Abruzzo. A CHARLEROI L’ANNUALE RIUNIONE DEGLI ABRUZZESI NEL MONDO

26 settembre 2013

A CHARLEROI L’ANNUALE RIUNIONE DEGLI ABRUZZESI NEL MONDO

Il meeting, dal 27 al 29 settembre, nel Paese dove il Premier è figlio d’un emigrato abruzzese

di Goffredo Palmerini

CHARLEROI (Belgio) – Parto il 26 settembre dall’aeroporto di Roma Ciampino, a metà giornata, con un volo diretto a Charleroi. Quest’anno l’assemblea del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo (CRAM) si tiene nella città dei Valloni, dal 27 al 29 settembre. E non a caso, come vedremo. E’ una bella giornata di sole, di quelle tiepide, come promettono le incipienti ottobrate romane che tanto intrigarono Ottorino Respighi. Man mano che l’aereo guadagna il nord s’increspano nuvole candide e cirri, disegnando al suolo arabeschi d’ombre lungo la costa toscana e sulla campagna frammentata di colture cangianti, nelle tonalità del verde e delle terre di Siena. Ma per quanto il sole insista ad irradiare a perpendicolo, gradatamente il cielo si chiude mentre la rotta guadagna la sua destinazione. La distesa di nuvole candide, quando l’inesorabile discesa del velivolo la penetra, abbandonandosela alle spalle, finalmente lascia distinguere prati color smeraldo, campi ordinati e i boschi che coronano la città. Si atterra a Charleroi. Il cielo è coperto, ma per qui è una bella giornata che non promette pioggia. Assai sollecite le operazioni di riconsegna dei bagagli. All’uscita 4 dell’aeroporto l’efficiente servizio di accoglienza predisposto da Levino Di Placido, presidente della Federazione delle Associazioni Abruzzesi in Belgio e componente del CRAM, ci conduce in città.

Pochi minuti per raggiungere la stazione di Charleroi Sud, di fronte alla quale c’è l’albergo dove alloggiamo. In quella stazione, nel secondo dopoguerra, stipati convogli assecondavano il sogno di futuro di centinaia di migliaia di nostri emigrati, specie dal meridione d’Italia, per calarli nelle nere viscere della terra ad estrarre carbone. Una fetta cospicua di questa emigrazione era abruzzese. L’8 agosto del 1956 la tragedia nella miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, rivelò con i numeri del disastro –  262 morti di cui 136 italiani – l’immane dimensione del sacrificio abruzzese, con 60 vittime, in gran parte originarie di Manoppello, Lettomanoppello, Tuttivalignani, Roccascalegna, Farindola. Una tragedia sul lavoro che denunciò la sommarietà se non l’assenza delle condizioni di sicurezza in miniera, la lacunosità della previdenza e dell’assistenza ai lavoratori, il vergognoso contratto tra i due Stati, per il quale i lavoratori destinati in miniera avevano rilevanza solo per assicurare le forniture di carbone all’Italia.

La tragedia, con la dolorosa eco che immediatamente si diffuse in Italia e nel mondo, costrinse i parlamenti e i governi a scrivere norme per la sicurezza sul lavoro e la previdenza. Quella data e quella tragedia sono ora state riconosciute nella memoria collettiva del Paese, come Giornata del lavoro italiano nel mondo. Le miniere di Marcinelle, per preservarne la memoria imperitura contro i tentativi di cancellarne la storia, trasformando la destinazione d’uso del luogo, dall’Unesco sono state  di recente riconosciute Patrimonio dell’Umanità. Tante cose sono cambiate da quegli anni, per i nostri emigrati in Belgio. Oggi l’Abruzzo può andare fiero d’un fatto straordinario: il figlio d’un emigrato abruzzese di San Valentino, in provincia di Pescara, è diventato Primo Ministro del Belgio. Elio Di Rupo è motivo d’orgoglio per l’Italia e per l’Abruzzo, terra dei suoi padri.

Alessio Di Placido, il figlio di Levino, studente in Scienze della Comunicazione all’Università di Charleroi, stava ad aspettarmi davanti all’aeroporto. Mentre mi porta in macchina in città, attraversiamo la lunga teoria di officine e fonderie dismesse, retaggio del sistema industriale andato in crisi fin dalla fine degli anni Settanta e non ancora recuperato in destinazioni alternative. Vecchie ciminiere svettano al cielo con la loro patina di ruggine e di polvere, il sedime dove insistono è tuttora nero di polveri di carbone. La dimensione della trasformazione industriale, conseguente alla crisi della siderurgia europea sconfitta dai Paesi emergenti dell’Asia e del Sud America, mostra tuttora i suoi limiti e le sue insufficienze nel volto ancora sfibrato della città, nelle aree d’abbandono e di degrado, dove pure appaiono modeste iniziative, recenti o in atto, di sostituzione edilizia, di recupero urbano e di qualificazione dell’arredo, specchio delle difficoltà che l’economia locale ha dovuto scontare con l’andata in crisi del sistema industriale. Questo mi par di comprendere, la mia impressione, facendo un rapido giro in città per annusarne l’aria e il contesto economico e sociale, che, pure a rischio di possibili lacune e difetti di valutazione, la facies della città rivela tuttora nella sua pesantezza. L’opera di restauro, attualmente in corso, certamente potrà restituire alla città il suo volto migliore, quello che ora si scorge all’esterno del centro storico e nelle infrastrutture cittadine.

Stamattina, 27 settembre, il Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo – composto da una trentina delegati delle comunità abruzzesi all’estero, dal  delegato delle associazioni abruzzesi in Italia, dal rappresentante dell’Osservatorio dell’emigrazione, nato dalla recente riforma della legge regionale regolante il settore, dai tre Consiglieri regionali componenti del CRAM Franco Caramanico, Riccardo Chiavaroli, Antonio Prospero – farà visita al Parlamento Europeo, a Bruxelles. Della delegazione abruzzese faranno parte anche i Consiglieri regionali Berardo Rabbuffo ed Emilio Nasuti, presenti alla missione in Belgio, oltre che al dirigente del Servizio Emigrazione, Giorgio Chiarini, e del Capo Ufficio, Assunta Ianni. L’incontro istituzionale al Parlamento Europeo è previsto per le ore 9. Alle ore 11 il CRAM apre i suoi lavori nella sede di rappresentanza della Regione Abruzzo a Bruxelles, sotto la presidenza del vice Presidente vicario Franco Santellocco, e si protrarranno per l’intera giornata.

L’agenda prevede, dopo i saluti istituzionali, la relazione sull’attività dell’Ufficio Emigrazione, la presentazione del sito web del CRAM, le relazioni dei componenti dell’organismo sulle attività condotte da associazioni e federazioni abruzzesi all’estero e in Italia, la relazione del rappresentante dell’Osservatorio dell’Emigrazione, il dibattito sulle tematiche del settore, l’aggiornamento dell’Albo regionale delle Associazioni abruzzesi, la predisposizione d’una proposta di bilancio preventivo per il settore emigrazione, l’individuazione della sede dove tenere l’Assemblea 2014. In serata visita alla Grand Place di Bruxelles e rientro in autobus a Charleroi. I lavori continueranno nella giornata di sabato 28 settembre a Marcinelle, dopo una visita alle miniere di Bois du Cazier, con deposizione di una corona alle vittime della tragedia e l’apposizione di una targa commemorativa della Regione Abruzzo. Prevedibile l’impatto emotivo della visita e il forte significato simbolico di tenere, in uno degli edifici della miniera, i lavori del CRAM per l’intera giornata. Quindi l’incontro con le rappresentanze abruzzesi in Belgio, in una serata di gala che prevede un’agape fraterna e festosa, con 300 partecipanti, e uno spettacolo musicale in onore del CRAM. Domenica 29 settembre, i lavori continueranno nel maniero di  Chateau sur Sambre, con la presentazione delle risoluzioni finali poste all’approvazione dell’Assemblea. Nel pomeriggio visita alla Chiesa cattolica italiana di Marchienne au Pont. Il rientro a Charleroi in serata. L’indomani le delegazioni faranno ritorno nei vari Paesi di provenienza.

Assai attiva è la Federazione delle Associazioni abruzzesi, presieduta da Levino Di Placido, dinamico imprenditore nato in Belgio, figlio d’un minatore di Pennapiedimonte, in provincia di Chieti, emigrato nei primi anni Cinquanta. La comunità abruzzese è punto di riferimento anche per altre associazioni regionali italiane nella città vallone. Charleroi è una città appena superiore ai 200 mila abitanti, la quarta del Belgio per numero di abitanti, dopo Bruxelles, Anversa e Gand. E’ attraversata dal fiume Sambre, utilizzato anche per il trasporto fluviale, con grosse chiatte che trasportano merci e materie prime. Nel 1977 la città aggregò al suo municipio diversi comuni contermini, tra i quali appunto Marcinelle. Infine, pillole di storia civica. Charleroi ebbe origine da un piccolo villaggio chiamato Charnoy. Nel 1666 gli Spagnoli vi edificarono una fortezza, chiamata Charles-Roy (Rey Carlos) in onore del re Carlo II di Spagna. L’anno seguente i Francesi la conquistarono, iniziando un’opera di espansione e abbellimento. Luigi XIV, il Re Sole, accordò diversi privilegi agli abitanti della città con l’obiettivo di farla sviluppare sempre più, ma il trattato seguito alla Pace di Nimega nel 1678 consegnò Charleroi nuovamente agli Spagnoli. La città ebbe poi un notevole sviluppo grazie all’industria del carbone, del ferro e del vetro. Il vasto bacino carbonifero, dov’erano insediate le miniere, è oggi completamente abbandonato. E’ chiamato Pays Noir, che definizione più propria non poteva avere, viste le dominanze del nero che ancora restano impregnate nei luoghi del carbone e non solo. 




Siria: il nuovo Afghanistan degli USA di Fabio GHIA

Siria: il nuovo Afghanistan degli USA

di Fabio GHIA

TUNISI – E’ di qualche giorno fa la notizia che il Ministro degli interni tunisino ha reso noto all’Assemblea Costituente (parlamento) un gran problema etico di natura Jihadista. Nell’ultimo anno circa 3000 tunisine di giovane età si sono recate in Siria, attraverso la Turchia, e il fenomeno si va intensificando sempre più. Visto che in Siria combattono al fianco dell’opposizione più di ottomila Jihadisti tunisini, e che la Jihad è aperta anche alle donne, la cosa non dovrebbe destare scalpore. Per contro si è scoperto ultimamente che queste ragazze vanno in Siria (trasporto, vitto e alloggio ben pagato dal Qatar) per dare il proprio contributo nella: ‘jihad al-nikàh’. Cioè, citando le parole del ministro “hanno condotto sesso di conforto con combattenti islamisti, avendo rapporti sessuali con 20, 30, 100 militanti”. E, allora dov’è il problema! E’ previsto dalla guerra santa, o no? Si, ma purtroppo la maggior parte di queste ragazze è tornata a casa in stato di gravidanza! Ora, poiché la Jihad al-nikàh, permettendo relazioni sessuali extraconiugali con partner “multipli”, è considerata da alcuni integralisti sunniti salafiti (di cui molti esponenti politici appartengono al partito di Governo) come una forma legittima di guerra santa, adesso del problema delle gravidanze “sante”, alcuni esponenti filo-salafiti ne vogliono investire lo Stato.

Oltre alle quisquilie meramente nazionali, esistono però ben altri motivi che la Jihad dei tunisini in Siria sta sollevando. Il marcato atipico comportamento dei tunisini, infatti, ha comportato un senso di autonomia, con una conseguente radicalizzazione delle attività, anche da parte degli altri gruppi Jihadisti anti-Assad irregolari e, nonostante l’ipotesi di un intervento militare internazionale in Siria vada sempre più allontanandosi, la guerra civile continua ad oltranza. Non solo; purtroppo sembra proprio che un nuovo fronte si stia rapidamente aprendo tra i diversi gruppi dell’Opposizione. In particolare, il fronte “fondamentalista”, che vede la presenza di più di 18.000 jihadisti (provenienti da Tunisia, Libia, sauditi e occidentali), esacerbata dal mancato intervento statunitense da loro tanto auspicato, è diventato motivo di forte astio con le forze dell’opposizione laica.

I contrasti, anche violenti, tra i due gruppi sono ormai all’ordine del giorno. Secondo quanto riportato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Milano, “l’ultima in ordine di tempo è la conquista da parte dei combattenti del Fronte per uno Stato Islamico in Iraq e Siria (ISIS) della città di Azaz nel nord della Siria al confine con la Turchia. La cittadina, che costituisce uno snodo fondamentale in quanto si trova sulla principale arteria di comunicazione tra il confine e la città di Aleppo, è stata rapidamente trasformata in una sorta di fortino da parte dei qaedisti che vi hanno posizionato cecchini sui tetti, istallato posti di controllo e imposto il coprifuoco alla popolazione locale.” L’acquisizione, non coordinata con le altre Forze di opposizione, e il controllo di un punto strategico quale Azaz, mette in evidenza la crescente volontà dei gruppi Jihadisti di rendersi completamente autonomi dalle altre componenti dell’opposizione. Secondo una ricerca del Washington Institute for Near East Policy, la Siria sarebbe ormai diventata un luogo di attrazione per jihadisti provenienti da ogni parte del mondo. Ragioni storiche, ideologiche e tattiche – la maggiore facilità a infiltrarsi in uno scenario di guerra civile – spingono gli elementi radicali a riversarsi in Siria per combattere la jihad. Circa la metà delle forze dell’Opposizione in Siria sono affiliati a gruppi islamici fondamentalisti, molti di questi stranieri, e nella lotta che li oppone alle forze laiche e moderate sembrano sempre più ritrovarsi in una posizione di supremazia.

Nella sostanza, gli USA che sin dall’inizio del conflitto hanno dato pieno appoggio (finanziario e armi leggere) alle forze di opposizione, a breve si troveranno a gestire ancora una volta situazioni già verificatesi in passato. Cioè, il sopravvento preso dalla radicalizzazione Jihadista nella guerra civile, con la nascita di un terzo fronte che ha per obiettivo principale, non solo la detronizzazione di Al Assad, ma soprattutto l’Islamizzazione dell’intero territorio siriano e, forse, … anche oltre: il Libano degli Hezbollah!




Mamma mia devo andare in consolato! Di Guido Lammachina

Mamma mia devo andare in consolato!

Di Guido Lammachina

Diventa sempre meno piacevole recarsi per un qualsiasi servizio presso uno dei nostri consolati in Germania. La comunicazione esterna è pessima. Contatti telefonici impossibili. Sembrano spariti quasi completamente gentilezza e serenità nei rapporti con gli utenti. I Consoli percepiti come entità vanescenti e sovrannaturali.

Può capitare a tutti di non ricordare più se per un passaporto nuovo ci vogliono due o quattro fotografie. Qualche dubbio sorge anche sui costi, sui tempi di lavorazione. E poi: ci vuole un certificato di residenza o no? Insomma, meglio telefonare un attimo, così ti fai spiegare cosa devi presentare. Comincia così la “via consolare” di un qualsiasi  utente italiano in Germania. Chiama al vecchio numero del consolato conservato tra i numeri importanti come quello dei pompieri, del medico e della suocera.

Chiama per tre giorni di seguito, ma non risponde nessuno. Libero, occupato, libero e poi una segreteria telefonica che lo rimanda alla pagina Web del consolato stesso.

È giunto allora il momento di aprire il PC che gli hanno regalato i figli a Natale, decisi definitivamente di introdurlo nel mondo della comunicazione moderna. Il telefono, si sa, lo usano ormai solo gli sprovveduti.

Strano però. Una volta aperta la pagina Web del suo consolato, trova alla rubrica “Uffici” i numeri di telefono dei singoli reparti con gli orari di apertura. Per Bacco! Allora il telefono esiste ancora, lo scrivono loro! Ancora qualche tentativo con i numeri interni e risponde finalmente un impiegato, il quale, come la segreteria telefonica (ma con un tono meno garbato) lo rimanda alla pagina Web! Lo fa però con un avvertimento: Lei non può venire senza appuntamento!

E chi me lo fissa l’appuntamento? Consulti la pagina Web! E torna alla pagina Web.

Nel frattempo sono trascorsi quattro giorni lavorativi. Effettivamente però la pagina Web indica una bella scritta azzurra: “Prenota Online”.

Parte l’operazione “Prenota Online”. Ma solo con l’aiuto del vicino di casa, quello che da anni gli è antipatico perché spara le pose con il figlio laureato in informatica.

E così riceve l’appuntamento. Tra sei settimane! Un mese e mezzo per un appuntamento? Ma io voglio solo un passaporto, mica il trapianto di un rene!

Le sei settimane comunque passano. Arriva al consolato. Davanti a se una dozzina di persone che litigano con l’usciere. Le frasi più ricorrenti sono: – Lei non può entrare. Lei non ha l’appuntamento! -Ma il mio è un caso urgente!-Lei non ha l’appuntamento. Consulti la pagina Web-.  -Ma ho provato. Non funziona! – Non è possibile. Riconsulti la pagina Web.

-Ma la prego, io devo partire veramente con urgenza-. E poi: Mi è nato un figlio, dove lo devo registrare?  Consulti la pagina Web! Ci vuole l’appuntamento. Mi voglio sposare, che devo fare? L’appuntamento. Consulti…

Poi tocca al nostro utente. Buongiorno. Che cosa vuole?  Il passaporto. Ce l’ha l’appuntamento? E lui, con un pizzico d’orgoglio, sì! Bene controlliamo. Passa qualche minuto. Si metta in fila!

Passa alla fila dei privilegiati con appuntamento.  Dopo un’ora e quarantacinque minuti, tra urla, porte che sbattono, impiegati che litigano tra di loro, arriva il suo turno.

L’uomo dietro la scrivania lo accoglie con uno sguardo da maresciallo dei carabinieri: Ma questo passaporto è scaduto da un mese! Si difende: Sì, ma da due mesi io aspetto un appuntamento…  Ah! Il suo indirizzo però è cambiato. Ora deve passare prima al reparto Anagrafe. E poi: Lei, signore, dichiara di proprio pugno di avere un figlio minorenne! Si sente in colpa. Non sa perché (lui il figlio l’ha generato serenamente con la sua consorte e con tanto amore). E poi ancora: Torni dall’usciere per un appuntamento. Ufficio Anagrafe pima, Stato Civile dopo, per questo suo figlio (ma il tono è di “sta povera creatura!”) non ancora registrato!

Torna dall’usciere per l’appuntamento e non sa se piangere o ridere. Aspetta altri venti minuti. Gli viene in mente quel film di Troisi: Chi siete? Quanti siete? Che volete? Due fiorini! L’Usciere (lo stesso sguardo del giannizzero di Troisi), fissa il vuoto e dice: Per l’appuntamento deve consultare…  Finisce lui la frase: La pagina Web!

Tornando casa pensa che i consolati si siano proprio svuotati del loro senso primordiale. La comunicazione con gli utenti è ridotta al minimo, piena di nervosismo. La cortesia, il sorriso, la comprensione sembrano spariti del tutto. Nei consolati c’è una sorta di guerra fredda tra utenti e impiegati. Gli utenti si sentono maltrattati. Sono frustrati a priori dopo aver cercato inutilmente un contatto umano con il proprio consolato. Si presentano di conseguenza agli sportelli prevenuti, pronti a far valere quei diritti che vedono ostacolati sin dal primo passo (la semplice telefonata).

Gli impiegati, a loro volta, sono sulle difensive e sentono confermato quel pregiudizio che vede in ogni utente una potenziale minaccia alla loro quiete.

Sembra proprio che questi funzionari vengano da Roma con lo stesso spirito dei legionari destinati alla guerra con i barbari nelle foreste germaniche.

Insomma, la profezia che avvera se stessa.

Possibile che nessuno riesca a rompere questo circolo vizioso?

Il concetto della cura delle pubbliche relazioni, cioè anche le “relazioni con il pubblico”, è sparito completamente dalla testa dei nostri consoli?

In attesa che tutti noi si riesca a risolvere tutte le questioni burocratiche via internet, non esiste una soluzione intermedia, di transito, di passaggio tra una generazione e l’altra?

Basterebbe un’ora di consulenza telefonica al giorno e affidata ai singoli reparti per ripristinare un minimo di comunicazione tra consolato e popolazione italiana a esso affidata.

Un fatto è sintomatico. Consultate le pagine Web dei vari consolati in Germania. A un certo punto troverete il click “Messaggio del Console”.

Ebbene, nella maggior parte dei casi non vi troverete scritto niente. Solo i consoli di Dortmund e Monaco di Baviera esibiscono le proprie fotografie e le relative biografie (forse sono convinti che alla gente interessi particolarmente conoscere gli incarichi sinora ricoperti e il loro aspetto fisico).

Lo stesso Ambasciatore a Berlino esibisce in Web solo la sua brillante carriera.

Inutile cercare un saluto, una prospettiva, un traguardo, una filosofia di vita, un “messaggio” insomma.

Forse anche per questo i nostri consoli somigliano sempre più a entità metafisiche che non hanno nulla da dire alla gente.

(da Il Corrier d’Italia, giornale italiano in Germania)




Il Vicepresidente del Coniglio di Mauro Montanari *

Il Vicepresidente del Coniglio

di Mauro Montanari *

Nessuno potrà rimproverarmi di avere una particolare simpatia per il cameriere Angelino Alfano, attuale segretario del Pdl. Tuttavia devo ammettere che qualche volta, con suo faccione da uovo con la maionese, mi è anche simpatico. Come in questa occasione. Avrete letto che nella nuova sede della rinnovata Forza Italia, dopo il trasloco dalla sede di via dell’Umiltà (che è coinciso con l’addio al Pdl), a comandare sarà Daniela Santanchè. Sarà lei, infatti, a piazzare i mobili e a decidere a chi assegnare le stanze nei nuovi locali di piazza San Lorenzo in Lucina. Sarà proprio lei, Daniela Santanchè, la pitonessa, a distribuire le stanze che s’affacciano in piazza San Lorenzo in Lucina, nuova sede romana della rinnovata Forza Italia. Eppure il segretario del partito, nonché vicepremier e ministro degli Interni, è ancora Angelino Alfano.

Angelino Alfano? E chi è?

Ma come, chi è?  Angelino Alfano, quello che si mangiato tutti i rospi di questo mondo per stare dietro al capo; lui, Angelino, che ha fatto dell’ubbidienza una professione nobile; lui, Angelino, che ha rievocato lo sbattere dei tacchi; lui, Angelino, più ubbidiente di una scimmia ammaestrata; lui, Angelino, che chiede il permesso anche per andare in bagno alzando l’indice e il medio a V; lui, Angelino, che se il capo glielo chiedesse, laverebbe con lo spazzolino da denti tutti i gabinetti pubblici della stazione Termini; ebbene lui, Angelino, per avere una stanza nella nuova sede deve chiedere alla Santacchè? Ma non è lui il segretario?

Sì, è (ancora) lui!. Ma nessuno se ne accorge. Nessuno se ne ricorda. Passano Denis Verdini e Daniele Capezzone. Dov’è Daniela? Chi ha visto Daniela? Arriva anche la Biancofiore? E Daniela? Ma nessuno, dico nessuno, ha chiesto di Angelino. Nessuno si è ricordato di Angelino, i cui occhioni umidi sono prossimi ormai ad un pianto liberatore.

Mio Dio, Angelino, che ti hanno fatto? Tutto quel servire, tutto quel leccare, tutto quell’inchinarsi … per nulla? Che ti hanno fatto?  A te, Angelino, che preferiresti un calcio in culo piuttosto che una parola scortese. E alla fine li prendi tutti e due!

Intanto i facchini arrivano, portano pacchi. Dov’è la signora Santaché che non sappiamo dove appoggiare questa roba? Non ti vedono neppure, Angelino! Soltanto uno dei facchini si accorge infine di te e ti mette un pacco in mano. E ti dice di muoverti e di non startene imbambolato come un cretino!

A te! Ad Angelino Alfano. Parlare in quel modo! A te che hai fatto del prostrarsi un’arte. A te che hai dato al leccare le scarpe piena dignità politica. A te che hai trovato il punto più basso possibile dove mettere la faccia. Questo torto non te lo dovevano fare. Ed eccoli lì, tutti i tuoi amici a correre dietro a Daniela.  E già non si sa se ce l’avrai una stanza nella nuova  bellissima sede di tremila metri quadrati, che costerà 80.000 euro al mese al contribuente italiano. È probabile che per te ci sia soltanto un sottoscala, come per Fantozzi!

Il fatto è, caro Angelino, che il capo non sopporta gli uomini, soprattutto quelli che vogliono prendere il suo posto. Ha dovuto accorgersene troppo tardi anche Fini. Certo, tu pensavi che, prostrandoti oltre il limite della fisica euclidea, avresti scansato l’inconveniente. Invece eccoti là, col tuo pacchetto in mano, pronto per la grande pedata. Il capo vuole soltanto femmine. E carine. E tu invece sei maschio. E brutto.

Che tristezza per la tua mamma, per il tuo papà che si vantavano con gli amici di avere un figlio„ come Berlusconi; Ministro. Vicepresidente del Coniglio… A proposito di coniglio. Te l’hanno raccontata la barzelletta della pitonessa e del coniglio? Si adatta a te come un paio di mocassini nuovi. Fattela raccontare da qualcuno. Lì la conoscono tutti. Se lo faccio io mi licenziano!

direttore responsabile de Il Corriere d’Italia, giornale italiano in Germania.




MARIO FRATTI DAGLI STATES A L’AQUILA PER LA “PRIMA” DEL SUO ROMANZO DIARIO PROIBITO

6 settembre 2013

MARIO FRATTI DAGLI STATES A L’AQUILA PER LA “PRIMA” DEL SUO ROMANZO DIARIO PROIBITO

Il grande drammaturgo torna il 18 settembre nella città natale per presentare l’unica opera di narrativa

di Goffredo Palmerini

L’AQUILA – L’ultima volta che Mario Fratti era tornato dagli Stati Uniti nella sua città natale risale al marzo dell’anno scorso, per la “prima” al Teatro comunale di “Frigoriferi”, una delle sue brillanti commedie allestita a musical dalla Compagnia Mamo’ e dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese diretta dal Maestro Luciano Di Giandomenico, autore delle musiche originali. Fu davvero un trionfo per il drammaturgo aquilano, dal 1963 trapiantato a New York, tra gli autori di teatro più famosi al mondo, con all’attivo una novantina di opere tradotte in 22 lingue e rappresentate in oltre seicento teatri, dagli Usa all’Argentina, dal Canada al Brasile, dal Messico all’Australia, dalla Russia alla Cina, dal Giappone alla Turchia, come in quelli di tutta Europa.  Dalla sua pièceSix Passionate Women” trent’anni fa Arthur Kopit trasse “Nine”, il musical che su testi e musiche di Maury Yeston per anni è stato rappresentato nei teatri di Broadway, con oltre duemila repliche. Molti riconoscimenti e ben sette Tony Award – che nel teatro sono come gli Oscar per il cinema – sono stati tributati allo scrittore aquilano, tra i personaggi più in vista nella vita culturale della Grande Mela, dove ha insegnato “Storia del teatro e scrittura teatrale” alla Columbia University e all’Hunter College.

Mario Fratti tornerà ancora a L’Aquila, il prossimo 18 settembre, per la “prima” non di un’opera teatrale, come sovente gli capita in giro per il mondo, ma per la presentazione del romanzo “Diario proibito – L’Aquila anni Quaranta”, unica sua opera di narrativa scritta più di mezzo secolo fa ed ora pubblicato da Graus Editore. Fra qualche giorno sarà nelle librerie di tutta Italia. Sarà dunque un vero e proprio evento, anche perché la trama del romanzo si svolge quasi tutta nella città capoluogo d’Abruzzo a cavallo degli anni ultimi del Fascismo e primi dell’Italia libera e democratica, sulla traccia di un diario segreto del protagonista. Scrittura singolare, temi “forti” e situazioni scabrose per narrare quegli anni, dove il racconto s’intreccia con la storia della città e dell’Italia in quegli anni terribili. La presentazione del volume mercoledì 18 settembre, alle ore 17, presso l’Auditorium “E. Sericchi” della Carispaq, in via Pescara 2. Vi prenderanno parte il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, lo storico Walter Cavalieri, l’opinionista e scrittrice Annamaria Barbato Ricci, il presidente della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, Walter Capezzali, l’editore Pietro Graus e l’autore Mario Fratti. Chi scrive coordinerà gli interventi dei relatori. Dopo questa “prima” aquilana, il romanzo di Fratti verrà presentato a Montesilvano (Pescara), Roma, Firenze, Napoli ed altre città, ancora in via di definizione.

L’evento ha il patrocinio della Deputazione Abruzzese di Storia Patria, dell’Istituto Abruzzese di Storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea e naturalmente della Municipalità,  in omaggio ad uno dei suoi figli migliori, conosciuto e stimato in tutto il mondo. La presentazione del romanzo di Mario Fratti sugli anni della dittatura fascista all’Aquila e sul forte spirito di libertà degli aquilani – in appendice al volume è pubblicato il dramma “Martiri”, atto unico sui Nove Martiri Aquilani -, ben s’inquadra con le celebrazioni del 70° anniversario dell’eccidio nazista (23 settembre 1943) quando nove giovani aquilani, coetanei ed amici dello stesso Fratti, vennero dai Tedeschi arrestati in montagna, poi passati per le armi e sepolti in una fossa comune da loro stessi scavata all’interno della Caserma “Pasquali”, all’Aquila, senza che della loro sorte si sapesse più nulla fino alla liberazione della città, il 13 giugno 1944.

Dedicato “A L’Aquila, città che tanto amo. Ai miei figli Mirko, Barbara e Valentina.”, il romanzo reca la prefazione di Mario Avagliano, storico e saggista, giornalista per le pagine culturali del quotidiano Il Messaggero. Così scrive Avagliano in apertura della sua prefazione: “Quando mi è stato proposto di scrivere la prefazione per il romanzo storico di Mario Fratti, ambientato all’epoca della Repubblica Sociale e del primo dopoguerra, ho provato molta curiosità. Cosa spingeva un drammaturgo di fama mondiale, che vive dal 1963 a New York, vincitore di ben sette “Tony Award” (l’Oscar del teatro), autore di decine di opere, spesso a sfondo sociale, rappresentate in tutti i teatri del mondo (tra i quali il musical Nine, liberamente ispirato al film di Federico Fellini, che ha superato la cifra record di duemila repliche), a ripescare dai cassetti un testo scritto negli anni Cinquanta? Pagina dopo pagina, ho capito che Fratti, al pari di quanto ha fatto in alcune sue opere teatrali (da Tangentopoli a Mafia), in

questo suo primo (e per ora unico) testo narrativo, con il suo stile crudo, privo di pudicizia, che spesso colpisce duro alla testa come una sassata, fatto di dialoghi serrati e di frasi secche come fucilate, aveva un intento di denuncia. Sotto tiro c’è l’Italia di ieri e di oggi. L’Italia complice di Mussolini e del nazismo, delle sue violenze e delle sue bestialità. L’Italia che non ha mai epurato i fascisti, anzi li ha riciclati nei posti di comando. L’Italia che tuttora stenta a fare i conti con il Ventennio e con Salò, propagandando il mito di un fascismo buono”.

La storia comincia a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, con l’Italia che affronta i problemi del dopoguerra. Siamo a Venezia, dove il protagonista del romanzo, incolore impiegato d’un ufficio pubblico, vive in una camera affittata d’un appartamento di due donne sole, madre e figlia, con un’ossessione quasi compulsiva del sesso. Un’influenza con febbre molto alta costringe a letto il protagonista, quindi dovendosi assentare dal lavoro. La situazione prospetta giornate di segregazione in casa, appena mosse dalle notizie pubblicate dal Corriere della Sera, rese poi intense dalla lettura d’un quaderno d’appunti, un suo diario proibito, dimenticato, rinvenuto nella valigia contenente vecchie carte e documenti. Sono le sue memorie, allora giovane tenente repubblichino di Salò. Nel diario ritrova, puntualmente descritti, fatti e dettagli dell’efferatezze e delle violenze, fisiche e morali, che il suo comandante, il “Maggiore”, infliggeva agli oppositori e ai loro familiari nei locali di detenzione e tortura, oltre agli altri squallori di quel periodo storico. Sono appunti che egli accuratamente nasconde alla vista di chi per una qualche ragione entra in camera sua, preoccupato che si possa scoprire il suo passato di ufficiale “nero”, uscito indenne dopo il ‘45. La narrazione interpunta al racconto anche fatti realmente accaduti, dando al romanzo un valore aggiuntivo.

“[…] La scelta dell’io narrante – annota tra l’altro Mario Avaglianoe della sua identificazione nell’adolescente fascista (al quale Fratti arriva addirittura ad attribuire la sua età dell’epoca e il suo nome, Mario) a primo acchito è spiazzante e imbarazza chi legge. L’autore, abruzzese di nascita, come ha spiegato nell’introduzione, utilizza per costruire la sua storia molti ricordi autobiografici, ma, in realtà, già da ragazzo era tutt’altro che seguace di Mussolini. Era animato da vividi sentimenti antifascisti e i suoi amici del cuore erano i partigiani che poi vennero chiamati i “Nove Martiri di L’Aquila”, anche se lui non trovò il coraggio di seguirli in montagna. Tuttavia, man mano che il romanzo va avanti, l’identificazione tra l’autore e il ragazzo di Salò (poi adulto) protagonista della storia mostra tutta la sua potenza evocativa. All’imbarazzo iniziale del lettore, subentra la vergogna. È come guardarsi allo specchio e non piacersi, anzi provare disprezzo per se stessi. È come guardare allo specchio, da italiani, una pagina di storia che abbiamo voluto dimenticare (e che qualcuno addirittura vuole equiparare alla Resistenza), e che invece Fratti ci costringe a rimembrare. Inchiodandoci, senza possibilità di scampo, alla lettura di torture, vessazioni, violenze di ogni tipo che subirono gli oppositori politici, le donne, tutti coloro che finirono nelle grinfie del Comando di Presidio fascista, guidato da un maggiore che, per il suo sadismo e il suo opportunismo, ricorda da vicino gli aguzzini della banda Koch. […]”.

Il volume ha una bella introduzione dell’Autore. E’ la sua vita in pillole. “Sono nato a L’Aquila il 5 luglio 1927. Ho vissuto lì fino al 1947. Vita tranquilla, piccolo borghese, con genitori e due fratelli: Mimina, Leone – i miei genitori -, Mario, Gustavo (scomparso qualche anno fa), Fernando. La guerra ci ha solo sfiorati. Ha risparmiato la nostra città. Studente, passavo intere giornate alla Biblioteca Tommasi, sotto i portici. […]”. Seguono i ricordi d’adolescente e giovinetto, Balilla per forza, nelle adunate e nelle cerimonie ufficiali del regime. “I primi germogli del mio antifascismo mi vennero da Giorgio Scimia, uno dei Nove Martiri di L’Aquila. Mio compagno di scuola, si parlava fra noi del suo odio per il fascismo. Io scoprii un mondo nuovo e fui affascinato dal concetto del “plusvalore”. Nell’atto unico “L’Aquila”, che troverete riportato in fondo al romanzo, Giorgio e Bruno, due dei Nove Martiri, discutono della personalità e della codardia di Mario. Esitai a seguirli in montagna. Partirono. I Nove Martiri, altrimenti, sarebbero stati dieci”.

Ancora annotazioni biografiche, alcune molto personali. “Dal 1945 al 1947, euforia per la fine della guerra. Ci sentimmo finalmente liberi. Scrivevo per “Paese Sera”. Nel 1947 lasciai definitivamente L’Aquila ed andai a Venezia, per laurearmi in Lingue e Letterature Straniere alla Ca’ Foscari. Molti dettagli sulla vita a L’Aquila riportati dal mio romanzo sono veri. Strade, nomi, qualche episodio. Sono l’amalgama di un’opera di pura fantasia. Sono reali, ad esempio, l’esperienza dei “Ludi Juveniles” con Marcello Vittorini e la mia ammirazione verso sua sorella Silvana […]. Costruisco tutte le mie opere sulla conclusione, sull’ultima pagina. Voglio stupire il pubblico per l’imprevedibilità del finale. Anche per “Diario Proibito”, la mia prima ed unica opera di narrativa, usai lo stesso metodo, pensando innanzitutto all’ultima pagina. Essa contiene la “morale” di un “amorale”: il “Maggiore” che dava ordini al “Tenentino” ha ancora potere e sponsorizza missini e democristiani. A Venezia affittai una stanza presso due donne, madre e figlia. Mi ammalai e si presero cura di me. Approfittai di quel periodo per scrivere “Diario Proibito”. Gli articoli che cito nel testo sono veri, li leggevo in quel periodo di malattia e delimitano il lasso di tempo in cui scrissi il romanzo. Decisi di adottare un linguaggio estremo, di concentrare nei personaggi, a cominciare dal protagonista, a cui diedi il mio nome, tutta la malvagità, le malefatte che trasudarono da quel periodo. […]”

Scrive ancora Fratti, sintetizzando il senso del suo romanzo: “Ed ora c’è l’emozione di vedere pubblicato il mio romanzo. Con una consapevolezza che voglio riaffermare, confidandovela. Oggi, oltre 50 anni dopo la sua creazione, quella ribellione che era stata molla per la mia scrittura, è incanalata nel mio impegno culturale e civile. Dalla denuncia estrema che insanguina il libro c’è quel mio dolore, quel mio appello a che i lettori si rendessero conto di quanto fu feroce e insopportabile quel periodo per l’Italia. Dalla finta voce di un mal-protagonista; di un complice di scelleratezze per il movente di briciole di vantaggi, ecco il controcanto di un mondo di resistenti che vollero affrancarsi e ritornare a ossigenarsi nella fierezza degli uomini liberi”. Diario proibito” è questo ed altro ancora, connotandosi per la scrittura tutta particolare, dal ritmo dialogico serrato che non lascia spazio a ridondanze, mettendo in evidenza i prodromi dell’autore teatrale che poi si è affermato in America, scrivendo plays come e meglio degli americani. Il volume si chiude con un pezzo “ospitato”. E’ il “capitolo” che Maurizio Molinari, corrispondente da New York del quotidiano La Stampa, ha scritto sul teatro di Mario Fratti nel suo bel libro “Gli italiani di New York” e che l’editore Laterza ha consentito di riportare.




Interventismo USA in Siria. Dov’è il problema? Fuori Hezbollah e Salafiti e il conflitto siriano potrebbe essere a una svolta di Fabio GHIA

TUNISI – Da tre giorni a questa parte per l’amministrazione Obama è un susseguirsi di conferenze stampa con annunci di possibili attacchi immediati alla Siria di Bechar Al Assad. Più passa il tempo e sempre maggiori interrogativi nascono sul tipo e modalità di intervento. Alla versione USA di bombardamenti mirati, probabilmente volti ad annientare ogni capacità offensiva “pesante”, si contrappongono, in particolare, il quasi certo veto Russo in ambito Consiglio di Sicurezza e la minaccia dell’Iran di allargare il conflitto interno siriano ad aree e Stati limitrofi. Inoltre, l’UE ne esce al momento più confusa che mai, con le singole nazioni schierate in ordine sparso e senza chiari intendimenti. In tutto questo, sembrerà strano, finalmente l’Italia (la politica estera italiana è rimasta offuscata e oscura per oltre due anni), attraverso il ministro Emma Bonino, lancia un chiaro segnale di “intervento condizionato da una delibera delle Nazioni Unite”. Giustissima soluzione!

Nel complesso, però, il quadro internazionale ne esce impacciato, a disagio, in difficoltà e con molte perplessità sull’intervento armato. Il perché trova la sua motivazione principale nel forte sostegno che gli USA, insieme al Qatar e all’Arabia Saudita, hanno dato, e continuano a farlo, alle forze di opposizione siriane (il Consiglio Nazionale Siriano, CNS, con base in Turchia). Tra queste, infatti, non si può ignorare la presenza di più di 16.000 Jihadisti salafiti, provenienti da Libia, Tunisia ed Egitto. Tra l’altro, i primi beneficiari di un mancato intervento USA sarebbero proprio i jihadisti, che sino a oggi hanno potuto mostrare la loro “animale ferocia” e l’assoluta mancanza di rispetto umano, solo trincerandosi dietro il mancato intervento delle forze occidentali, così come è stato per la Libia, l’Iraq e l’Afghanistan, che li ha portati ad agire solo spinti dalla loro “fede”: unico mezzo per adire a ristabilire l’Islam, in tutta l’area. E’ sempre più evidente che la società civile (o quello che resta!) siriana deve ahimè fare i conti con questi fanatici, che affermano con sempre maggiore insistenza la loro volontà verso l’imposizione di un nuovo regime islamista.

Ma è altrettanto evidente che la politica interventista USA (Iraq, Afghanistan, Libia) o l’alternativa del “leading from behind” attuata nell’itera area Mediterranea, hanno fatto acqua in maniera esorbitante. Senza dilungarci in analisi strategiche d’interrelazione con potenze regionali, quali possono essere Iran e Arabia Saudita e Qatar, con i riflessi cui l’UE, Italia in prima fila, ha dovuto sottostare per l’aumentato flusso di profughi sopraggiunto, basti osservare quanto in atto in Egitto e in Tunisia per rendersi conto del fallimento della politica di sicurezza degli USA nell’area. Ancora una volta, come sempre lo è stato in passato, gli USA propongono “cambiamenti” all’insegna della democrazia e della libertà, senza comprendere a quale interlocutore stanno parlando. O, meglio ancora, non tenendo conto del retaggio culturale e del sistema di vita, se non giuridico-istituzionale, dei paesi oggetto d’intervento, completamente differente dalla cultura occidentale e, ancor di più, da quella USA. In particolare, per l’intero quadro geostrategico “arabo”, l’Egitto e la Tunisia, ma anche la Turchia sotto molti altri aspetti, ne stanno dando ampia dimostrazione, il retaggio culturale è un elemento imprescindibile su cui bisogna innestare qualsiasi forma di cambiamento.

E allora come operare in Siria? Lo scenario, oltre alla già complessa presenza di Jihadisti, mostra altre forme di complessità. Innanzitutto gli scontri tra le differenti fazioni si sono allargati a tutto il territorio nazionale e, da entrambe le parti, si minaccia di estenderlo alla Giordania (lunga mano dell’Arabia Saudita e terra di maggiore presenza di sfollati siriani) e al Libano (da sempre nell’occhio di Assad per la realizzazione della grande Siria). E’ quindi difficile ipotizzare un intervento “pacificatore” di un contingente di “pace” multinazionale, se non con un certo “accordo” tra le forze governative e l’opposizione. Eppure, questa appare la soluzione politico-diplomatica più accettabile, nell’intesa che l’eventuale intervento dovrà essere autorizzato dalle Nazioni Unite. Quindi, se ne dovrà prevedere la partecipazione, oltre che delle forze occidentali, anche dei Russi, se non addirittura dell’Iran. Anzi, non è da escludere un contingente di pace con la partecipazione anche di forze di paesi Musulmani. Da un punto di vista ideologico, infatti, la guerra civile in Siria, appare sempre più una guerra di religione: un fatto interno all’Islam. Quindi, sebbene non sia possibile oggi ipotizzare un’evoluzione pacifica del conflitto lasciando il contradditorio alle sole fazioni (islamiche) che si fronteggiano, se non altro, che il fronte sunnita – sciita sia finalmente considerato nelle sue componenti (Lega Araba e Iran) per una forte rappresentanza nel processo di pace.

Ancor prima dell’ipotizzato intervento ONU esiste, però, una condizionale ancor più vincolante: far sparire le forze “esterne” alla guerra civile propriamente detta. Cioè, sia gli Jihadisti salafiti sia Hezbollah dovrebbero, previo accordo tra le parti (Assad e CNS), sgomberare l’area e rientrare al più presto nei paesi di origine. Potrebbe questa essere la posizione italiana, se non quella europea, da proporre in sede prima Patto Atlantico e quindi ONU.

Anche in questo caso, bisognerà comunque pensare a come re-indirizzare i fanatici islamisti alle proprie nazioni di origine. Per Hezbollah non credo sussistano problemi, vista la potente mano iraniana che da sempre li governa. Per i salafiti, credo che un loro rientro in ambito “fratelli musulmani” egiziani o “salafiti” libici o tunisini, mostri da subito qualche problema. Visto che sia l’Egitto che i Tunisini hanno intenzione di dichiarare le controparti “fuorilegge” e “forze terroriste” legate a Al Qaeda! Un bel futuro problema anche per l’Europa.




Abruzzo. 30 anni per unire l’Abruzzo con l’Argentina

BUENOS AIRES – Lo scorso 25 agosto, nella propria sede posta nel comune di San Martin, l’Associazione Villa San Vincenzo di Guardiagrele, con la partecipazione di circa 300 tra soci, amici e simpatizzanti, ha festeggiato il 30° anniversario di attività.

L’Associazione ebbe origine grazie alla volontà di un gruppo di abruzzesi, tutti paesani emigrati provenienti da Villa San Vincenzo, frazione del comune di Guardiagrele (Chieti), che intendevano insieme fortificare le radici, la cultura, l’idioma, la musica del loro paese di origine. Nel lontano 1983  ebbe come primo presidente Filomena Capuzzi, oggi residente in Francavilla al Mare.

Successivamente ricoprì la carica di presidente Francisco Taraborrelli, che non è più tra noi, e successivamente Julio Desiderioscioli che a quel tempo con meno di 50 anni di età già aveva pensato che il futuro dell’Associazione era nelle mani dei più giovani. Dopo di che furono elette alla presidenza prima Maria Garzarella e, a seguire, Natalia Turanzas Marcos che, al momento dell’elezione, aveva 30 anni. Questo era il segnale che l’Associazione stava crescendo con la partecipazione e con il coinvolgimento diretto dei giovani che ad oggi formano l’asse portante della stessa. Successivamente la Presidenza è stata assunta da Mario Taraborrelli ed attualmente da Elio Garzarella, figlio di uno dei fondatori della Associazione.

Alla festa hanno partecipato la Presidente del Comites di Buenos Aires, Graciela Laino, il consigliere del CRAM Abruzzo Joquin Negri, l’ex funzionario della Regione Abruzzo Giuseppe Leuzzi, il sindaco di San Martin Gabriel Katopodis, i rappresentanti dell’Associazione Italiana di Grand Bourg, dell’Associazione Radici Abruzzesi di Argentina e dell’Associazione Guilmesi di Josè c. Paz.

Erano ovviamente presenti l’attuale presidente della FEDAMO Natalia Turanzas Marcos e la ex Presidente Alicia Carosella appartenenti alla Associazione. Durante la serata è stata data lettura del messaggio del console Generale d’Italia in Argentina dott. Giuseppe Scognamiglio dove si esprimevano le felicitazioni per l’attività della Associazione, ma il momento più emozionante è stato quello dell’omaggio ai soci fondatori Adamo Garzarella, Amelia Taraborrelli, Nicolita Colasante, Gilda Colonnese e Rosina Verna.

La festa si è conclusa con la grande torta dei 30 anni di vita e con il brindisi finale di tutta la commissione direttiva composta da adulti e da tantissimi giovani. E questo è il segnale più importante da inviare a tutte le Associazioni nel mondo se si vuole che il rapporto tra gli abruzzesi nel mondo e la loro terra di origine continui a vivere.

Federico Mandl




Non più clandestini, ma migranti; non più sbarchi, ma approdi. Intervista a Peppe Zambito, direttore artistico di Approdi culturali a Torre Salsa

SICULIANA (Agrigento) – Torre Salsa, la bellissima riserva naturale di Siculiana, è stata protagonista di uno degli eventi più importanti della stagione estiva:Approdi Culturali a Torre Salsa. Gli ingredienti c’erano tutti, dai libri alla musica, dalle mostre d’arte alle degustazioni e una cornice mozzafiato che la natura ha offerto ai numerosi ospiti delle serate organizzate da “Siculiana Cultura”. Tutto ha funzionato alla perfezione. Sotto la guida attenta del direttore artistico Peppe Zambito, ogni spazio, ogni momento è perfettamente riuscito. Dapprima gli ospiti sono stati rapiti da uno straordinario spettacolo della natura, poi conquistati da un’affascinante alternanza di parole e musica, di arte visiva e degustazioni tipiche. Un susseguirsi di momenti, un continuo muoversi dentro i vari spazi che ha rappresentato il punto di forza della manifestazione, che ha favorito un reale coinvolgimento di pubblico, relatori, scrittori, artisti, ognuno ha aggiunto, tutti hanno condiviso.

A condurre le conversazioni letterarie Daniela GambinoAnna Burgio: entrambe scrittrici, entrambe capaci di affrontare le tematiche proposte con grande professionalità, sono riuscite a mantenere il tono informale della conversazione senza perdere di vista l’approfondimento delle tematiche e il coinvolgimento del pubblico. Dentro i muri in pietra è stata allestita “La galleria sul mare” che ha accolto scultori quali Salvatore RizzutiGiuseppe Agnello, la magia della carta del maestro Rosario Bruno, le bellissime foto di Salvatore Bongiorno e tanti altri giovani artisti di valore. Inoltre la suggestiva installazione diAntonella Barone: “Il Buddha che guarda il mare”. Il progetto musicale è stato curato da Piera Lo Leggio che ha saputo catturare il pubblico con le sue performance in compagnia di un gruppo di attori e musicisti straordinari. Hanno offerto momenti di intrattenimento di grande emozione. Come di grande emozione è stata la proposta artistica del duo Daniela CarlinoRaimondo Mantione.

L’Approdo è pienamente riuscito, ognuno ha lasciato un segno sulla grande tela, simbolo di incontro; ognuno ha potuto gettare lo sguardo sul mare mediterraneo e immaginare altri approdi. Uomini e donne, migranti, altri migranti come noi, altri individui alla ricerca di luoghi e mondi nuovi. Persone che lasciano altri segni, orme. Che portano altre storie e altri odori. Torre Salsa è lì, fintamente immobile, ad attendere, ad attenderci. L’intervista al direttore artistico Peppe Zambito.

Lei è l’ideatore di questo evento, il profondo sud diventa luogo di incontro tra popoli e la cultura il collante.

Torre Salsa si affaccia sul mare Mediterraneo, spiaggia ambita da migranti e da amanti della natura. Un luogo che si presta a rappresentare approdo di incontro tra le persone. Abbiamo voluto promuovere una contaminazione positiva. Una mescolanza di profumi, di lingue, di punti di vista. La cultura come elemento che non si chiude su se stessa, ma che ha la forza propulsiva di coinvolgere, di mettere insieme tutte le forme espressive per comunicare sentimenti e spazi che ci fanno sentire tutti parte di uno stesso mondo.

In contemporanea al vostro evento è avvenuto uno sbarco proprio sulla spiaggia di Torre Salsa…

Un avvenimento che ci ha turbati. La realtà ha preso il sopravvento sulle nostre parole e ci costretti a riflettere sulla distanza profonda tra chi una realtà la immagina e chi la vive. Mentre noi lasciavamo segni colorati sulla “Tela dell’approdo” altre persone lasciavano segni di orme sul terreno, sulla pietra bianca, sulla sabbia finissima. Abbiamo compreso il senso della nostra manifestazione quando, leggendo i giornali locali, non si parlava più di clandestini ma di migranti, non veniva definito sbarco, ma approdo. La cultura può cambiare il linguaggio e il linguaggio aiuta a comprendere meglio la realtà.

Lei parla di cultura come strumento…

Non vuole essere un modo per sminuire la “Cultura”. Il senso va inteso in modo più ampio. Abbiamo tantissime ricchezze, spesso poche conosciute, un’economia che dovrebbe basarsi sul turismo e che invece arranca, vittima e carnefice di una politica dell’assistenzialismo che ha prodotto rassegnazione, demotivazione, fatalismo. Credo profondamente che la Sicilia abbia tutte le qualità per ribaltare questa situazione e uscire da un oscurantismo culturale che l’ha profondamente penalizzata. La cultura è uno strumento per promuovere il territorio e rilanciare l’economia. Con la cultura si può mangiare.

Giovanni Zambito





Qui Argentina: TRIBUNA ITALIANA Dean Martin, un grande abruzzese

Qui Argentina:      TRIBUNA ITALIANA

Dean Martin, un grande abruzzese

La storia di Dino Paul Crocetti, figlio di un montesilvanese emigrato negli Stati Uniti che diventò una star di Hollywood. Il comune  rende omaggio al cantante e attore con un premio agli abruzzesi che si sono distinti all’estero.

di Walter Ciccione



BUENOS AIRES – Il firmamento di Hollywood è coperto di stelle tra le quali tante di cognome italiano, e solo per citare qualche esempio: Rodolfo Valentino, Capra, Minelli,  Sinatra, Pacino, De Niro, Stallone,  Scorsese, Coppola, Travolta,  Di Caprio, Ida Lupino, Tea Leoni, Marisa Tomei, Susan Sarandon, Isabella Rossellini. Un mondo fantastico nel quale  ci sono  anche  tante star  di origine abruzzese  che illuminano con luce propria,  come Henry Mancini, originario di Scanno, autore della musica della Pantera Rosa; Madonna   /Luisa Veronica Ciccone/ (Pacentro);  Perry “Pierino” Como, (Gissi  Palena),Alfredo Arnoldo Cocozza/Mario Lanza (Tocco da Casauria);  Alan Alda (L’Aquila) e persino uno sportivo, noto anche a Hollywood come Rocco Francis Marchegiano/Rocky Marciano  (Ripa Teatina), campione del  mondo dei pesi massimi dal 1952 al 1956, l’unico a ritirarsi imbattuto. Non sono mancate le stelle fugaci, ma tra quelle che sono andate al di là della fama e sono diventate icone, c’è il personaggio del quale ci occupiamo oggi: Dino Crocetti, in arte Dean Martin cantante, attore, showman la cui  luce rimane accesa, plasmata in  tante sue canzoni e film.

DA MONTESILVANO A  STEUBENVILLE

L’Abruzzo è una regione un  tempo caratterizzata dal suo alto  tasso di emigrazione e in tale contesto, Gaetano Crocetti ne é un esempio. Nato a Montesilvano, il  comune vicino a Pescara, barbiere  di professione, nei brevi momenti  di ozio, guardando il placido  Adriatico, liberava la sua fantasia e viaggiava con la mente in terre  lontane, a cominciare dagli StatiUniti, paese dove era emigrato  suo fratello Giuseppe, il quale, secondo quanto gli aveva promesso, gli spedì 25 dollari e un biglietto di terza classe per spalancargli le porte del “novomondo”.  Con quella chiave in suo possesso, in tasca il mestiere di barbiere e  la valigia di cartone con pochi vestiti e tante illusioni, partì Gaetano in quell’alba del XX secolo verso New York, “terra dei  sogni possibili”. Il suo, cominciò a farsi realtà quando arrivando, gli sembrò  di vedere la Statua della Libertà  sorridergli dandogli il benvenuto, e strizzare l’occhio  forse perché sapeva che   sarebbe diventato padre di Dean  Martin.

Giunto in  America e  da buon abruzzese, cocciuto,  inquieto e transumante, Gaetano si sposta in diverse  città, prende contatto con i paesani e dopo vari trasferimenti  si ferma in una tranquilla località  chiamata Steubenville dove comincia  ad americanizzarsi e Gaetano, il giovane barbiere di Montesilvano  diventa semplicemente Guy.  Sposa una connazionale di origini  campane, Angela e ben presto  si ritrovò ad essere padre di due  ragazzi, el primo Dino Paul nacque  il 17 luglio 1917 poco tempo  dopo Bill. Per il nostro Gaetano, i figli rappresentavano la speranza,  un motivo in più per perseverare  nella ricerca del sogno americano che, in un certo senso, diventa  realtà attraverso il suo primogenito,  il quale conquisterà fama e fortuna.

VERSO IL SUCCESSO

Dino trascorse l’infanzia tipica  di un italoamericano modesto, costellata da numerosi lavori e da tanti sogni nel cassetto. All’età di cinque anni parlava solo il dialetto  abruzzese, poi frequenta la  scuola solo per imparare l’inglese.  Adolescente abbandona gli studi, impara il mestiere paterno ma  comincia  a cercare anche il suo destino attraverso varie occupazioni: lustrascarpe,  commesso in un supermercato,  il pugile con il pseudonimo Kid Crochet, avventura  durata poco e che lascia per un lavoro  ben più faticoso in miniera, poi benzinaio, tassista e per finire ai tavoli del casinò, prima come   giocatore professionista e poi assunto come croupier. Tra i sogni accarezzati da Dino,quello di diventare cantante era di assoluta priorità, anche perché aveva le condizioni per farlo e le doti che lo aiutarono a scalare  nel mondo della musica. Esordì in night-club di dubbia reputazione come Dino Martini,(cognome preso dal tenore Nino Martini) e con lo stimolo della  numerosa comunità italo-americana,  cominciò a transitare negli ambienti dello spettacolo, nella  scia di altri cantanti di origine italiana come Frank Sinatra, Tony Bennett, Mario Lanza, Perry Como e Vic Damone. Comincia ad assaporare i primi  successi e a consolidare la sua fama  ma, diversamente da quanto  avviene con molti dei citati artisti, mantiene sempre vivo il legame  con le sue radici  e nel suo vasto repertorio, molte  canzoni, sono italiane, “Volare”  “Arrivederci Roma” ecc. e altre, avuto almeno in parte del colorito   linguaggio italo-americano  esempio del successo di “That’s  Amore” dove si arrangia per  combinare “mozerella” che fa rima  con “tarandella”

SPLENDORE  E TRAMONTO

Il mondo dello spettacolo lo  scoprì solo nel 1946 quando il futuro  attore tiene un incontro fondamentale  per la sua carriera con un comico ebreo debuttante, di  nome Joseph Lewitch, in seguito  conosciuto come Jerry Lewis. Uniti costituirono una delle coppie  cinematografiche di maggiore successo nella storia nel grande e  nel piccolo schermo, nel periodo 1948/1956. Insieme girarono 16  film, un  trionfo dopo l’altro.  Dino era solito spiegare che i due momenti più importanti della  sua vita erano stati : “quando si era  associato a Jerry e quando  si era separato da Lewis “Una indipendenza questa che  gli consentì di interpretare ruoli più impegnati, accanto a Marlon  Brando, John Wayne e col suo  amico Frank Sinatra. Inoltre dal 1965 al 1974 condusse il programma televisivo settimanale  “The Dean Martin  Show”.

Per quanto riguarda la sua vita  familiare, fu prolifico di mogli e  figli: si sposò tre volte ed ebbe in  totale 8 figli, dei quali uno adottato.

LE RADICI ABRUZZESI

“Dino” per gli amici, mantenne  sempre vivo il suo legame con le sue radici Il figlio di Gaetano, “lu barbiere”,per  i montesilvanesi é stato  un idolo, affettuosamente  lo chiamavano “zi  Dean”.  Sempre  atteso nel paese, una visita fu più volte programmata,  e sempre rinviata  per i troppi  impegni di lavoro ma, pare che l’attore  tornò almeno  una volta, anche se in forma anonima, in gran segreto,  fermandosi a  riflettere sulle vestigia   della sua  storia familiare.  Tra le battute attribuite a Dino Paul, si ricorda  quella secondo la quale disse: “Le   cose di cui vado particolarmente  fiero e che non ho mai dimenticato,  sia nei momenti di successo  che in quelli meno brillanti,  le mie origini abruzzesi”. Un’altra volta confessò che preferiva le canzoni che gli ricordavano “lu  paese d. papá”. Amava una pietanza  che mamma Angela gli preparava  ogni domenica sera: Quajatieje”e fagioli “ non sapeva fare senza.

Montesilvano si identifica con un suo famoso emigrato: Dino Crocetti, tanto da dedicargli una festa nel mese di luglio. Ma non solo, per onorare la sua memoria, ma anche per premiare gli  abruzzesi che si sono distinti all’estero, ed in particolare in America, con una targa la cui motivazione scritta è: “…per aver realizzato il sogno americano” manifestazione giunta  alla sesta  edizione. Non è tutto oro quello che luccicae anche se Dino è stato conosciuto per la sua simpatia e affabilità negli ambienti sociali e nelle feste, era allo stesso tempo  una persona riservata e taciturna, fedele riflesso del suo essere essenzialmente  abruzzese.

Dean Martin, il cantante, il  showman, un grande abruzzese,  come il canto del cigno, cominciò  a oscurarsi. La morte di un figlio nel 1987 a causa di un incidente  aereo, lo sommerse in una profonda  tristezza, di un padre in lutto. Fu un duro colpo per la sua già  debole salute, che lo portò a ritirarsi  dalle scene. Era l’inizio di  una vecchiaia malinconica en el  fisico comparvero i primi segni  del male che lo avrebbero visto   soccombere più tardi, all’etá di 78 anni, in un triste giorno di Natale de 1995. Fu sepolto nel cimitero di Westwood  in California. L’epitaffio sulla sua tomba, come lui aveva stabilito, è «Everybody Loves Somebody Sometime» (“Tutti amino qualcuno prima o poi”), il titolo di una delle sue canzoni più famose, anche la più amata del nostro “Albertone nazionale”, Moriconi Fernando detto l’ “americano”, e anche una delle preferite del sottoscritto, un pescarese doc, che con altri abruzzesi dell’Argentina abbiamo versato qualche lagrima per la sua partenza da questo mondo.

WALTER CICCIONE – ciccioneg@speedy.com.ar





Egitto, il crepuscolo di Obama di Fabio GHIA *

21 agosto 2013

Egitto: il crepuscolo di Obama

di Fabio GHIA *

TUNISI – E’ dall’inizio delle rivoluzioni arabe, gennaio 2011, che molti interrogativi sulla politica estera statunitense sono rimasti senza risposta. Perché il completo ritiro degli USA dall’area del Mediterraneo; il loro appoggio incondizionato alle forze islamiste del dopo rivoluzioni arabe; il sostegno finanziario al Comitato Nazionale Siriano, nonostante la presenza di oltre quindicimila Jihadisti salafiti; il completo abbandono di personaggi quale Hosni Mubarak, Ben Alì, lo stesso Gheddafi; la chiara volontà ad appoggiare forze “radicali” per l’eliminazione fisica di personaggi politici (Saddam, Gheddafi e Assad)?

I dubbi e le perplessità sono via via aumentati, oltre che per i fatti del Mediterraneo, anche per i risultati ottenuti in Iraq, che mensilmente conta più di un centinaio di vittime del “terrorismo”; in Afghanistan, dove le forze della coalizione non fanno altro che “rintanarsi” sempre più nelle proprie basi onde evitare di essere fatti fuori dai Talebani; per finire con le silenziose dimissioni date dalla Clinton (cui si devono aggiungere anche quelle misteriose del Capo della CIA, Gen. Petreus!) da Segretario di Stato, nel mese di dicembre scorso, con causa principale (mai ufficializzata) la drammatica uccisione dell’Ambasciatore USA in Libia, a Bengasi.

Tutti fatti eclatanti che sono passati sotto silenzio, in particolare per gli alleati europei e la relativa stampa nazionale. Grazie all’improvviso, quanto violento, cambiamento sopraggiunto in Egitto, con l’incarcerazione di Morsi e la condanna del nuovo regime su quanto perpetrato da parte dei Fratelli musulmani, molte sfaccettature del complicato puzzle stanno emergendo mettendo in luce un cambiamento dell’approccio sin qui seguito dagli USA nello scenario Mediterraneo. Cambiamento, preceduto solo di qualche giorno, dalla sostituzione dell’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa, e del suo Primo Ministro, Hamad bin Jassim.

Facendo un passo indietro al maggio 2013, sia il Washington Post che il New York Times, hanno riportato, nel merito dell’uccisione dell’Ambasciatore USA in Libia, che “la Casa Bianca ha deliberatamente manipolato la versione dei fatti approntata dalla CIA, presentando l’attacco contro l’ambasciata statunitense a Bengasi come l’azione spontanea di alcune “schegge impazzite”, offese da un video-parodia del profeta Maometto prodotto negli Stati Uniti, e non come un attacco terroristico pianificato da al-Qaeda, per l’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle”. Il rifiuto di qualificare l’aggressione di Bengasi come “attacco terroristico”, da parte del portavoce della Casa Bianca Victoria Nuland, induce a pensare che l’ordine fosse pervenuto direttamente da Obama.

Sempre contro la politica estera di Obama, inoltre, secondo l’attendibile rivista statunitense Foreign Policy, il 26 giugno è stato presentato un disegno di legge (Dep. Ted Yoho), per vietare a qualsiasi agenzia o istituzione statunitense l’assegnazione di fondi per fornire assistenza militare alle forze della cosiddetta opposizione in Siria. La richiesta con cui è stato avanzato il progetto di Legge entra nel particolare dei rapporti tra ”al-Qaeda” e Qatar negli ultimi due anni, denunciando il sostegno finanziario all’organizzazione terroristica, in particolare per il reclutamento di più di 15.000 Jihadisti (tunisini, libici e egiziani), da inviare in Siria a sostegno delle forze di opposizione al presidente Al Assad. Dal rapporto emerge chiaramente che Barack Obama sapeva che il Qatar aveva finanziato anche i Fratelli musulmani, Al Nhadha in Tunisia, e altri gruppi terroristici, ma, fermamente convinto del “nuovo Ordine Mondiale” da lui proposto attraverso la strategia del “Stay Behind”, ha preferito lasciare mano libera a l’intero scacchiere islamista, purché asservissero agli interessi strategici americani. Se di questa collaborazione tra il Qatar e “il terrorismo islamico” non si era avuta evidenza, è emersa eclatante sia in Libia che in Siria.

A conferma del sopraggiunto cambio di strategia in Qatar, è l’espulsione del leader di Hamas, Khalid Meshaal, e di molti altri affiliati ai radicali Salafiti, voluta dal neo Sceicco Tamim, così come la chiusura della rappresentanza “diplomatica” dei Talebani a Doha, l’espulsione di Yusif Qaradawi, un capo religioso della Fratellanza musulmana, e l’apparente neutralità assunta nei confronti dell’Egitto. Il tutto, sembra essere stato fortemente suggerito e voluto dalla potente Arabia Saudita, che già dal giugno scorso, dopo il secondo assassinio politico perpetrato in Tunisia a cura dei Salafiti (se non ordinato da al Nhadha – partito di Governo), era intervenuto pesantemente contro gli USA per bloccare i finanziamenti del Qatar alle forze estremiste.

Di questo cambio di orientamento ne ha giovato prontamente il generale Abdelfatah al-Sissi, in Egitto, che il 3 luglio ha deposto Muhammad Morsi, grazie anche al sostegno manifestato dall’attuale maggioranza moderata. Come noto, a prescindere dalle iniziali negative reazioni, la Casa Bianca va sempre più orientandosi su un compromesso: prendere atto del cambiamento in Egitto, ma continuare a chiedere la liberazione di Morsi e l’astenersi dal perseguitare i Fratelli musulmani. Lo stallo della situazione in Egitto, tra la scarcerazione di Mubarak, il brutale assassinio di 34 poliziotti attuato dai Jihadisti, il possibile annuncio di nuove elezioni democratiche da tenere entro l’anno, non induce certo per una felice e rapida soluzione.

Inoltre, quello che assorda ancor di più è l’ostinato silenzio, imposto da Obama, sulla situazione in Siria, in Iraq (Shiita), in Afghanistan (Sunnita), in Tunisia e in Libia. Nazioni dove l’appoggio iniziale degli USA ai partiti islamisti resta inconcludente. Per Obama e la sua nuova visione di un Ordine Mondiale all’insegna di una completa apertura all’Islam e ai fratelli musulmani (discorso del Cairo febbraio 2009), è iniziato un triste crepuscolo. La validità della politica di Obama in campo internazionale è, dunque, fortemente messa in dubbio anche in casa, dove il Washington Times ha scritto che “coloro che abbiamo sostenuto in Egitto, Tunisia e Libia sono peggiori rispetto ai loro predecessori. Quelli che sosteniamo in Siria non solo uccidono i loro avversari, ma li squartano e ne mangiano il cuore di fronte a persone e telecamere”. Così come il New York Times ha avuto il coraggio di chiamare “idiota” il Presidente, perché insieme a Anne Patterson, ambasciatrice degli Stati Uniti in Egitto, hanno da sempre lavorato a sostegno degli islamisti che hanno istigato l’opinione pubblica egiziana contro gli USA.

Se tutto questo sta ad indicare la reale dimensione delle catastrofiche scelte di politica di sicurezza internazionale fatte da Obama (non ultimo gli allarmi diramati dagli stessi Usa per probabili attacchi terroristici a livello globale), che cosa ne è stato dell’Europa? Per ora, possiamo solo dire che il Ministro degli Esteri Emma Bonino appare l’unica persona che, con una certa esperienza, sta prendendo le distanze dalla politica USA (proposta di partecipazione dell’Iran alla Conferenza sulla Siria, Ginevra 2 e indifferenza politica per la situazione in Egitto, se non per la difesa dei diritti umani). A monte di ciò, esiste solo la Francia con il ritiro dell’intero contingente in Afghanistan (novembre 2012) e ri-schieramento in Mali a protezione della comunità e delle locali radici culturali cristiane. Un’ulteriore dimostrazione che serve un’impennata di orgoglio europeo, con un unico coordinamento ed una unitaria voce anche in politica estera.

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FABIO GHIA è nato a Napoli il 9 settembre 1946. E’ Contrammiraglio della Riserva della Marina Militare e giornalista free-lance. Svolge libera professione in Tunisia. Formatosi all’Accademia Navale di Livorno, quale Ufficiale di Marina ha comandato diverse unità navali. Sul San Giorgio, nel 1991-92, è stato impegnato in Somalia nell’ ambito della missione umanitaria dell’ONU in operazioni di sicurezza nel porto di Mogadiscio e lungo la costa somala. Ha operato per tre anni presso il Comando Supremo Interalleato (SHAPE), in Belgio, svolgendo poi molteplici incarichi di Stato Maggiore. Dal 1995 al ’97 è stato Comandante della Nave a vela “Orsa Maggiore”, impegnata nel giro del mondo, partecipando a regate oceaniche e vincendo la Transpacifica 97. Per tre anni è stato in servizio presso la Presidenza della Repubblica, nello staff del Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Dal settembre 2001 ha svolto l’incarico di Addetto militare presso l’Ambasciata d’Italia a Tunisi. Nel 2009 è stato collocato nella Riserva. E’ laureato in Scienze Marittime e Navali presso l’Università di Pisa e in Scienze Diplomatiche Internazionali all’Università di Trieste. Iscritto all’Ordine dei Giornalisti di Roma, è autore di numerosi articoli e studi d’interesse strategico, internazionale e umanitario. Editorialista e corrispondente da Tunisi del quotidiano L’Opinione, ha pubblicato scritti e articoli anche sui quotidiani “Italia oggi” e “Italia chiama Italia”, e sui periodici “Radici Cristiane”, “Rivista Marittima”, sulla rivista statunitense “Naval Review ” e sul “Corriere di Tunisi” e su molte altre testate “on line”. Ha un’ottima conoscenza della lingua inglese e francese, parlata e scritta, e una conoscenza di base dell’arabo parlato. Dal 2004 al 2006 è stato Segretario Generale della Camera tuniso-italiana di Commercio e dell’Industria di Tunisi. Dal dicembre 2004 è Delegato per la Tunisia dell’ ANFE (Associazione Nazionale Famiglie degli Emigrati) e dal giugno 2011 Presidente di “ANFE Tunisie”, con la quale opera nel settore della migrazione legale e del “Dialogo Interculturale tra Occidente e Islam”, tenendo a distinguere le differenze culturali esistenti tra le due realtà sociali. Per la sua attività in campo interculturale, nel 2012 è stato insignito a Terni del Premio Floris e dall’ANFE con una Targa d’onore « per la particolare attività svolta nel “Dialogo interculturale e interreligioso ».

(annotazione biografica a cura di Goffredo Palmerini)