ignora a quale prezzo e con quali sacrifici fu ottenuto il progresso. (…). Le immagini di questo libro richiamano la presenza di questi uomini dove giovani volti esprimono la giusta fierezza di un lavoro compiuto in un mondo dove la scala umana non ha più alcun valore, tra l’immensità della natura e la mostruosità delle macchine. Ma ciò che colpisce in tale contesto è la fraternità che salda tra loro questi ‘operai dell’impossibile’. Essi hanno condiviso un unico destino sul lavoro e nella vita, nella catastrofe e nella morte. La costruzione delle dighe, questa impresa inedita che riuscì a trasportare da una montagna all’altra tanta acqua per quanto il Rodano potesse portare in pianura, è una storia eroica. Il disastro va oltre le stesse parole. Gli enormi camion piegati come giocattoli, le ricerche patetiche e irrisorie nella notte, la confusione, solo i testimoni diretti ne possono parlare. Le parole sobrie d’un pioniere dell’aviazione alpina, Hermann Geiger, venuto con il suo elicottero tra tutte le forze di soccorso, militari, guide, polizia, ambulanze, operai, sottolineano ancora l’impotenza degli uomini di fronte alla smisurata  e raccapricciante catastrofe. Ma, più forte di questa calamità, c’è la dignità delle famiglie, delle spose e degli orfani, dei colleghi sopravvissuti. E’ la lezione di questa tragedia. (…). Il crollo del ghiacciaio – conclude Marti – diventa la causa di una rottura più profonda, tra il mondo antico fatto di tradizione e la modernità conquistatrice, tra la pianura dove si trova il denaro, il potere e l’opinione pubblica, e la montagna dove domina la realtà del lavoro, in altri termini, tra il paese d’emigrazione e il paese d’immigrazione”.

 

La massa di ghiaccio ricoprì come un mostruoso manto bianco uomini, storie, costruzioni, macchinari. Le vittime provenivano dalla provincia di Belluno e da altri centri veneti, da Friuli, Trentino, Emilia, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria (soprattutto da San Giovanni in Fiore), Sicilia e Sardegna. La sciagura avvenne circa un’ora prima della fine del turno diurno (il cantiere a Mattmark non si fermava mai, si lavorava 24 ore su 24 ininterrottamente per 6 giorni a settimana), se fosse accaduta verso l’ora di pranzo, i morti sarebbero stati 600 e la tragedia avrebbe assunto dimensioni abnormi più di quanto accadde. “Cercavamo di trovare compagni ancora in vita… una desolazione che non posso descrivere. Quando vedevo qualcuno in vita, era un miracolo…”, dice tra le lacrime Nereo Mazzari, operaio all’epoca impegnato nei lavori della diga, in una delle toccanti testimonianze del toccante filmato che ha aperto i lavori, elaborato sulla base di documentazione storica e di interviste a persone che hanno vissuto quei momenti direttamente sui luoghi della tragedia, realizzato con la collaborazione di Nicolas Brun.

 

Sull’eco di quelle parole e sull’applauso dolente di una gremita Aula “Spadolini”, a conferma che quella tragedia è ancora ‘viva’, si accendono le luci per dare inizio ad un pomeriggio molto denso di riflessioni. Ad aprire i lavori il senatore Claudio Micheloni, Presidente del Comitato per le Questioni degli Italiani all’Estero del Senato, assieme al Presidente della Commissione Esteri del Senato Pier Ferdinando Casini, la deputata Valentina Piras della Commissione Lavoro della Camera, il Presidente del Comites Vallese e del Comitato ad hoc per le celebrazioni, Domenico Mesiano, il responsabile esecutivo del Progetto Mattmark 2015, Stephane Marti, e Sandro Cattacin, ordinario di Sociologia dell’Università di Ginevra. Tra i presenti, nella Sala della Biblioteca, anche alcuni dei figli e parenti dei sopravvissuti, autorità locali e tutti i rappresentanti del mondo dell’Associazionismo degli italiani all’estero, nonché l’Ambasciatore svizzero a Roma, Giancarlo Kessler.

 

Come primo atto dei lavori, il senatore Micheloni ha letto ai presenti il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel messaggio, il Capo dello Stato ha sottolineato l’importanza di non dimenticare “una delle pagine più drammatiche della storia della nostra emigrazione”, aggiungendo che “oggi come ieri le nostre comunità italiane all’estero si sono integrate nei Paesi che le hanno accolte, contribuendo al loro sviluppo e mantenendo al tempo stesso un forte legame con l’Italia”. Il promotore dell’evento, sen. Micheloni, ha sottolineato che “tutte le celebrazioni di quest’anno sono finanziate da Istituzioni ed Enti etici Vallesani e non è un dettaglio di poco conto. Credo che il nostro dovere sia ricordare e onorare: ricordare è il dovere di cittadini e politici; la storia dell’emigrazione è piena di parole che non ci piacciono: discriminazione, xenofobia, stragi, le migrazioni forzate del dopoguerra. Ricordare non è onorare. Non basta ricordare per onorare la memoria delle vittime. Come farlo? Come ci comportiamo oggi nei confronti degli immigrati? Nel processo Mattmark furono rinviati a giudizio 17 imputati: tutti assolti in primo e secondo grado; le spese processuali furono a carico delle vittime. Una cosa che scandalizzò tutti. E allora mi chiedo: se voglio onorare le vittime, se considero ingiusta la ‘giustizia’ di allora, da senatore e da politico italiano che responsabilità ho dei 300 morti ieri nel Mediterraneo e di tutti gli altri? Abbiamo votato l’abbandono di ‘Mare Nostrum’; siamo pronti a riflettere su questo? Le cose sono complicate, certo, ma come rappresentante degli italiani all’estero devo onorare veramente le vittime, facendo in modo che noi non permettiamo oggi le tragedie degli immigrati”.

 

Secondo Valentina Paris il caso di Mattmark testimonia come “Sia stato l’uomo a sfidare la natura. L’ha fatto allora, continua a farlo oggi. Compito della politica è riflettere sulle grandi opere da fare, ma anche su come farle per prevenire le tragedie”. Pier Ferdinando Casini ha lodato l’iniziativa promossa dal senatore Micheloni, dichiarando che “Dobbiamo essergli grati anche nei termini politici perché, come ha detto la collega Paris, un Paese che non coltiva la Memoria fa torto a se stesso. Italia e Svizzera hanno intrecciato a lungo le loro vicende, ma è importante sottolineare come la storia dell’emigrazione sia anche la storia costitutiva di un Paese straordinario come la Svizzera che, senza gli italiani, probabilmente oggi sarebbe diverso”. Casini ha poi aggiunto: “E’ necessario parlare di integrazione. Di fronte alle ‘primavere arabe’ non possiamo pensare di costruire muri, ma neanche ad una politica di accoglienza che finirebbe per essere autolesionista. L’integrazione è la chiave”.

 

In una prospettiva socio-storica, il prof. Sandro Cattacin, ordinario di sociologia all’Università di Ginevra e responsabile della ricerca storico-sociale sulla Tragedia di Mattmark a cui hanno partecipato Rémi Baudoui, Toni Ricciardi, Irina Radu e Blaise Dupuis “la catastrofe di Mattmark segna indelebilmente la recente storia migratoria della Svizzera. Per la prima volta i migranti muoiono sul luogo di lavoro accanto a lavoratori svizzeri. Data la diversa provenienza delle 88 vittime, questo avvenimento, di portata nazionale, acquista una dimensione internazionale. Sia in Svizzera che in Europa dà inizio al dibattito sulle condizioni umane e sociali delle migrazioni economiche e sulle condizioni di lavoro dei migranti. Nella stessa Svizzera, al di là della polemica pubblica in merito agli errori di gestione commessi nel cantiere, le vittime di Mattmark acquistano lo status di esseri umani, meritevoli di compassione e di ristoro. Improvvisamente la Svizzera scopre i rischi quotidiani che la manodopera straniera corre per la costruzione di un Paese al passo con i tempi. (…). L’obiettivo di questa ricerca è stato duplice: innanzitutto, recuperare il ruolo che la catastrofe ha avuto nella storia della costruzione della Svizzera contemporanea e quindi del suo Stato sociale e, in secondo luogo, quello di restituire la memoria dei fatti, andando oltre la semplice cronaca degli avvenimenti. La prospettiva socio-storica – attraverso l’analisi approfondita di tutto il patrimonio archivistico sulla catastrofe, contestualizzandolo all’interno delle questioni relative alla migrazione, la sicurezza sul lavoro e alle politiche pubbliche – ha fornito la possibilità di ridare a questo tragico avvenimento un posto centrale nella recente storia della Svizzera”.

 

Riflessioni che si correlano alla prospettiva storica dello studioso Ricciardi, che in “Studi Emigrazione” CSER (n.196, 2014), “Mattmark: l’amara favola dimenticata”, annota: “L’amara favola, così titolò Dino Buzzati l’articolo di commento del ‘Corriere della Sera’ dell’1 settembre 1965 che raccontò la storia di quanto avvenne nel Cantone Vallese, alle pendici del ghiacciaio Allalin, il 30 agosto del 1965. La catastrofe di Mattmark ebbe la stessa risonanza, se non maggiore, di quanto accadde un decennio prima in Belgio a Marcinelle. Come a Charleroi, – dove per la prima volta la televisione e la radio seguirono in diretta i momenti più tragici dell’attesa e del lutto – si recarono sul posto oltre duecento giornalisti svizzeri e corrispondenti da tutto il mondo. Le immagini delle baracche sepolte sotto oltre 2 milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti fecero il giro del mondo. Per la Svizzera fu un vero e proprio shock. (…). La catastrofe suscitò scalpore in tutta Europa e rappresenta, ancora oggi, la più grave catastrofe della storia svizzera dell’edilizia. L’opinione pubblica elvetica fu molto scossa dalla tragedia, perché per la prima volta immigrati e svizzeri morirono l’uno a fianco all’altro. Accomunati tutti, senza alcuna differenza, dal dolore e dall’incomprensione per quanto fosse accaduto. (…). Tuttavia, l’elemento che più di ogni altro lascia interdetti – commenta lo storico – è la successiva rimozione, casuale e/o voluta, di questa immane tragedia. Paradossalmente, come Marcinelle e forse anche più della tragedia belga, nonostante le varie fasi (progettazione, catastrofe, inaugurazione, processo) abbiano avuto la giusta attenzione da parte dei media e dell’opinione pubblica, Mattmark è stata rimossa dalla memoria collettiva. L’oblìo nel quale è caduta questa tragica pagina dell’emigrazione italiana, e più in generale della recente storia svizzera, ci fa parlare di Mattmark come di una Marcinelle dimenticata.

 

Sulla necessità della Memoria, Domenico Mesiano, co-curatore della Mostra e Presidente del Comitato per le celebrazioni del 50° Anniversario di Mattmark, ha osservato che “con le celebrazioni in programma quest’anno, il Comitato intende scongiurare l’oblìo su fatti importanti, ma anche discutere, rendere fruibile un patrimonio di conoscenza che stimoli un dibattito sull’integrazione degli stranieri. Oggi, nel Vallese ci sono 18mila italiani, la metà ha la doppia cittadinanza. Anche per questo il Cantone ha scelto l’italianità come uno dei pilastri fondanti del suo patrimonio culturale. Dopo Roma, la Mostra verrà allestita a Sion e altre città del Vallese per arrivare a fine agosto del 2016 a Briga. Sempre all’interno delle scuole, e non a caso, perché dobbiamo far conoscere questa storia ai giovani e con loro parlare di integrazione”. Per il prof. Stéphane Marti, co-curatore della Mostra, responsabile del “Progetto Mattmark 2015” e Presidente della “Fondazione Fellini” “le energie messe per commemorare questa tragedia hanno come scopo quello di creare un memoriale moderno, di ispirazione romana: nel senso che con questo lavoro vogliamo trasmettere la verità alle nuove generazioni” perché “l’oblìo è una seconda morte. Raccontare la verità è un obbligo: abbiamo deciso di farlo attraverso queste foto e le testimonianze del doppio sacrificio delle vittime di allora, emigrare e morire per il progresso di un altro Paese”. Marti ha aggiunto che “la rappresentanza svizzera in Europa porterà questa Mostra nelle sedi dell’Unione europea come omaggio al lavoro italiano”.

 

Il Senatore Micheloni ha successivamente omaggiato il Presidente Domenico Mesiano con una targa in argento del Senato per il suo pluriennale impegno civile e sociale “che ha permesso di valorizzare al meglio il ruolo della comunità italiana in Vallese – ha dichiarato Micheloni – come testimonia quest’ultima iniziativa sulla tragedia di Mattmark”. Mattmark, la più grande tragedia dei lavoratori italiani in Svizzera che scandalizzò per le sentenze di assoluzione dei responsabili e che colpì l’opinione pubblica, indusse a un doveroso cambio di passo nei rapporti tra autoctoni e immigrati: superando la diffidenza verso lo ‘straniero’, considerato fino ad allora solo come forza-lavoro – che tuttavia contribuiva a importanti processi di modernizzazione del Paese – si innescarono nuovi e inclusivi atteggiamenti di integrazione. Dopo quella catastrofe, maturò un nuovo senso di comunità tra persone di diversa nazionalità e cultura, insieme ad ormai necessarie consapevolezze sia sulla sicurezza nei luoghi di lavoro che sul fondamentale ruolo della politica e delle scelte di governo. Perché così come ieri non fu la Montagna a seppellire lavoratori, oggi non è il Mare a inghiottire migranti, è stato il messaggio più volte emerso durante l’intenso pomeriggio commemorativo.

 

Sul cambio di ‘visione’ che la tragedia di Mattmark rappresentò, Toni Ricciardi puntualmente osserva che “l’effetto simbolico fu devastante: la Svizzera entrava così nell’immaginario collettivo come un Paese arrogante e crudele. Nel Parlamento italiano le voci critiche lessero la sentenza come una dimostrazione dei pregiudizi elvetici nei confronti della manodopera italiana, che contava più di mille morti nei cantieri elvetici negli anni Sessanta. A conferma dell’inadeguatezza delle misure di sicurezza sul lavoro, l’OIL (Ufficio Internazionale del Lavoro) dimostrò come i livelli di sicurezza, durante tutto il decennio 1960, furono i più bassi dell’intera area OCSE. Infine, nonostante il Governo italiano si dichiarasse pronto a farsi carico delle spese processuali tramite il fondo del consolato per la tutela giuridica costituito presso l’Ambasciata italiana a Berna, la giustizia vallese non prese in considerazione una remissione delle spese a favore delle famiglie delle vittime. Come per il Belgio dopo la sciagura di Marcinelle, le pressioni internazionali produssero effetti anche in Svizzera, con l’istituzione di una Commissione italo-svizzera per la prevenzione degli infortuni nell’edilizia. Inoltre, per la prima volta, le autorità elvetiche interloquirono direttamente con i sindacati italiani e il mondo associativo in emigrazione sui temi della sicurezza sul lavoro e delle assicurazioni sociali. In definitiva, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrutturali (di per sé molto rischiose) e per le attività a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri (…)”. Corsi e ricorsi storici.

 

L’attenta analisi di Ricciardi individua altri focus di riflessione socio-storica: “Anche per la collettività italiana in Svizzera la tragedia rappresentò un’occasione per interrogarsi sul senso della propria presenza in un Paese in cui, benché parte attiva e persino determinante del benessere, non si sentiva accettata e corresponsabile, anzi oggetto di discriminazione e ostilità. Questi furono gli anni della svolta e del cambio di prospettiva. Quanto abbia inciso Mattmark (la Marcinelle elvetica) nel rifiuto delle campagne referendarie del 1965, del 1970 e del 1974, non ci è dato sapere. Certamente, però, questa tragedia segnò un momento di cesura nell’arco della lunga storia della presenza italiana in Svizzera”.

 

Cinquant’anni dopo quella tragedia – sottolinea ancora, a conclusione dei lavori, Marti – il Cantone Vallese iscrive l’italianità all’interno del progetto per la salvaguardia del suo patrimonio immateriale depositato all’UNESCO. Cinquant’anni dopo quella tragedia, 18mila italiani vivono in Vallese e sono riconosciuti come facenti parte integrante della sua identità. Questa diga di Mattmark è dunque molto di più che una grande opera della montagna. E’ un monumento eloquente della nostra storia ed un simbolo che fa di questo luogo quello che già fu nell’antichità: un luogo di passaggio tra l’Italia e la Svizzera, un ponte che unisce e dà continuità alla storia dei nostri due Paesi”. Mattmark, un ‘fatto sociale totale’ che ci invita a guardarci più da vicino, nella duplice prospettiva passata e futura, sollecitando a tutte le latitudini la consapevolezza della complessità dell’essere migranti. Ieri come oggi.

 

 

 

Le foto di Mattmark sono gentile concessione della Médiathèque Valais (Philippe Schmid)       

 

 

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USA. I soliti italiani

Un vasto gruppo di italiani ed italoamericani della West Coast (California,

Colorado,Nevada,Arizona) ha chiesto a una nota agenzia statunitense di
fare una inchiesta presso gli americani che vivono in America. Centodieci
mila hanno risposto alledomande degli inquirenti.Per cominciare,quasi mezzo milione di persone hanno dichiarato di conoscere la situazione dei due maro’ italiani fermati in India.Ma quasi l’ottanta per cento ha preferito non rispondere
all’inchiesta dicendo soltanto: il problema e’ italiano. I rimanenti’ centodiecimila hanno offerto pensieri diversi.
Uno dei piu’ importanti: sembra proprio che gli italiani di cui sentiamo parlare spesso come “forti,decisi e sicuri”,in questa occasione sono “deboli,indecisi e
insicuri”.Sono in molti a dire c he “con i soldi si cava un ragno dal buco”,il
governo italiano dovrebbe contattare )o fare contattare) i gruppi indiani che fanno tutto,ma proprio tutto,per il denaro. Mettere uno dei due maro” (il
secondo come si sa e
‘ in Italia per cure mediche) su un aereo privato per portarlo in Europa non e’
poi tanto difficile.Lo farebbero gli americani,gli inglesi,gli israeliani e tante
altre nazioni del mondo.Basta investire denaro,
Dagli americani i che una volta o due hanno visitato l’Italia, e’ giunta una
accusa diretta”popolo fifone,voltafaccia,che ha a cura i suoi cittadini come
ha cura degli asini e delle pecore”.Infine un gruppetto del Nevada:”mafia
per vendette personali familiari ma una mafia che senta il cuore battere per l’Italia e gli italiani…scordatevene”.
Benny Manocchia da  Los Angeles



USA. Caro Direttore, che cosa succede nel gruppo di persone che dovrebbero tenere massima cura dei suoi cirradini? Mi riferisco,ovviamente,ai politici

 

che occupano gli alti scranni.In America la gente si chiede:ma gli italiani sono cosi’ fifoni? La gente che odia quella nazione entra in Italia da tutte le parti,come se la Penisola fosse una macchinetta per trotare il formaggio…
Avvertimenti arrivano da tante parti del mondo ma nella nostra Patria gira
il ritornello:prendere la situazione usando politica,niente armi ne’ battaglie ne’ crociate.Da una parte…Pero’,per provare appieno l’ignoranza di tanti a casa nostra,dall’altra parte dicono:teniamoci pronti,armiamoci,attenti con gli occhi bene aperti.Un controsenso che anche i bambini posso individuare.
Intanto hanno scritto che alcuni libici a Roma sono ricercati perche’ potrebbero dare l’avvio a  una carneficina. Insomma,caro Direttore e anche lettori del nostro giornale:perche’ non ci svegliamo e cerchiamo di fare qualcosa? Il sottoscritto,come sai,insieme alla sua famiglai e’ stato vittima – molti anni fa – di scontro armato,o forse dovrei dire di attacco armato.
Posso assicurarvi che lascia un segno per t utta la vita. Caro Walter,il nostor Paese mi preoccupa semrpe di piu’.
Gradirei un tuo parere personale in merito.
Buon lavoro.
Benny Manocchia



USA. Hai voglia a dire agli americani che il Valentine’s Day di oggi e’ celebrato in onore di un martire cristiano del quinto secolo

durante

la festivita’ romana Lupercalia del Dio della Fertilita’. Niente da
fare.Il giorno di San Valentino e’ di origine statunitense (che Dio li perdoni).
Un giorno per donare alle donne fiori,cioccolatini,cartoline piene di belle parole e…
anche assegni.
Come sempre,insomma,il dollaro sale in testa a qualsiasi manifestazione
culturale,letteraria,famigliare.E’ un modo americano per mettere in
evidenza i loro sentimenti,il loro amore per una donna,una ragazza,una fidanzata,una moglie,madre,nonna eccetera eccetera. Piano piano (come per la chewing e la coca cola) mezzo mondo si e’ unito alle abitudini della repubblica a stelle a strisce e il martire cristiano e’ diventato,negli anni,
il tenente delle vendite del 14 febbraio.
Guai a non mostrare la sua presenza in maniera efficace nel giorno di San Valentino:fidanzate e mogli renderebbero il momento  un temporale pieno di lampi e tuoni…Gli uomini,i fidanzati i mariti eccetera,si fanno in quattro per rispettare questo giorno.Il primo compito di una brava segretaria sara’ di ricordare al “boss” che fra qualche giorno arriva il Valentine’s day,per cui..’ Oggi,piu’ dei fiori e dei cioccolatini,la donna preferisce l’assegno
E’ cosi’. Credetemi.
Benny Manocchia



OGGI, 12 FEBBRAIO, MORIVA IMMANUEL KANT. Il messaggio dall’Abruzzo del grande filosofo tedesco di Mario Setta

 

 

Chi visita Pescocostanzo, uno dei più bei paesi d’Abruzzo, resta meravigliato nel vedere scritto sulla pagina aperta d’un libro, all’ingresso del paese nel monumento a don Ottavio Colecchi, le parole in latino espresse da Kant: “Tu primus Me in Italiam introduxisti” (Tu per primo mi hai introdotto in Italia).
Come se il grande filosofo tedesco Immanuel Kant (Könisberg, 22 aprile 1724 – 12 febbraio 1804) volesse esprimere gratitudine al traduttore e al divulgatore italiano delle sue opere.

 

Ottavio Colecchi nasce a Pescocostanzo il 18 settembre 1773. Entra nell’Ordine dei Domenicani, diventa insegnante di matematica e di filosofia. Nel 1817-18, in Russia, è precettore dei figli dello zar. Impara il tedesco, soggiornando in Germania e leggendo le opere di Kant, nel testo originale.
La sensibilità e la formazione culturale di don Ottavio Colecchi sono particolarmente vicine alla figura e al pensiero di Kant, che proprio verso la fine del secolo XVIII, trovano completa maturazione.
Nel 1781 era uscita la “Critica della Ragion Pura”, l’opera con la quale Kant intendeva sottoporre la ragione umana ad un processo, in cui se ne stabilivano i limiti, arrivando alla conclusione che la metafisica non può essere considerata alla pari di una scienza, come la matematica e la fisica. E’ solo un’esigenza, un’aspirazione che troverà la legittimazione nella “Critica della Ragion Pratica”.

 

Anche don Colecchi affronterà il problema della metafisica, pubblicando un’opera sull’argomento. E come Kant, in ambiente protestante, dovette affrontare difficoltà personali per conservare il suo impiego all’Università di Koenigsberg, don Colecchi, in ambiente cattolico, dovette subire dall’istituzione ecclesiastica la punizione canonica della “sospensione a divinis”. Moriva a Napoli il 23 agosto 1847.
Kant si era ispirato a Newton e a Rousseau, tanto che sulla sua tomba sono scritte le stesse parole che concludono la “Critica della Ragion Pratica”: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”. Ed è innegabile che la storia del pensiero occidentale, dal ‘700 ad oggi, sia segnata dal “criticismo kantiano”.
Karl Popper ritiene che la vita di Kant sia una “emancipazione attraverso la conoscenza”. Sforzo che Kant propone a tutti, anche se spesso gli uomini preferiscono restare in stato di minorità: «Molti uomini – scrive nella famosa risposta all’interrogativo: “Che cos’è l’illuminismo?” – rimangono volentieri minorenni per l’intera vita; per questo riesce tanto facile agli altri ergersi a loro tutori. E’ tanto comodo essere minorenni! […] Solo pochi sono riusciti, con l’educazione del proprio spirito, a liberarsi dalla minorità e a camminare con passo sicuro.»
Ralf Dahrendorf, uno dei maggiori osservatori critici della società moderna, ritiene che il progetto politico di Kant sia ancora di grande attualità. In particolare, Dahrendorf si riferisce ad uno scritto del 1784, dal titolo “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, in cui il filosofo tedesco, prima ancora dell’opuscolo “Per la pace perpetua”, pubblicato nel 1795, espone le sue idee sul cosmopolitismo. “Per chi come me – scrive Dahrendorf – segue Kant e Popper piuttosto che Hegel o Marx, né l’utopia di una qualsivoglia Arcadia né l’incubo dell’autodistruzione dell’umanità è un’utile guida del nostro agire”.

Al di là, quindi, delle utopie ottimistiche (Platone, Moro, Marx) o pessimistiche (Orwell, Huxley), si potrebbe cercare, realisticamente, di raggiungere qualche obiettivo positivo per il benessere dell’umanità. Obiettivo che, secondo Kant, deve consistere, innanzitutto, nella costruzione di una società cosmopolitica, fondata su una Costituzione universale.
Mai, come in questo periodo di grave crisi socio-economico-politica, sembra così impellente e improcrastinabile il bisogno di una Costituzione Universale. La terra è diventata finalmente la “casa comune”, ma la globalizzazione non può ridursi alla compravendita di uomini e di merci.
E’ urgente che i “potenti”, le grandi istituzioni e le menti più eccelse a livello mondiale si ritrovino uniti per realizzare il Progetto che Kant prefigura come “consolante prospettiva per il futuro… in cui il genere umano si sollevi proprio a quello stato in cui tutti i germi che la natura ha posto in esso siano pienamente sviluppati e la sua destinazione qui sulla Terra possa essere soddisfatta.”
Dopo oltre due secoli, in un momento in cui la parola “Futuro” viene gridata da ogni parte, col rischio della retorica o dell’inflazione, il messaggio di speranza di Kant non è svanito nel nulla. Resta il più ambizioso e più grande Progetto da realizzare. Un appello e un monito per gli uomini di oggi e di domani.

marset1@katamail.com

 

 

 

Mario Setta è nato nel 1936 a Bussi sul Tirino (Pescara). Ha studiato alla Pontificia Università Gregoriana conseguendo la licenza in Scienze Sociali. Si è laureato all’Università di Urbino in Sociologia e Filosofia. Già Parroco a Badia di Sulmona, “sospeso a divinis” per motivi ideologici, ha insegnato Storia e Filosofia al Liceo Scientifico di Sulmona, curando la pubblicazione dei volumi “E si divisero il pane che non c’era”, “Il sentiero della libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi” ed altre memorie degli ex-prigionieri di guerra alleati del Campo 78. Ha inoltre pubblicato “Il volto scoperto” (Edizioni Qualevita, 2011) e curato con Maria Rosaria La Morgia la pubblicazione del volume “Terra di libertà” (Edizioni Tracce – Fondazione Pescarabruzzo, 2014). Cofondatore e storico dell’Associazione “Il sentiero della Libertà/Freedom” Trail”, è stato nominato dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi Cavaliere della Repubblica Italiana.

 

Annotazione biografica a cura di Goffredo Palmerini

 




USA. “La mia Giulianova…quanto mi manchi” di Benny Manocchia

Ecco,a sinistra,il cimitero.”Qui nei secoli posano affetti,vanita’,speranze.”

Tre parole che racchiudono una vita. Vai avanti e noti l’ospedale,quello nuovo,io ero solito andare all’ospedale dello Splendore,quando tornai a casa dall’ospedale di Mosciano (dopo il bombardamento) e dovevo farmi curare ancora un po’.

(C) Foto Walter De Berardinis

Non ci vuole molto  per entrare nell’immenso spazio (cielo,terra,mare
di fronte_)della balaustra,come la definivamo noi,comunque belvedere.Ed e’ proprio un gran bel vedere.Ci portavo subito  gli amici americani che avevo
invitato a Giglie.Sguardi di meraviglia,lunghe sorsate d’aria che riempiono i polmoni e domande per conoscere la zona:Quello? e’
 il nostro porto,quando i tedeschi scapparono da qui ficcarono nel suo corpo massiccio diecine di bombe che scoppiavano ogni minuto.
Entri nel Corso Garibaldi (si chiama ancora cosi’?). Una “vena” piccola,che appare ancora piu’ piccola e stretta dopo anni di grattacieli a Manhattan.
A destra e a sinistra gente che ti riconosce e saluta.

(C) Foto Walter De Berardinis

A destra c’e’ il caffe’ di Giuggiu’,dove noi,ragazzi,andavamo ad acquistare due sigarette per fumarle di nascosto e dopo qualche anno,ci fermavamo per giocare a boccette.
Ci sentivamo uomini maturi,ma gli anziani del paese spesso ci ricordavano di andare a casa e studiare.Ah,la farmacia (dio non ricordo il nome) e di fronte Lele’con il miglior gelato della zona. Di colpo,a sinistra,una lunga fila di alberi (dove gli “alleati” cercavano di nascondere i loro carri armati.).Strada spaziosa che portava ai Frati.A pasqua adavamo in chiesa e poi,un gruppo di noi furbetti,gustavamo il buonissimo vino di Padre Casimiro. Avevamo trascorso,lentamente,
l’arteria primncipale di questo paese meraviglioso,umano e “cattivo” al tempo stesso (soprattutto nelle giornate in cui la nostra squadra perdeva).
Poi salivamo una strada in salita ed ecco il Torrione dove davamo calci (sentendoci Piola e Biavati) a una palla fatta con stracci.Se scivolavi e cadevi tornavi a casa con la gamba che sanguinava.Le donne ammiravano il nostro gioco “stupendo” e le ragazze ridevano prendendoci in giro.Brave figliole,inimitabili,pronte ad aiutarti a scuola,a sentire le chiacchiere di noi ragazzotti e a spartire con noi la stozza accuratamente preparata da mamma e nonna.
Dio quanto sento la mancanza…Gustate voi,allora,questo fiore meraviglioso d’Abruzzo. E non parlatene mai male. Perche’ vi pentirete
se la vita vi costringera’ a vivere altrove..
(C) Brevi ricordi di Benny Manocchia emigrato negli U.S.A.