Lingua e Migrazioni. Le parole definiscono la realtà? Annotazioni sul Convegno “Comunicare l’Immigrazione”

L’APPROFONDIMENTO

 

 

Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale – La Sapienza Università di Roma

di Tiziana Grassi

 

Ieri. Quando eravamo noi italiani, tra Otto e Novecento, ad emigrare oltreconfine. In Francia ci chiamavano babis (rospi), in America Latina eravamo burros (asini) o polpettos, per richiamare la carne povera usata dai nostri connazionali. Negli Stati Uniti eravamo mangiamaccaroni o greaseball, ‘palla di grasso’, riferito alla scarsa igiene, ed era frequente essere associati al termine scabs, ‘crumiri’, in quanto noi italiani, collocati agli ultimi posti nella scala sociale, ci accontentavamo di qualsiasi lavoro a compensi modesti. Corsi e ricorsi storici. Nel gergo urbano di New York, fuggedaboutit, deformazione di forget about, ‘lascia stare, non fa niente’, ironizzava sull’accento e la parlata italo-americana, in Germania ci definivano ithaker (da Itaca, ovvero eterni vagabondi senza patria), nella Svizzera tedescofona eravamo etichettati come bolander-schlugger, ossia ‘inghiotti polenta’, prima che la polenta fosse soppiantata, anche sul piano simbolico, dagli spaghetti. Nel solco degli stereotipi, nei Paesi tedescofoni diventammo spaghettifresser, ossia ‘sbrana spagetti’ per ridicolizzare la presunta voracità dell’italiano affamato dinnanzi a un altro piatto-simbolo nostrano, in Brasile eravamo stigmatizzati come carcamano con il significato di ‘imbroglione’, riferendosi a chi premeva con la mano per alterare il peso della bilancia e vendere a prezzo più caro il prodotto. Un vasto panorama di termini dispregiativi, nomignoli gergali, appellativi e soprannomi con cui nel passato gli italiani sono stati designati all’estero e che esprimono il vasto bagaglio di pregiudizi che hanno accompagnato il nostro migrare nei diversi Paesi di ‘accoglienza’. Un repertorio lessicale desolatamente ampio che fa meditare su come lo stare a casa d’altri fosse – e continua ad essere – una sfida difficile. “La lingua è, in fondo, soprattutto un luogo. Una casa da condividere o una frontiera da attraversare, un ghetto in cui rinchiudersi o un altrove in cui limitarsi a transitare – annotava lo scrittore portoghese Vergìlio Ferreira -. Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire. Si pensi, ad esempio, ai suoni e alle parole in cui abita la nostra identità collettiva, veri e propri luoghi dove si radica il sentimento di appartenenza a quel territorio dell’anima che chiamiamo ‘patria’. Oppure alle barriere, spesso invisibili, che quegli stessi suoni e quelle stesse parole innalzano all’interno – oltre che all’esterno – della nostra ecumene linguistica, trasformando la distanza e la differenza in esclusione. Comunque la si intenda, la lingua è essenzialmente una questione di spazio: fisico, storico, relazionale. Non solo portatore di una visione del mondo, ma anche oggetto dello sguardo sul mondo”.

 

Oggi. Quando dai nostri giacigli caldi, un calore che offusca la Memoria quale tracciante storico-identitario, siamo diventati Paese di ‘accoglienza’. Dimentichi che un tempo, le traversate per mare, le facevamo noi. Clandestini, extracomunitari, vu cumprà, irregolari, stranieri, immigrati, migranti, viaggi della speranza, respingimenti. L’alfabeto delle migrazioni – nell’essere specchio e riflesso del proprio tempo – con il suo controverso repertorio linguistico si inscrive nella profonda crisi di valori condivisi, in un passaggio epocale che vive uno dei suoi più stridenti paradossi: da una parte la globalizzazione e gli orizzonti transculturali a fronte di accaniti e tragici nazionalismi e localismi. L’Uomo e i confini, non solo geografici, sono diventati categorie in contrapposizione sul crinale di una straniante liquefazione di riferimenti umanistici e valoriali, destituiti di senso nell’atomizzazione dei legami sociali. Demolita la concezione solidaristica dell’esistenza – confermata dalle quotidiane stragi di migranti al largo delle nostre coste – lo scenario migratorio è intrinsecamente connesso alla sua rappresentazione mediatica, agli aspetti linguistici della narrazione, consapevoli che il rapporto tra autoctoni e stranieri si costruisce anche attraverso l’uso – corretto o improprio – delle parole con cui definiamo la realtà attorno e dentro di noi, con cui individuiamo/etichettiamo/confiniamo i cittadini immigrati. Come il termine “extracomunitario”, spesso attribuito ad individui provenienti da Stati oggi appartenenti all’Unione europea, che evidenzia tutta la scarsa consapevolezza geografica di chi lo utilizza.

 

Ma nella costruzione della coscienza individuale e collettiva, nell’interpretazione e gestione della complessità, che ruolo hanno le parole, le definizioni, se l’utilizzo di un vocabolo, di per sé neutro, può assumere significati connotativi, spregiativi e razzisti? Quanto incide, nella rappresentazione mediatica delle migrazioni, la potenza seduttiva del sensazionalismo? Su questi temi nevralgici – nella compagine di uno scenario geopolitico particolarmente doloroso, in pieno dibattito su libertà di espressione e di parola verso conoscenza e rispetto dell’Altro, o sul termine ‘orango’ che, attribuito ad una donna italoafricana, qualcuno recentemente avrebbe sostenuto far “parte del linguaggio politico” – nei giorni scorsi si è svolto il Convegno “Comunicare l’Immigrazione”, presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (Coris) dell’Università “La Sapienza” di Roma diretto dal prof. Mario Morcellini. Un momento necessario di riflessione critica e di forte spessore scientifico e culturale, per sollecitare nuove consapevolezze sulla possibile ambiguità del linguaggio nella trattazione delle migrazioni e il verosimile uso manipolatorio delle parole. Ma anche un’occasione per focalizzare le enormi potenzialità che possono scaturire da una lettura profonda dei termini e delle trattazioni mediatiche legati a dinamiche e processi. Ricercatori, giornalisti ed esperti si sono confrontati sull’argomento convinti che, senza una dialettica tra prospettive diverse, non sia possibile penetrare in un fenomeno estremamente denso di implicazioni e conseguenze sulla società. Tra le finalità del Workshop, contribuire alla definizione di un quadro sugli stili di comunicazione e informazione dominanti, tematizzare la complessità del rapporto esistente tra linguaggio e migrazioni e analizzare la narrazione delle migrazioni a partire dai dati sulla rappresentazione mediale e loro relativa percezione sociale per avviare una riflessione pragmatica e positiva sui cambiamenti in atto.

 

All’interno della giornata di lavori – a cui hanno partecipato Mario Morcellini, Fabrizio Melorio dell’Istituto Sturzo, Roberto Natale, portavoce della Presidente della Camera dei Deputati, Giovanni Maria Bellu, presidente dell’Associazione ‘Carta di Roma’, Simone Andreotti, presidente di In Migrazione Onlus, Marco Bruno, ricercatore in Sociologia dei Processi culturali e comunicativi, Valeria Lai, dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione alla Sapienza – è stato presentato il nuovo portale per cittadini stranieri ‘Migrando.it’, realizzato dal Coris in collaborazione con l’Istituto “Luigi Sturzo”, In Migrazione Onlus, Provincia di Roma e Be Free Cooperativa. Una piattaforma digitale – finanziata dal FEI-Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini di Paesi Terzi – che rientra nelle azioni previste dal progetto “Rights and responsibilities 2.0”. Fabrizio Melorio ha aperto i lavori presentando il progetto: “Un portale che ha l’obiettivo di coinvolgere le associazioni straniere e i mediatori culturali attraverso uno sportello virtuale, una piattaforma web multidisciplinare e multilingua (in inglese, arabo, hindi, cinese e italiano) quale strumento efficace per raggiungere i cittadini di Paesi Terzi presenti in Italia, con particolare riferimento a quelli che vivono una situazione d’isolamento culturale e un mancato accesso all’informazione e ai servizi. Un progetto che intende sostenere e migliorare la percezione che spesso si ha delle associazioni straniere: da elemento di chiusura a motore d’inclusione nella società d’accoglienza. Perché la comunicazione – ha concluso Melorio – è un caposaldo per lavorare attivamente all’integrazione dei migranti”.

 

Ha poi preso la parola il prof. Mario Morcellini, che ha subito inquadrato il tema dei lavori, riflettendo sull’importanza della dimensione comunicativa, sottolineando che “i migranti sono un aspetto decisivo del welfare e del Pil nazionale (secondo dati aggiornati ai primi mesi del 2014, la ricchezza complessiva creata dal lavoro degli oltre 2,4 milioni di ‘nuovi italiani’ – tra piccoli imprenditori, domestici e operai – è pari all’8,8% del Pil nazionale, con un ‘tesoro’ di 123 miliardi di euro immesso ogni anno nel sistema circolatorio del Paese, ndr), eppure sono due elementi in secondo piano rispetto agli aspetti della cronaca nera”. Sulla questione migratoria, spesso affrontata dai media in un’ottica emergenziale e sensazionalistica, attraverso semplificazioni quotidianamente trasmesse all’opinione pubblica, Morcellini ha proseguito rilevando l’ “assurda competizione fra poveri, dove si mette in contrapposizione il dettaglio sui soldi dati ai migranti in confronto alle marginalità dei residenti, costruendo così una miscela sociale esplosiva. L’immagine della realtà viene spesso costruita senza approfondimento, senza confronto, senza argomentare: è anche così che si forma il populismo. Noi ci impegniamo da anni nella ricerca su questi temi, collaborando con tantissimi enti, associazioni, Ordine dei Giornalisti, Federazione della stampa, Ministeri, Rai, ecc. Abbiamo dato esempio di un’Università che si rende conto di non poter lavorare da sola nel dover offrire un contributo sulle tematiche dei migranti, e abbiamo dato prova di grande apertura. Purtroppo però si producono incrementi troppo lenti in termini di cambiamento. Ma fondamentale è la scoperta del potere della rappresentazione: il tarlo della modernità e il punto critico dei media, anche nel fornire esperienza narrata, è il potere che ha rispetto alla realtà vera. Se non correggeremo la distanza tra mondo rappresentato e mondo reale, non riusciremo ad intervenire sulla cattiva rappresentazione delle migrazioni”.

 

Collegandosi al pensiero dell’insigne sociologo, Simone Andreotti ha condiviso l’importanza della comunicazione, “elemento imprescindibile quando si parla di integrazione. I migranti fanno tanto per il nostro Paese – ha sottolineato il Presidente della Onlus In Migrazione – lavorando, vivendo, frequentando le nostre scuole. L’inclusione sociale certamente si fa con le norme e i servizi, ma se questi poi non vengono poi comunicati, è tutto inutile. Per questo diventano centrali sia la rappresentazione dell’immigrazione sia la comunicazione rivolta ai migranti. Diventa importantissimo spiegare loro cosa possono fare, di quali servizi possono usufruire, e non con semplici traduzioni di un testo dall’italiano all’arabo, ma con un sistematico lavoro di mediazione culturale. Il lavoro sulla comunicazione per i migranti e quello di ricerca che svolge da anni il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza sono fondamentali se non vogliamo creare sacche di esclusione”.

 

Emigranti italiani sul ponte di terza classe durante una traversata transoceanica, primi Novecento

Immigrati in viaggio verso le coste italiane, anni Novanta

 

Rispetto ai principali risultati delle ricerche condotte dal Dipartimento della “Sapienza”, Valeria Lai ha descritto l’immagine prevalente e stereotipizzata dell’immigrazione nei media italiani: “Oltre ai rapporti di ricerca curati per l’Associazione “Carta di Roma” e quelli sviluppati all’interno del Progetto Mister Media, il Dipartimento si caratterizza per un gran numero di collaborazioni con enti diversi. La stampa e la televisione – ha osservato la ricercatrice – sono spesso attente ad affrontare il tema quando diventa notizia di cronaca nera, utilizzando il linguaggio dell’emergenza, alternandolo poi a quello del ‘pericolo di invasione’ quando si deve raccontare la tragedia dei tanti morti in mare lungo le coste italiane. In pochi casi, e spesso solo sullo sfondo, è possibile leggere un racconto diverso: quello riguardante, ad esempio, le naturali interazioni di lavoro o di vicinato tra persone di culture e provenienze diverse in Italia. Perché nel nostro Paese è così difficile raccontare i diversi volti dell’immigrazione? La narrazione è caratterizzata da uso indifferenziato dei termini, diffusione di stereotipi e pregiudizi negativi, eccessiva semplificazione, sensazionalismo e spettacolarizzazione, superficialità nella tematizzazione, ovvero immigrazione/sicurezza, immigrazione/criminalità, immigrazione/cronaca nera. Troppo spesso l’immigrazione viene raccontata come problema da risolvere, con poco spazio all’approfondimento. Si assiste alla tendenza di diffusione di informazioni potenzialmente lesive della dignità delle persone coinvolte direttamente, o meno, in fatti di cronaca. I flussi migratori sono raccontati dai media quasi esclusivamente attraverso il fenomeno degli sbarchi. L’enfasi sul momento dell’arrivo relega in un cono d’ombra la storia dell’immigrato e il suo percorso migratorio, è così che i protagonisti sono di volta in volta immigrati, migranti, clandestini, profughi e, raramente, richiedenti asilo e rifugiati. Facilmente dal tema dell’arrivo si passa a quello dell’ ‘invasione’. Tra le novità e gli aspetti positivi della rappresentazione – ha concluso Lai – possiamo segnalare che nel 2012 hanno trovato spazio nei media italiani le storie dei figli di immigrati attraverso i racconti di persone o associazioni (“L’Italia sono anch’io”). I servizi Rai e Mediaset si sono concentrati sulla biografia dei ragazzi, che legittima le loro richieste e li accomuna con i coetanei autoctoni: figli di immigrati come protagonisti delle notizie che raccontano le loro multiple appartenenze e la loro esperienza di vita in Italia. Un racconto diverso è dunque possibile”.

 

Il potere delle parole, l’uso del linguaggio, il (buon) giornalismo. Roberto Natale ha affrontato la questione nodale dalla sua prospettiva: “L’immigrazione è il tema della comunicazione ed è il tema della politica italiana ed europea. I raggruppamenti populisti si stanno avvicinando tra loro sul tema dell’immigrazione. Altro che ‘accademia’!, questa è la sede più rilevante nella quale si affrontano con professionalità le questioni decisive. Ci sono delle responsabilità, come quelle di coloro che, nel nostro Paese, maneggiano in modo populistico i temi dell’immigrazione, alimentando le distanze. Alle riflessioni del prof. Morcellini e a quelle di Valeria Lai aggiungo l’importanza e l’urgenza delle cose. O affrontiamo con la dovuta urgenza questo tema, gli accademici da parte loro, i buoni giornalisti dall’altra, o faremo l’azione inutile di svuotare il mare con il secchiello. E aggiungerei l’importanza di dare spazio alle belle notizie, perché solo con la cronaca nera – credendo che sia l’unico modo per fare audience – non si aiuta a fare un servizio al pubblico”.

 

Una prospettiva che ha richiamato gli imprescindibili aspetti etici e deontologici del fare comunicazione. Giovanni Maria Bellu, a questo proposito, ha ricordato il fondamentale ruolo della ‘Carta di Roma’ (approvata il 12 giugno 2008) in questi anni, nata per dare attuazione al Protocollo deontologico che pone l’attenzione sulla necessità di sostenere un’informazione responsabile che prenda le distanze da comportamenti non corretti e superficiali e dalla diffusione di informazioni alterate o generalizzate, quando non imprecise. Nello specifico, tale strumento chiede al giornalismo italiano di trattare gli argomenti con la massima accortezza, soprattutto per quanto riguarda l’impiego di termini corretti dal punto di vista giuridico, allegando al documento un fondamentale glossario che riporta le specifiche di ogni status, rifugiato, richiedente asilo, migrante irregolare ecc. Una Carta che richiama sostanzialmente i dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista, con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per l’appartenenza etnica, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche.

 

Marco Bruno, da anni impegnato nello studio del rapporto mass media-immigrazione, ha ricordato che “nel lavoro Fuoriluogo. L’immigrazione e i media italiani (M.Binotto, Pellegrini ed., Cosenza, 2003) c’era un paragrafo dal titolo ‘Mai più Novi Ligure’ (il delitto di Novi Ligure fu un caso di cronaca nera particolarmente noto, avvenuto il 21 febbraio 2001. Erika De Nardo, che all’epoca aveva 16 anni, con il concorso dell’allora fidanzato Mauro “Omar” Favaro, di 17 anni, uccise premeditatamente a colpi di coltello da cucina la madre Susanna “Susy” Cassini e il fratello undicenne Gianluca De Nardo. Erika De Nardo narrò, con vistosi errori e contraddizioni, di una rapina ad opera di extracomunitari finita in tragedia, fornendo una descrizione di due malviventi che a suo dire ne sarebbero stati responsabili. Due extracomunitari: “il colpevole perfetto” – secondo i più consunti stereotipi – generò manifestazioni di protesta contro gli immigrati in tutta Italia, Novi Ligure compresa, ndr), a conferma che negli anni, come puntualmente osservava Morcellini, non si assiste a grandi cambiamenti nel tipo di narrazione, se vediamo la frequente esposizione di casi di cronaca nera spesso collegati a cittadini immigrati. Tutto ciò si ritrova nei grandi come nei piccoli casi mediatici, aizzando e lavorando sugli istinti nei confronti dell’Altro. A volte avvengono dei ritorni all’indietro: erano anni che non mi occupavo delle questioni dell’Islam, eppure oggi si ritorna a parlare di <guerra santa>. Il potere della rappresentazione rispetto ai fatti è fortissimo. C’è ancora tanto da fare – ha osservato lo studioso – probabilmente si deve tornare a riflettere sulla qualità del giornalismo, dobbiamo segnalare la non accuratezza dei termini. E lavorare molto sulla formazione”.

 

Il ruolo centrale dell’informazione, la necessità di un giornalismo di qualità, di un uso corretto delle parole e delle definizioni/denominazioni, sono spesso evidenziati negli studi e nelle ricerche di Flavia Cristaldi, docente di Geografia umana e di Geografia delle migrazioni all’Università di Roma “La Sapienza”: già nel convegno dal titolo “Le parole per dirlo. Migrazioni, Comunicazione e Territorio”, che la studiosa organizzò nel 2008 (Le parole per dirlo. Migrazioni, Comunicazione e Territorio, Atti del Convegno a cura di Cristaldi F., Castagnoli D., Morlacchi ed., Perugia, 2012), suggeriva ai giornalisti di inserire nei loro articoli le carte geografiche “per localizzare anche visivamente gli eventi narrati e sviluppare una consapevolezza spaziale del Pianeta Terra e dei suoi abitanti”. La geografa, estendendo e storicizzando il campo delle riflessioni sul tema migratorio, osservava che “a volte basta l’uso di un termine per etichettare una persona e rinunciare a conoscerla nella sua individualità e specificità. Nei giornali, nei programmi televisivi, ma anche in alcuni articoli scientifici, il linguaggio utilizzato per indicare i migranti rientra nello stereotipo e finisce per alimentare la mappa della paura piuttosto che la conoscenza reale del fenomeno. Le migrazioni hanno da sempre caratterizzato la specie umana, ne hanno influenzato l’evoluzione e la geografia, ed oggi rappresentano uno degli elementi costituenti dell’essere sul pianeta, delle fughe dagli eventi catastrofici naturali, così come dalle guerre e dalle carestie, ma anche l’elemento di riscatto per vite compresse in società che non offrono opportunità lavorative o sociali. Le motivazioni che hanno spinto e spingono gli essere umani allo spostamento, alla migrazione in una terra diversa, sono da sempre molteplici e poliedriche. Nei secoli singoli individui, famiglie o interi popoli si sono spostati, hanno attraversato i confini per creare nuovi territori che portano ancora i loro segni nella storia e nel paesaggio. (…). Il pericolo di una confusione terminologica, di un etichettamento e di una stereotipizzazione del fenomeno migratorio e degli individui coinvolti viene scientificamente studiato da un gruppo di ricerca del prof. Mario Morcellini: (…) l’analisi dimostra come gli organi d’informazione facciano più spesso disinformazione lanciando allarmi che alimentano la paura e rafforzano gli stereotipi negativi (…). La presenza multietnica è ormai un elemento strutturale del Sistema Italia e va quindi riconosciuta, studiata e governata affinché nel prossimo futuro, attraverso un processo di educazione e d’istruzione, tale presenza possa essere trasformata in interculturale”.

 

In un’ottica metacomunicativa, il ruolo della parola e dei registri linguistici nelle interazioni umane, la funzione performativa e sociale del linguaggio hanno, oggi, fondante cittadinanza nella complessificazione della realtà, implicando e sollecitandone l’intrinseco senso di responsabilità. Se l’informazione è ‘avariata’ e fuorviante – tra i molti focus di riflessione della giornata – se è solo denuncia di ‘nera’ senza il substrato di una prospettiva ermeneutica, se è al servizio del populismo e non chiarisce informazioni inesatte, concorre a creare uno spazio pubblico esacerbato seminando stille tossiche di invidia sociale che serpeggia sotto la crisi economica che ha accartocciato il nostro Paese in un mantra dell’austerity senza visione. Se i giornalisti, invece che rivendicare i valori migliori della nostra democrazia e resistere alle tentazioni demagogiche, scelgono di cavalcare un certo malessere xenofobo con una insistente informazione di tipo emergenziale, da salotto televisivo, a cui non seguono analisi e approfondimenti contestualizzanti, rischiano di rendere confusi i diversi piani della realtà, alimentando rabbia ed esasperazione. Un giornalismo di approccio antropocentrico sembrerebbe dunque l’antidoto al rischio della non-informazione, o peggio, della disinformazione, come si è verificato per la narrazione della violenta protesta anti-immigrati a Tor Sapienza, il quartiere alla periferia di Roma che nello scorso novembre si è ribellato contro immigrati-sindaco-e-governo. Il segno di un malessere, di una miscela sociale esplosiva – come sottolineava Morcellini nel suo intervento – che esprime il dolorosissimo conflitto ai piani bassi della piramide sociale. Un malcontento che, intrecciandosi con la società multietnica, in realtà deriva da altri problemi che investono l’Italia, come il diffuso senso di marginalizzazione, di esclusione, solitudine e destabilizzante paura del futuro.

 

Temi che – sollevati nell’incontro alla Sapienza – offrono e necessitano di molteplici e trasversali prospettive di osservazione demandate a chi opera nel campo della comunicazione e tratta le dinamiche migratorie. E può costituire una grande opportunità, l’occasione di un sostanziale cambio di passo, il modo in cui raccontare i processi in corso: da molti anni il (buon) giornalismo ha perso il contatto con il dato esperienziale diretto, con la verifica ‘dal vivo’ delle fonti, quale l’ascolto dei soggetti protagonisti della migrazione, spesso sostituto da un amalgama generalizzante, dalla notizia-spot-del-giorno, da risse televisive che diventano rumore mediatico. Una superfetazione comunicativa che non contribuisce a dispiegare i necessari strumenti di decodifica interpretativa da parte dell’opinione pubblica che, come è noto, può essere facilmente plasmabile. Uno scenario performativo che rischia di coltivare derive populiste e stereotipizzate, specie se stampa e tv – nel già aspro melange di ingiustizie sociali e marcate asimmetrie al ribasso – continuano a non sgomberare il campo da equivoci e falsi messaggi mediatici che, come virus, intossicano la coscienza collettiva. Messaggi lasciati ripetere a cittadini esasperati senza chiarire e smentire mai, in diretta, i tanti luoghi comuni; come l’assai frequente e sommaria ‘argomentazione’ – che all’occorrenza punteggia lo scontro tra i ceti più bassi degli italiani e gli immigrati – secondo cui “mentre gli italiani non hanno lavoro, ai rifugiati diamo quaranta euro al giorno per non fare nulla”. Di fronte a questi focolai di disinformazione che alterano la percezione della realtà e, di conseguenza, la pacifica gestione delle relazioni con l’Altro, un buon giornalismo dovrebbe prendersi in carico di spiegare dettagliatamente all’opinione pubblica che, nello specifico, esiste una quota di 35 euro al giorno di rimborso spese per ogni ospite, quota che non viene data all’immigrato – come erroneamente credono in molti – ma che va alle cooperative, alla Caritas e alle associazioni i cui piani sono approvati da una commissione formata da rappresentanti di enti locali, Ministero dell’Interno e Agenzia Onu per i rifugiati. E spiegare che con questi 35 euro a immigrato, le associazioni devono coprire i costi per vitto, alloggio, pulizia e manutenzione dello stabile, mediazione culturale, assistenza legale, visite mediche e, in alcuni casi, l’iter burocratico per diventare rifugiati. E ancora, spiegare che agli immigrati in quanto tali, è destinato (solo) il ‘pocket money’, ovvero un buono per le spese quotidiane da due euro e cinquanta al giorno. Ma quanti italiani lo sanno?  Su queste informazioni di base che riguardano tanti cittadini stranieri – i ‘nuovi italiani’, per restare in tema di uso dei termini – e il Paese in cui vivono, sarebbe opportuno – verso un’informazione di servizio e di alfabetizzazione ad una matura coabitazione dei plurimi universi culturali – fare una apposita campagna di comunicazione, depotenziando così ingiustificate tensioni.

 

Dalla forza delle parole a quella dei numeri. Anche un’analisi del fenomeno migratorio basata su cifre esatte e statistiche potrebbe incentivare una visione maggiormente condivisa dell’immigrazione in Italia e quindi, senza nascondere le criticità, favorire una maggiore apertura e un maturo atteggiamento di inclusione. Così, in una dimensione di servizio e di comunicazione responsabile, per prendere pienamente in carico i fenomeni in corso, sarebbe opportuno ricorrere alle informazioni di contesto date dai numeri, con i loro paradossi: da recenti ricerche sul campo è emerso, infatti, che in Italia “pensiamo” di avere il 20 per cento di musulmani, quando questi sono solo il 4 per cento della popolazione. Ed ancora più ampia è la forbice sull’immigrazione: gli italiani sono convinti di convivere con un 30 per cento di immigrati, quando invece sono solo il 7 per cento. Come dire che l’immigrazione “percepita” è di gran lunga più ampia di quella reale. Sono dati probabilmente riconducibili all’idea che abbiamo dello ‘Straniero’ quale perturbante dei nostri panorami noti e costituiti (e per ciò rassicuranti), al quale attribuiamo – proiettandone le responsabilità – la diminuzione di servizi, di stato sociale e di opportunità nel nostro Paese. Un calo di qualità della vita dovuto, invece, a tutt’altre cause. In tempi di iper-comunicazione-in-tempo-reale – va ricordato, in uno scenario dai tanti interrogativi aperti – diventa difficile per il giornalismo vendere prodotti di qualità per la necessità di farsi “ascoltare”, qui e ora. E così si ricorre alla notizia “gridata”, urlata, che espone i cadaveri. Un voyeurismo mediatico che ci riporta a tanti decenni orsono, quando furono create le prime scuole di giornalismo, e i professori, quelli del mestiere, predicavano la legge delle tre S: sesso, soldi e sangue, i tre argomenti che all’epoca facevano vendere i giornali, aumentare le tirature e la pubblicità. Mutatis mutandis, con buona pace di quel pubblico che deve attendere le ore notturne per assistere a programmi televisivi di qualità, quelle tre S sembrano tirare ancora.

 

Come è stato sottolineato nelle conclusioni dei lavori a cui, siamo certi, dovranno seguire altri momenti di riflessiva focalizzazione, la questione etica della comunicazione è problema ampio, e non solo nazionale: la retina sensibile dell’eterogenesi dei fini attraversa la responsabilità del come fare informazione, che avanza sulla realtà, la plasma, la riflette, la narra, ma può anche deviarne la percezione. Per andare oltre l’ ‘emergenza’, verso il disteso riconoscimento della presenza stabile di cittadini stranieri o di origine straniera nel nostro Paese, il complesso delle modalità comunicative richiama a diverse consapevolezze: che la satira può ledere la dignità delle persone al pari delle nostrane espressioni politiche razziste, che il concetto di libertà di espressione può essere equivocato, che le tensioni dello scenario geopolitico contemporaneo necessitano di approfondimento giornalistico, di confronto, di una linea di moderazione del dibattito, di commenti, dell’utilizzo di termini giuridicamente appropriati, pensando, a tal proposito, all’improprio e ricorrente uso della definizione di ‘clandestino’, uno sconfinamento indotto da ignoranza, disinformazione o provocazione.

 

Ieri come oggi, è materia delicata e complessa, la parola, quando si trattano le questioni migratorie, il vissuto migratorio degli individui, gli universi valoriali dell’Altro da noi, le sfaccettate variabili di decodifica culturale. Mentre sullo sfondo delle riflessioni che interpellano il nostro essere al mondo, c’è un’ultima, necessaria parola da evocare con l’auspicio che il nostro Tempo ritorni a considerarne il portato. Solidarietà. Una categoria fragile quanto nobile, che ritorna nell’era delle stridenti e indegne disuguaglianze sociali. Un principio che, dopo essere stato a lungo esiliato dalla sfera del discorso pubblico, riaffiora con rinnovata attualità in una fase in cui il lessico freddo della scienza econometrica – insieme all’uso fuorviante di alcune parole dell’alfabeto migrante – sembra oramai insufficiente a raccontare le nostre vite.  Migranti? Immigrati? Clandestini? Irregolari? Extracomunitari? Richiedenti asilo? Rifugiati? Stranieri? Cittadini italiani di origine straniera? Nell’urgenza di un’epoca alla ricerca di nuovi ancoraggi ontologici, questi interrogativi non sono mere raffinatezze terminologiche quanto – sul filo rosso di una meta-semantica – significanti attraversamenti, ineludibili fondamentali. Visioni del mondo.




IL GIORNO DI STEFANO Il 25 febbraio, a Roma, la prima Giornata delle Culture migranti tra Italia e Argentina

10 Febbraio 2015

 

 

 

di GoffredoPalmerini

 

 

ROMA – Prende avvio a Roma la Giornata delle Culture migranti tra Italia e Argentina, la prima edizione  della serie che si celebrerà il 25 febbraio d’ogni anno, per fare il punto sullo scambio culturale tra i due Paesi alimentato attraverso i processi migratori. Appuntamento alle ore 18, dunque, per “Il giorno di Stefano” presso Casa Argentina, in Via Veneto 7, sede del Consolato Generale d’Argentina. Una riflessione a più voci sul rilevante patrimonio culturale addensato in due secoli di migrazioni tra l’Italia ed il grande Paese latino americano, il più italiano del mondo per cultura ed entità degli italici in seno alla sua popolazione. “Il giorno di Stefano” è un evento promosso ed organizzato dall’omonima Associazione culturale, alla cui presidenza è Marina Rivera. Con questa iniziativa l’associazione intende avviare, in collaborazione con Casa Argentina, una serie di attività culturali, didattiche e artistiche per favorire una migliore conoscenza reciproca ed incrementare lo scambio tra i due popoli, le cui migrazioni sono stati indotte da guerre mondiali, esodi politici e situazioni economiche, sociali e culturali. Il nome metaforico della Giornata nasce dal romanzo “Stefano” della scrittrice argentina Maria Teresa Andruetto – prossima l’uscita anche in Italia, con l’editore Mondadori – che, ispirata dalla storia di suo padre, narra le difficoltà vissute da un ragazzo italiano costretto ad emigrare in Argentina.

 

Intenso il programma. La Giornata, dopo il saluto e la presentazione dell’evento a cura dell’Addetto Culturale dell’Ambasciata d’Argentina, Federico Gonzalez Perini, e delle organizzatrici Marina Rivera e Cristina Blake (Associazione Culturale “Il giorno di Stefano”), prevede alle 18:15 un breve video di Maria Teresa Andruetto e letture in spagnolo di brani del libro “Stefano”; alle 18:30  “Italia, andata e ritorno. La traduzione del viaggio di Stefano” a cura di Ilide Carmignani, introduce Simona Cives (Casa delle Traduzioni – Comune di Roma), e reading di brani del libro “Il viaggio di Stefano”; alle 19:00 la Tavola rotonda “Culture migranti tra Italia ed Argentina. Narrazioni e immagini”, introdotta e coordinata da Virginia Sciutto (Università del Salento), con gli interventi di Goffredo Palmerini, giornalista e scrittore, Maria Rosaria Stabili (Università Roma Tre) e Claudia Zaccai (Università di Roma La Sapienza); alle 19:40 “Culture migranti tra Italia e Argentina. Voci e Musica”, un concerto dell’Artificio Vocal Ensemble diretto dal M° Alberto De Sanctis.

 

Casa Argentina si trova in uno dei luoghi più suggestivi del centro di Roma, in un palazzo dal famoso architetto Gino Coppedè e costruito negli anni Venti. Considerato patrimonio artistico e culturale, è sotto la tutela del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Le attività della Casa Argentina rispondono ai principi ed alle finalità che ne ispirarono la creazione: non solo la promozione e la diffusione in Italia dei diversi aspetti della cultura e della realtà del grande Paese sudamericano, ma anche il mantenimento dei legami con la propria nazione per gli argentini che per qualunque ragione si trovino in Italia. Le attività abituali riguardano corsi di lingua spagnola e di cultura argentina, stage di tango, corsi di teatro in spagnolo, ed altre iniziative culturali. Casa Argentina dispone, peraltro, di una preziosa biblioteca con oltre 4000 volumi. Ma ora torniamo brevemente a focalizzare le migrazioni che hanno interessato Italia ed Argentina
“Quasi tutto in Argentina può essere collegato agli italiani”, scriveva Luigi Einaudi in un saggio pubblicato nel 1900 a Torino. “L’Argentina sarebbe ancora un deserto, le sue città un impasto di paglia e fango senza il lavoro perseverante, senza l’audacia colonizzatrice, senza lo spirito d’intraprendenza degli italiani. Figli d’Italia sono stati coloro che hanno creato il porto di Buenos Aires, che hanno colonizzato intere province vaste come la Francia e l’Italia; sono per nove decimi italiani quei coloni che hanno dissodato l’immensa provincia di Santa Fé, dove ora si diparte il grano che inonda i mercati europei; sono italiani coloro che hanno intrepidamente iniziato la coltura della vite sui colli della provincia di Mendoza, sono italiani moltissimi tra gli industriali argentini, ed italiani i costruttori e gli architetti dell’America del Sud, e italiano è quell’imprenditore il quale, emulo degli inglesi, ha costruito sulle rive del Plata per più di mezzo miliardo di opere pubbliche […]”.  L’ardore del giovane Einaudi appare un po’ fuori misura, specie quando parla di colonizzazione dell’Argentina da parte degli emigrati italiani. Anche se sicuramente rilevante, e talvolta determinante, è stato il contributo italiano alla crescita e allo sviluppo d’un Paese sconfinato, ricco di enormi risorse naturali e di potenzialità economiche, sulle quali il talento e l’ingegno degli italiani hanno egregiamente operato. Come pure la cultura e il gusto italiano si sono fortemente innervati nelle espressioni culturali autoctone, determinando quella reciproca contaminazione che è cifra dell’attuale valenza culturale dell’Argentina. Certo è che di passi in avanti l’Argentina ne ha fatti dall’alba del Novecento, tra alterne vicende politiche ed economiche. L’America latina tutta è stata infatti l’approdo d’una straordinaria moltitudine d’italiani, a cavallo di due secoli, che hanno fortemente contribuito in quel continente alla formazione degli Stati, dal punto di vista economico, politico e culturale. L’Argentina è uno dei casi più eclatanti di questo processo. Basti pensare al fatto che oltre metà del Paese è di origine italiana, la percentuale più alta al mondo, con una comunità italiana in termini assoluti stimata in 20 milioni di oriundi, seconda solo a quella presente in Brasile. E davvero si riconosce, in Argentina, l’impronta italiana: nelle architetture, nello stile, nelle più varie espressioni culturali. E nella lingua e nella letteratura, come nella musica e nelle arti.

 

Ben annota, infatti, Delfina Licata sul Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (SER ItaliAteneo, Roma 2014), nel lemma “Argentina”, uno dei tanti redatti dalla grande studiosa di migrazioni sull’opera ideata e diretta da Tiziana Grassi, della quale lei è stata coordinatore scientifico: “[…] Singolare è il grado di integrazione che gli italiani hanno raggiunto in questa nazione in tutti gli ambiti professionali e culturali. Il 50% della popolazione argentina, compresi diversi ex Presidenti, vanta un’origine italiana. Ancora oggi a Buenos Aires si parlano il cocoliche e il lunfardo, nati dalla fusione di più dialetti italiani con parole di origine spagnola. L’Argentina è ancora il primo paese per numero di cittadini italiani residenti (più di 665 mila) – iscritti all’Aire, ndr – e il secondo, dopo il Brasile, per numero di italo-discendenti. Si tratta di una comunità, allo stesso tempo, giovane – grazie ai riconoscimenti di cittadinanza e alle nascite all’estero – e anziana a causa delle tre ondate migratorie che videro centinaia di migliaia di italiani imbarcarsi dai porti della Penisola con destinazione Buenos Aires, la prima tra l’Ottocento e l’inizio della Grande Guerra, la seconda tra i due conflitti mondiali e l’ultima nel secondo dopoguerra fino al calo degli arrivi e all’inversione di tendenza dei flussi. […] L’emigrazione italiana in Argentina risale però a molto prima addirittura dell’annessione, nel 1815, della Liguria al Regno di Sardegna, evento che spinse i liguri, abili navigatori, ad affrontare il lungo viaggio spinti dal desiderio di arricchirsi. L’emigrazione italiana in Argentina, quindi, non iniziò per opera di modesti lavoratori, ma con gli intellettuali, esuli dei moti del 1820-21 e delle rivoluzioni del 1848. La presenza dei genovesi sul Rio de la Plata divenne in pochi anni così massiccia che indusse il Regno Sardo Piemontese a inviare, nel 1835, un primo diplomatico per rappresentare, almeno in teoria, gli interessi del commercio, della marina e degli stessi sudditi. […]”

 

Allora ben venga questa prima Giornata delle Culture migranti tra Italia ed Argentina, dove “galeotto” è il libro di Maria Teresa Andruetto, la storia d’un adolescente in fuga dalla povertà, che nel primo dopoguerra emigra dall’Italia verso l’Argentina. Dopo l’addio ai suoi affetti, Stefano parte per un lungo viaggio con la valigia piena di sogni e di ricordi. La gita in barca e il naufragio, il lavoro nei campi, ma anche il circo e la musica popolare italiana fanno da sfondo alla storia. Una lunga avventura, l’adempimento di una promessa. Dice l’autrice: “Se un libro è un modo per conoscere, un modo di penetrare il mondo e trovare il posto che ci appartiene, Stefano mi ha permesso di avvertire il senso della fame, dello sradicamento, dello straniamento di uomini e donne, come di coloro che oggi, migranti, vanno in cerca di una vita migliore”. Si tratta quindi d’una delle tante piccole storie che compongono lo sterminato bagaglio di esperienze umane intinte nella grande Storia dell’emigrazione italiana. Una storia narrata con una prosa limpida, coinvolgente, da una scrittrice feconda e sensibile qual è Maria Teresa Andruetto. Nata nel 1954 ad Arroyo Cabral, discendenza piemontese, insegnante di scuola primaria e poi secondaria nella provincia di Cordoba, Maria Teresa Andruetto è autrice di romanzi, poesie, opere teatrali, saggi e letteratura per l’infanzia. Argomenti a lei cari sono la ricerca delle origini, la diversità culturale, la costruzione dell’identità individuale e collettiva, l’universo femminile, le conseguenze inferte al suo Paese dalla dittatura. Numerose le opere pubblicate, tra le quali 6 romanzi, 6 volumi di poesia, 15 libri di narrativa infantile, diversi saggi e pièces teatrali, contributi di narrativa e liriche in molteplici antologie. Molti i riconoscimenti alla scrittrice, tra i quali spicca il prestigioso Premio “Hans Christian Andersen”, conferito nel 2012 dall’IBBY (Organizzazione Internazionale del Libro Giovanile), il più alto riconoscimento internazionale nell’ambito della letteratura per l’infanzia, considerato nel settore come una sorta di premio Nobel.

 

 

 




Sodalizio Abruzzese-Molisano: lettera aperta

 

Padova, 04 febbraio 2015

LETTTERA APERTA ALLA STAMPA

con preghiera di pubblicazione

                                                Gentilissimo

                                                                                                           Direttore del quotidiano online giulianovanews.it

 

 

Egregio Signor Direttore,

mi presento: sono un abruzzese fuori regione da oltre cinquanta anni residente a Padova, dove con altri corregionali sono stato uno dei fondatori, per  mano di  notaio, dell’associazione apolitica, apartitica e senza finalità di lucro denominata  Sodalizio “Abruzzese-Molisano” di Padova che nel 1996  mi ha voluto presidente, poi sempre confermato alle scadenze statutarie. Il nostro Sodalizio è una associazione fra le più antiche operanti in città e ora nel Veneto. Si interessa, per citare alcune attività, nell’assistenza ai corre-gionali bisognosi, nelle promozioni culturali con concerti convegni, mostre d’arte e di artigianato, nella propaganda turistica con buoni risultati per i soggiorni marittimi e montani.

Nel territorio nazionale le associazioni similari iscritte all’Albo tenuto dalla Regione Abruzzo sono tredici.

 

La Regione Abruzzo ha regolamentato le associazioni degli abruzzesi emigrati nel mondo con la L. R. n° 47/2000  alla quale è seguita una nuova stesura nel 2004 portante la stesso n° 47, che ha poi avuto integra-zioni e modificazioni con la L. R. n° 43/2012.  Per queste associazioni, nazionali e estere,  è stato istituito un Albo Regionale, a cui si accede a domanda e in possesso di determinati requisiti.. Le iscrizioni all’albo sono divise in due sezioni: una per gli abruzzesi emigrati nel mondo e l’altra per quelli emigrati in Italia, fuori regione. Queste ultime hanno diritto di essere rappresentate con un delegato al Consiglio Regionale degli Abruzzesi nel Mondo (in sigla CRAM), organo collegiale delle associazioni riconosciute con la iscrizione all’Albo regionale si rinnova al succedersi delle nuove legislazioni regionali.

 

In data 24 luglio 2014 con la comunicazione prot. n° 95/EM  l’Ufficio Emigrazione ha invitato i presidenti delle associazioni operanti in Italia fuori regione a “segnalare con cortese sollecitudine, in accordo tra loro, risultante da apposito verbale, il nominativo del componente l’Organismo di cui sopra (CRAM, n.d.r.) quale rappresentante delle associazioni nazionali operanti fuori regione in seno al predetto organismo”.

.

A questa richiesta lo scrivente con propria e-mail datata 28 luglio 2014  indirizzata all’Ufficio interessato e al Signor Assessore con delega all’emigrazione e, nonché, ai colleghi presidenti ha sensibilizzato una serie di  argomenti, sollecitati in successive e.mail e non accennati nella lettera di richiesta del delegato, come::

–  le modalità di nomina dei rappresentanti da fissarsi dalla Giunta regionale (come da L. R. n° 47/2004 art. 4

comma 1 e  4);

–  le caratteristiche della riunione di “accordo tra loro” per evitare il ripetersi di esperienze negative maturate

nelle precedenti riunioni per la stessa necessità.

Nessuna risposta è stata ricevuta dalla Regione Abruzzo. L’invito ai colleghi di attivarsi per trovarci in un incontro collegiale, al di fuori di altri propri eventi, per la designazione del delegato, non ha avuto successo. Il delegato uscente ha proposto e poi caldeggiato la candidatura del presidente dell’associazione di Torino.

 

Dopo il periodo estivo sono seguite alcune corrispondenze che hanno portato ad una  votazione con messaggi all’Ufficio Emigrazione. Le tredici associazioni nazionali hanno partecipato al voto con questo esito: due candidati ottengono entrambi sei viti e un voto a una terza candidata. L’Ufficio Emigrazione ricorre al ballottaggio fra i due ex aequo e chiede entro l’8 gennaio 2015 di esprimere un voto di preferenza. L’esito della nuova parità di voti, ancora sei voti cadauno, è stato partecipato il 13 gennaio con l’invito ai tredici presidenti di trovarsi a Pescara nella sede del Consiglio Regionale  il 23 gennaio che non ha avuto successo per una serie di circostanze.

 

 

 

 

 

 

 

 

Consapevole che in caso di parità di voti non ci sono riferimenti nella legislazione regionale abruzzese, in data 05 gennaio, con e-mail, e 20 gennaio, con lettera, ho osservato all’ Assessore dott. Donato Di Matteo e all’Ufficio Emigrazione che, per prassi consolidata, in caso di parità di voti viene eletto il più anziano anagraficamente, che nella specie è anche più anziano anche in fatto di presidenza pluriennale e di costituzione associazione certificata. In assenza e/o in casi lacunosi di legge, o di regolamento si fa sempre riferimento ai regolamenti parlamentari. Non va sottointeso che anche le ultime elezioni regionali in Abruzzo sono state tenute con il sistema proporzionale con premio di maggioranza e, quindi, con l’espressione del voto di preferenza per i candidati consiglieri. Per l’elezione del presidente di giunta si ricorre al ballottaggio nei casi che non è stato raggiunto il quorum minimo di legge.

 

Convengo con la risposta fatta dall’Assessore in data 22 gennaio 2015 quando chiude con l’invito a incontrarsi nell’intento che il “dialogo …….. si riferisca ai contenuti e sia volto ad un utile ampliamento delle attività ………”. A mio avviso le riunioni hanno finalizzazioni ben definite: una cosa è la scelta del delegato al CRAM  e  altra cosa è la programmazione delle attività da sviluppare con serietà.

Riporto un inconveniente: la mostra antologica del pittore abruzzese Gigino Falconi – Una vita per la pittura, allestita dal rappresentato Sodalizio con la collaborazione del Comune di Padova, qui a Padova in un luogo storico affrescato la “Sala della Gran Guardia” dal 18 dicembre 2014 e ora prorogata fino al 14 febbraio 2015 per il successo avuto  (visitatori stimati oltre quattromila).  La Regione Abruzzo è stata assente in tutto, compreso il patrocinio gratuito, anche se poi ne ho fatto abuso nelle pubblicità scritte e parlate. Speriamo in futuri più brillanti e gratuiti.

 

Quando ci si trova per una votazione, prevista da normativa regionale, necessità conoscere le regole della votazione. Le passate votazioni per il delegato al CRAM  non hanno lasciato un buon ricordo, non a chi non ha vinto ma per il modo di come sono state tenute, anche presente politici e funzionali regionali.

Diventa impellente aggiornare l’Albo regione – Sezione delle associazioni nazionali nella considerazione che i requisiti di iscrizione debbono essere verificati almeno a cadenza triennale con testimonianze delle attività svolte dalle singole associazioni, pena la decadenza. Sembrerebbe che l’associazione di Verona sia inattiva da un decennio (in occasione del voto per il delegato CRAM miracolosamente risorge per esprimere il suo voto).  Anche altre associazioni non avrebbero i requisiti che ne giustificano la permanenza all’albo.

 

In conclusione si vuole fare riconoscere democraticamente che il candidato più anziano anagraficamente e per esperienze associative sia dichiarato vincitore delle votazione ripetute due volte e sempre con lo stesso risultato di sei voti per i due candidati più votati.

Non vuole essere minimamente un atteggiamento di contrasto con l’Assessore con delega alla emigrazione abruzzese dottore Donato Di Matteo, per il quale esprimo simpatia e disponibilità assoluta per iniziative e programmi da realizzare in collaborazione nell’interesse del nostro Abruzzo che amiamo con sentimento affettuoso.

 

Con la cordialità abruzzese un rispettoso ossequio Per Lei, Signore Direttore e per tutta la Redazione

 

 

Il Presidente del Sodalizio

F.to     Cav. O.m.r.i. Armando Traini

 

 

 

Allegati:

–        lettera prot.  n. 95/EM datata 24 luglio 2014 dell’Ufficio Emigrazione;

–        lettera datata 20 gennaio 2015 dell’intestato Sodalizio “Abruzzese-Molisano” del Veneto;

–        lettera prot. n. 17962/Segr.  dell’Assessore Donato Di Matteo.




“CENA SOCIALE PER GLI ABRUZZESI DEL TRENTINO“

 

Ospite d’Onore Mario Timperio già Sindaco di Santa Eufemia a Maiella

 CENA SOC.ABR. 2015 - 2

La Libera Associazione Abruzzesi del Trentino Alto Adige ha tenuto a Bolzano la cena sociale annuale, alla quale hanno preso parte numerosi soci provenienti da Trento, Borgo Valsugana, Riva del Garda, Monguelfo e Merano. Presente come ospite d’onore Mario Timperio già Sindaco di Santa Eufemia a Maiella al quale il presidente Sergio Paolo Sciullo della Rocca ha donato un pregiato libro sulla storia dei tholos le antiche costruzioni in pietra realizzate dai pastori come riparo tra le montagne d’Abruzzo, tra le quali alcune vantano migliaia di anni, contestualmente ha ringraziato i soci, Maria Antonia Giaconia, Gabriele Antinarella, Elisabetta D’Aurelio, Fabio Giovannucci e Marina Natale per aver curato l’organizzazione del tradizionale appuntamento annuale. Al termine della serata, sono stati offerti ai convenuti le ciambelle di Pacentro e il liquore Corinna di Ovidiana memoria.AB.THOLOS




USA. Per paragonare le atrocità di oggi, si rispolverano le crociate di un tempo.

Invitato al National Prayer Breakfast, Barack Obama ha deciso di “attaccare”

la religione cristiana, paragonando le atrocita’ ISIS “a quelle cristiane compiute in nome di Cristo”.
“Durante il periodo delle Crociate e dell’Inquisizione – ha detto Obama – la
gente commise terribili gesta in nome di Cristo. In questa nazione la
schiavitu’ e Jim Crow erano quasi sempre giustificati in nome di Cristo.Sara’
bene ricordare certe cose”.
Il noto commentatore Pat Buchanan ha  urlato leggendo le dichiarazioni del presidente USA. “Come possiamo paragonare le estreme barbarie ISIS e le
Crociate.Come puo’ Obama paragonare alcuni fatti dell’11mo secolo con
quanto sta accadendo oggi,una Inquisizione di qualche centinaia di anni fa,una guerra di 30 anni,Obama ha un problema reale con la verita’ e la realta’ dei
nostri tempi.”
Si e’ svegliata la comunita’islamica – ha aggiunto Buchanan – che si e’
infognata in una crociata mondiale per conquistare le nazioni del West.
Jim Crow,per chi non lo sapesse,e’ stato accusato di segregazione delle
razze,ritenuta oggi ingiusta.
L’ex deputato repubblicano Allen West,ha definito il presidente americano
l’islamapologist in chief.
Dagli USA, B.M.



In mostra a Malta l’artigianato artistico abruzzese

 

Dal 12 febbraio dieci aziende a La Valletta. Lupo:  eccellenze protagoniste grazie ad Art Italia

 

PESCARA – L’artigianato artistico abruzzese sbarca a Malta con la ragionevole speranza di mettere radici nell’isola mediterranea. Dieci aziende del settore, rappresentative dell’arte orafa, della ceramica, del ferro battuto, della lavorazione del vetro e del legno saranno infatti protagoniste, nell’isola del Mediterraneo, dal 12 al 20 febbraio prossimo, di una iniziativa voluta per presentare i propri prodotti e avviare rapporti commerciali con i partner maltesi. La missione è stata presentata a Pescara questa mattina, nel corso di una conferenza stampa tenuta nella sede di “Area Artigianato Artistico”, in via delle Caserme. Di fronte agli organi di stampa, gli organizzatori ne hanno sottolineato i numerosi aspetti originali, come ha illustrato il direttore artistico della missione nell’isola mediterranea, Elisabetta Di Bucchianico: «Si tratterà di un abbraccio ideale tra le piccole imprese dell’artigianato artistico abruzzesi e i colleghi maltesi. Oggetti e persone si contamineranno in uno spazio prestigioso, ricavato all’interno dell’Istituto di cultura italiana a Malta, che con la nostra ambasciata ha offerto un importante contributo per la riuscita della manifestazione».

Ai problemi delle piccole imprese abruzzesi ha invece dedicato l’intervento di apertura il presidente regionale della Cna Abruzzo, Italo Lupo, che ha contribuito a organizzare l’iniziativa alla Valletta, insieme al Polo di Innovazione “Art Italia”, che l’ha finanziata: «Ormai i problemi provocati dalla crisi del mercato interno obbligano le piccole imprese, comprese quelle dell’artigianato artistico e tradizionale, che da sempre rappresentano una punta d’eccellenza delle nostre produzioni, a cercare sbocchi al di fuori dei confini nazionali. Così, grazie al sostegno del Polo “Art Italia”,e cofinanziata con Fondi POR FESR 2007-2013″, ma per il resto senza contare sul sostegno di altre strutture pubbliche, è stata resa possibile questa missione».

A Malta, la Cna si dedicherà allo sviluppo di relazioni con le associazioni omologhe: è infatti prevista la sottoscrizione di un protocollo d’intesa con General Retailers and Traders Unione, con l’obiettivo di condividere sugli scenari continentali strategie e iniziative. Dieci le aziende che sbarcheranno a Malta a metà febbraio. Quattro sono espressione dell’arte orafa (Italo Lupo, Francesco Rubini, Antonio De Fabritiis e Mauro Pacella), due della ceramica (Giuseppe Liberati e Arago Design), una della lavorazione della pietra (Luigi D’Alimonte), una del ferro battuto (Georg Reinking), una del vetro (Alessia Fatone) e una dell’intaglio (Walter Zuccarini).

 

 

6/2/2015




Elezioni COMITES – Giuseppe Abbati (Aitef) scrive a Gentiloni e Alfano: Gli italiani nel mondo devono votare utilizzando le nuove tecnologie

 

 

 

Il Presidente dell’AITEF (Associazione Italiana Tutela Emigrati e Famiglie), Giuseppe Abbati, in vista del rinnovo dei Comites, ha inviato una lettera al Ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni, e al Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, per ribadire la necessità di utilizzare le nuove tecnologie in fatto di voto.

 

Gli Italiani nel mondo – scrive Abbatidevono votare con l’utilizzo delle nuove tecnologie. Il voto elettronico dovrebbe essere introdotto per tutti. Anche in Italia. E’ impensabile che in Italia non debba essere introdotto e in Namibia sì! Una nazione che deve puntare sull’innovazione e sulle nuove tecnologie, costringe gli Italiani all’estero a percorrere centinaia di chilometri per richiedere una scheda! Ancora peggio, devono chiedere di votare! E’ possibile? E’ successo! E’ ora di dire basta! Tutti assicurano che il voto elettronico si può effettuare garantendo la segretezza! Perché non si procede? Perché non andare verso il nuovo, perché rinviare? Stiamo per approvare una nuova legge elettorale! Approviamo una legge che sia innovativa, che consenta a tutti di votare. E’ una grande prova per dimostrare che l’Italia crede nell’innovazione, l’invito di chi crede nella democrazia, nell’uguaglianza, nella parità, nei doveri, nella giustizia, valori spesso disattesi. Gli Italiani attendono con fiducia!”. Secondo il Presidente Abbati, per quanto riguarda il rinnovo dei Comites, “siamo ancora in tempo per evitare pesanti abusi, disparità ed illegalità. Il rinvio e la riapertura dei termini, così com’è stata attuata, non è servito a nulla, anzi! Gli italiani nel mondo si sentono discriminati, si vedano le tante lettere che inviano”.

 

Gli Italiani all’estero invitano il Ministro Gentiloni a ripensare i Comites, come aggiunge Carmelo Cicala, Presidente uscente del Comites di Washington D.C.: “L’autorità italiana riapre i termini di iscrizione e fissa la scadenza  naturalmente solo per quelle virtuose Circoscrizioni che già parzialmente avevano presentato delle liste, sia pure incomplete. Vedendo come stanno procedendo le iscrizioni – dichiara Cicala – saremo forse in grado di raggiungere un 5-6 % degli aventi diritto, sempre che alla ennesima proroga, fissata per il prossimo 17 aprile, riservata alle Circoscrizioni non escluse dalla riapertura dei termini elettorali, non si raggiunga il 7% degli aventi diritto. E allora appare chiaro che per poter esercitare il proprio diritto di voto, un italiano all’estero deve avere la fortuna di risiedere in prossimità di un Consolato, competente per Circoscrizione, che in molti casi comprende territori e distanze enormi, e che de facto esclude gli ivi residenti”.

 

La riapertura dei termini quindi non ha risolto il problema della partecipazione, non è pensabile che con il solo 3 o 4% si possa rappresentare la Comunità  Italiana nei vari Stati. Ecco perché l’AITEF ha reiterato la proposta e l’invito ai Ministri di puntare sull’innovazione, cioè sul voto elettronico. Una soluzione importante per far aumentare la partecipazione, riducendo gli eventuali brogli e gli abusi!




USA. Hollywood apre il mercato verso est

Alle otto e trenta di un assolato mattino di Los Angeles,l’attore che chiameremo

mister X riceve una telefonata “importante”.Il chief di una grossa casa di produzione cinematografica chiede alla star di dare il suo voto a un
film che sta particolarmente a cuore alla sua corporation.”Ricorda” dice il boss “che abbiamo in cantiere una serie di film eccezionali nei quali  potresti prendere parte…
Alle otto e 40 dello stesso giorno una star della cinematgrafia americana riceve una chiamata dal boss,che ripete le stesse parole che ha detto poco prima a mister X.
Almeno 70 chiamate al giorno per arrivare ad ottenere i voti necessari
per la statuetta dorata. Uno “scandalo” che offusca tutte le chiacchiere
della grossa famiglia di cinematografari (scusate il termine)
statunitensi.Una politica sfacciata della quale poca gente vuole parlare a Hollywood.Vedete,gli Oscars rappresentano enormi guadagni per attori
ed attrici,miliardi per i produttori cinematografici.
Il 22 di questo mese quakcuno annuncera’ a centomilioni di americani ed a milioni e milioni di nazioni estere che l’Oscar viene assegnato a…
Il giorno dpo le sale cinematografiche che proiettano i film Oscar saranno
affollate di gente che ha pagato 10/12 dollari per l’acquisto dei biglietti.
Quest’anno i film stranieri in lizza per l’Oscar sono di produzione asiatica.Hollywood vuole aprire il mercato dell’Est che potrebbe fruttare
alcuni miliardi di dollari. Tra Asia e i bigliettoni verdi del Medio Oriente
(quelli messi in banca con la vendita di petrolio)
la mecca del cinema sara’ in grado di acquistare le piu’ grosse reti
televisive di questa nazione,con incredibili guadagni.
E tutti (chi piu’ chi meno) saranno particolarmente contenti.
Benny Manocchia da Hollywood



Fouquières lez Lens: 4 febbraio 1970 – 4 febbraio 2015.

 

 

Nella Tragedia mineraria di Fouquières lez Lens (Francia) morirono 16 minatori. Due di loro erano italiani : il campano Mario Schiavone e l’abruzzese Francesco Barone.

A 45 anni da quella tragedia è doveroso ricordarli cancellando  la dimenticanza.

La mattina del 4 febbraio 1970 nella miniera di Fouquières lez Lens  in Francia un’esplosione di « Grisou » procurò l’ennesima drammatica tragedia mineraria . In quella Miniera dove, in nome della esasperata produttività,  le regole e le norme di sicurezza erano regolarmente disattese trovarono la morte 16 minatori. L’opinione  pubblica francese , nell’immediato, fu scossa  e le reazioni non si fecero attendere. Furono istituite commissioni d’inchiesta e si richiesero pesanti provvedimenti verso chi aveva consentito che in quella miniera fossero negate le più elementari  regole di sicurezza. Poi, come purtroppo spesso accade, il tempo gioca a favore della dimenticanza. Così quei morti , con il passare del tempo, diventarono ogni giorno di pìù solo dei numeri. Contro questo atteggiamento, contro questo vergognoso comportamento è doveroso, ognuno per la propria parte, combattere. E’ doveroso non dimenticare, è doveroso consegnare alle nuove generazione l’importanza del sacrificio di quegli uomini, è doveroso descrivere le condizioni disumane del loro lavoro, è doveroso denunciare che essi morirono anche per la responsabilità di chi li spinse a cercare lavoro in quell’inferno. Purtroppo anche a Fouquières lez Lens , come in quasi tutte le più grandi tragedie del lavoro, non mancarono le vittime italiane costrette, per cercare lavoro, ad abbandonare la propria terra ed i  propri affetti emigrando in Francia.  Erano Mario Schiavone e Francesco Barone anch’essi, naturalmente, dimenticati. Domani saranno trascorsi ben 45 anni  da quella tragedia e ci pare doveroso cancellare la dimenticanza ricordando i nomi, i volti e la provenienza di questi nostri umili « eroi » del Lavoro. I due minatori italiani morti nell’inferno della « crudele » Miniera di Fouquières lez Lens erano :

Francesco Barone nato nel 1915 a Navelli (Aq) sposato aveva un figlio e viveva a Billy-Montigny.

 

Geremia Mancini – sindacalista UGL




NOTE SULLA GRANDE OPERA DEDICATA ALL’EMIGRAZIONE ITALIANA

3 febbraio 2015

 

 

Intervista a Delfina Licata, coordinatore scientifico del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo

 

di Tiziana Grassi

 

 

 

ROMA – Continua lo “Speciale DEMIM” per approfondire temi e prospettive disciplinari dell’opera dedicata alla Grande Emigrazione italiana tra Otto e Novecento. Oggi si propone l’intervista a Delfina Licata, coordinatore scientifico del Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo, pubblicato dalla SER ItaliAteneo in collaborazione con la Fondazione Migrantes.

 

Dottoressa Licata, dopo Mons. Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, che ha fortemente sostenuto e seguito con la massima attenzione la realizzazione del Dizionario Enciclopedico, e il prof. Enzo Caffarelli, direttore editoriale di questa monumentale opera, la intervisto nel terzo ruolo-cardine di questo Dizionario, aperto da un pregnante messaggio del Card. Francesco Montenegro, presidente della Fondazione Migrantes, sul ruolo della Chiesa Cattolica nell’assistenza ai migranti, e che il Presidente Giorgio Napolitano, nel suo Saluto di apertura a tutti gli italiani nel mondo, ha definito “una vera e propria summa di un fenomeno che ha segnato indelebilmente la storia del nostro Paese”. Lei, oltre ad essere autrice e co-curatrice del Dizionario Enciclopedico, ne è stata il coordinatore scientifico. Una grande responsabilità, se si pensa che il Comitato scientifico dell’opera è composto da oltre 50 tra i massimi studiosi ed esperti di Emigrazione italiana, in Italia e all’estero, e che l’opera ha visto il coinvolgimento di ben 168 autori. Come ha affrontato, sul piano metodologico e contenutistico, quest’impegno? Quali sono state le priorità che si è data nello sviluppo e nell’impostazione di un’opera così articolata e complessa?

 

“In realtà il Dizionario ha, come dire, bussato alla mia porta, professionalmente parlando, in un momento di maturità. Dopo anni di lavoro sull’emigrazione italiana dapprima per propensione e passione personale, poi con la Fondazione Migrantes e il Rapporto Italiani nel Mondo ho ormai chiaro nel mio percorso umano e di lavoro come il tema della mobilità, e in particolar modo riferito all’Italia e agli italiani, sia un universo in costante movimento, mai identico a se stesso e che chiede di essere studiato e approfondito in rete, lavorando cioè con altri, nella multidisciplinarietà e nella multilocalità. Intendo dire che occorre inevitabilmente rispettare il punto di vista di chi in Italia vive e guarda alla mobilità degli italiani e di chi non è in Italia e si occupa della stessa materia risiedendo fuori dei confini nazionali. Così come è inevitabile che gli approcci siano pluritematici perché è la stessa mobilità ad avere una ricchezza espressiva disarmante comprendendo la storia, l’economia, la politica, l’antropologia, la sociologia, la geografia, la poesia, la letteratura, il diritto e tutti gli argomenti che poi ha cercato di compendiare il Dizionario. Il metodo e i contenuti usati per il Dizionario derivano da quanto detto fino ad ora e tra le priorità c’è stata sicuramente quella di coinvolgere quanti più studiosi possibili incontrati soprattutto durante gli anni di Rapporto Italiani nel Mondo, ma anche in altri contesti diversi così da mettere in campo un coro a più voci.”

 

Quali sono state, nel corso di un lavoro che ha richiesto molti anni di impegno, le difficoltà che ha incontrato nel coordinare, sul piano scientifico, tante ‘visioni’, approcci e prospettive disciplinari?

 

“Quando si deve fare sintesi la cosa più difficile è il rispetto di ciascuna parte nella sua visione, nel suo modo di esprimersi, nei termini scelti per descrivere i concetti. Ciascun studioso, e questo vale ovviamente per ogni ambito, matura un proprio linguaggio e quando la regola comune reclama semplicità e massima accessibilità, tutto si complica. Il Dizionario è un’opera complessa realizzata in modo semplice per renderne facile la consultazione. Esso si rivolge, infatti, non solo ai tecnici, alle persone “di mestiere”, ma a un pubblico vasto per età e formazione. Abbiamo cercato di pensare anche agli studenti di ogni ordine e grado; a chi non parla italiano, ma si interessa dell’Italia e degli italiani; ai protagonisti che l’emigrazione italiana l’hanno scritta e che oggi possono ritrovare la loro storia personale e familiare nello snodarsi dell’alfabeto italiano.”

 

Dalla sua prospettiva anche di co-curatrice, come si è interfacciata con questo lavoro?

 

“Nella curatela paradossalmente si è vissuta per prima la multidisciplinarietà e la multilocalità di appartenenza, che poi è stata curata e rintracciata in tutta la splendida rete di 168 autori diversi. Intendo dire che ognuno dei cinque curatori ha una sua specificità professionale che ha messo al servizio dell’opera, amalgamandosi a quella degli altri. Ognuno dei curatori, quindi, ha dato il proprio imprinting professionale per una resa che fosse il più possibile vicina alla perfezione. È vero, ogni cosa è migliorabile, ma in quel momento abbiamo ritenuto che le scelte prese fossero le migliori che potevamo prendere in ragione di un unico fine: quello di rendere l’opera fruibile il più presto possibile considerando l’entusiasmo dell’attesa che si era creato intorno all’opera per i diversi anni di elaborazione e realizzazione che ha giustamente richiesto.

 

Lei è anche tra gli autori di questo “Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo”: quali sono stati i lemmi, le voci a sua cura e quali focus di riflessione-approfondimento ha voluto porre, tematizzare?

 

“L’opera è arrivata alla Migrantes e quindi nelle mie mani di coordinatrice scientifica con diversi lavori già realizzati e che dovevano solo trovare la giusta collocazione e la corretta espressione per rendere l’uniformità dell’opera. È stato interessante sistematizzare gli argomenti più diversi e lontani da ciò che mi è più vicino ed è stato stimolante riflettere e realizzare argomenti nuovi come i lemmi relativi ai principali Paesi di residenza degli italiani. Argomenti sterminati che bisognava riassumere senza semplicemente “togliere”, ma cercando di valorizzare una sintesi ardua e faticosa che considerasse e raccontasse il passato arrivando sino alloggi, a chi sono gli italiani nel mondo dove per mondo si intende davvero ogni lembo di terra. Paesi “scontati” come Argentina, Stati Uniti, Germania, Canada, Svizzera, Australia, Spagna, Brasile ma anche Cina, Romania, Sudafrica, Egitto, India, Finlandia, Irlanda, Perù, Portogallo, Marocco e tanti altri. Un vero e proprio “viaggio in giro per il mondo” dove gli italiani non sono stati e non sono solo presenza, ma promotori di cultura e professionalità, tenaci lavoratori, uomini, donne e intere famiglie dedite al sacrificio, dai valori indiscutibili e dalla devozione profonda.

 

È stato bello non occuparsi di materie “scontate” come può essere, nel mio caso, la riflessione sui numeri, presenze e flussi nel tempo e nello spazio, ma cercare di dare un volto agli uomini e alle donne attraverso un Dizionarietto biografico degli italiani emigrati e degli oriundi celebri, circa 300 mini-biografie di personaggi, italiani viventi e non, vissuti o nati all’estero, e oriundi, discendenti di famiglie italiane emigrati, indipendentemente dal fatto che possiedano o abbiano posseduto la cittadinanza italiana. Si tratta di uomini e donne distintisi in campo politico, sociale, religioso, artistico, scientifico, sportivo, ecc. che hanno contribuito, nella stragrande maggioranza dei casi, alla crescita del Paese d’adozione (con qualche eccezione di celebrità raggiunta attraverso attività criminali) e che hanno reso o rendono tuttora onore all’Italia. Un mondo di sterminata genialità che fa riflettere: effettivamente, la mobilità umana è un “fatto sociale totale”, un fenomeno cioè che coinvolge più persone ognuna nella sua complessità individuale e di relazione con gli altri.”

 

Lei è direttore e curatore del Rapporto Italiani nel Mondo, annuale pietra miliare della Fondazione Migrantes quale indispensabile finestra di osservazione e approfondimento sul mondo delle migrazioni di ieri e di oggi. Ne parliamo? Nel corso del suo lavoro di Coordinatore scientifico, ha riscontrato eventuali intersezioni amplianti, sinergie conoscitive, tra il Rapporto Italiani nel Mondo e questo Dizionario, una sorta di possibile effetto moltiplicatore nel dibattito in corso sull’Emigrazione italiana nel mondo, che alcuni definiscono ‘storia del passato’, altri materia vivissima?

 

“Sicuramente ho preso maggiore coscienza che nonostante il Rapporto Italiani nel Mondo sia, in questo 2015, al suo decimo anno di età, è più ciò che resta da fare di quanto sia stato fatto. Da anni mi spendo affinché il tema della mobilità italiana sia maggiormente presente nel dibattito pubblico e con nuove caratteristiche ovvero che si guardi al passato come imprescindibile passepartout per arrivare a meglio capire e interpretare la mobilità di oggi. Ogni strumento culturale che possa ampliare il dibattito è quindi importante. Il Dizionario è, qualcosa in più. Non esiste un’opera paragonabile e se ne aveva bisogno sicuramente anche come punto di riflessione comune degli studiosi di questo argomento dal quale ripartire alla luce del nuovo momento di mobilità italiana che stiamo vivendo. La mobilità non si può fermare; è innata nell’uomo e si trasforma con esso. Anche la riflessione va plasmata a seconda delle trasformazioni rilevate: nuovi strumenti, nuovi approcci. Occhi nuovi per il mondo diverso in cui siamo.”

 

In un tempo che vive le contraddizioni e i contraccolpi della globalizzazione e della complessità, un tempo che necessita di sguardi più maturi, ampi e inclusivi verso l’Altro, può secondo lei essere utile – e per chi – questo Dizionario come strumento, come occasione di conoscenza, di sensibilizzazione sui fenomeni migratori e il loro portato umano, sociale, storico? Il nostro passato cosa può insegnare?

 

“A me piacciono due cose in particolare di questo Dizionario: la sua modernità nonostante la sua pubblicazione lo abbia “fissato” in un determinato momento storico escludendolo, di fatto, da tutto ciò che dal mese della sua pubblicazione è avvenuto e la sua attenzione all’Altro. Dalla lettura attenta di ogni lemma emerge che l’obiettivo perseguito da ogni autore è sempre l’oggi anche quando parla di eventi dell’Ottocento. Guardare le foto delle navi delle Compagnie di navigazione, ad esempio, rimanda ai gommoni di oggi, alle “navi” con cui arrivano in migliaia alle coste italiane dai porti del Nordafrica. Ricostruire la parola ‘straniero’ attraverso le voci dei sociologi lungo l’arco del tempo ci riporta all’uso improprio che ne facciamo oggi nel nostro parlare quotidiano, ma anche nello scrivere. Basta leggere i tanti dibattiti del giornalismo di oggi e l’uso di “etichette” improprie quando si “raccontano” le migrazioni di oggi.

 

L’attenzione per l’Altro è un punto fondamentale e imprescindibile che richiede una particolare sensibilità. Alcuni studiosi di mobilità l’hanno innata magari perché loro stessi soggetti di mobilità, altri la imparano dal contatto con i migranti. Altri ancora, permettetemi, purtroppo non riescono a sintonizzarsi su questo “canale” che invece è, per la Fondazione Migrantes e i suoi collaboratori, insostituibile. Non ci si può accostare allo studio della mobilità umana senza sensibilità ai protagonisti, al fatto cioè che i percorsi migratori sono compiuti da uomini e donne di ogni età e provenienza, i quali proprio per la loro unicità determinano viaggi straordinari e danno vita a storie particolari. Non possono essere dimenticati i tanti italiani, emigrati o nati all’estero, e i discendenti che, con le loro vite semplici e comuni, contribuiscono o hanno contribuito in maniera determinante alla straordinarietà dell’emigrazione italiana.”

 

Quali sono i passaggi del messaggio del Card. Francesco Montenegro – Arcivescovo di Agrigento – in apertura del Dizionario, circa il fondamentale impegno della Chiesa Cattolica nell’assistenza ai migranti del passato e del presente, che l’hanno colpita di più?

 

“Nel suo messaggio breve ma intenso io ho immediatamente letto una sorta di mandato lavorativo per il domani; la meta a cui guardare e lo sprone a fare sempre di più e meglio. La ricerca non è mai arrivo, ma è continua ripartenza, per scrivere una pagina in più di conoscenza acquisita. “La società cambia, ma il destino migrante dell’uomo resta” scrive Montenegro. Al di là del credo di ciascuno di noi, al di là del luogo in cui ognuno di noi vive e opera, il destino migrante accomuna tutti.”

 

In conclusione cosa si augura possa nascere da questa esperienza editoriale-culturale, a tutti i livelli? E a lei, cosa lascia come persona e come studiosa?

“Io spero nel contributo attraverso ogni lavoro nel quale mi impegno e in questo Dizionario in particolare vista la sua unicità e l’interesse che ha suscitato, nella nascita di una nuova mentalità sulla mobilità, in una sensibilità diversa per il migrante al di là del luogo da cui proviene e della meta che si è prefissato di raggiungere. Una sensibilità che porta al semplice rispetto del motivo che lo ha portato a mettersi in viaggio ed è quella ricerca dello stare bene, la semplice e, allo stesso tempo, difficile ricerca della felicità a cui fa riferimento la Costituzione americana quale diritto di ogni individuo. La Dichiarazione d’Indipendenza americana riconosce a tutti gli uomini il diritto ad essere felici, una vita piena in termini collettivi però, e non come soddisfazione solo individuale. Questo pensarsi come insieme, come comunità e non come isole è quanto auspico.

Da studiosa poi guardo alle nuove generazioni e mi auguro che questo Dizionario sia per loro esempio di un modo diverso di lavorare e studiare: lavorare insieme perché l’uno completa l’altro nella multidisciplinarietà e nella multilocalità di cui abbiamo a lungo parlato. Che la bibliografia di questo Dizionario – una delle cose probabilmente più difficili che mi sia mai trovata a curare – sia esempio concreto di quanto dico. L’aver dovuto mettere insieme il contributo di tutti in modo che fosse palese l’impegno di ognuno dei 168 autori, la loro unicità e particolarità, le scelte fatte rispetto a quanto chiesto loro dai coordinatori dell’opera. La bibliografia è segno concreto del lavoro di tutti al di là delle direzioni, al di là delle sigle nella certezza che l’incontro con l’Altro, nel lavoro come nella vita, è sempre arricchimento e mai perdita.”

INFO: dizionarioitalianinelmondo@gmail.com