UNA READING PUBBLICA PER I CENTO ANNI DI GILBERTO MALVESTUTO

100 anni Gilberto Malvestuto

 

Compirà 100 anni domani, 17 aprile 2021, Gilberto Malvestuto, l’ultimo ufficiale in vita della Brigata Maiella. Ufficiale al Merito della Repubblica italiana e combattente per la libertà, Malvestuto è stato insignito di Croce di guerra al Valore Militare per la sua condotta nella Guerra di Liberazione, suggellata dall’ingresso trionfale nella città di Bologna all’alba del 21 aprile 1945, primo italiano tra i soldati degli eserciti Alleati.

 

In virtù del profondo legame con la città di Sulmona, alla quale Malvestuto è sempre stato profondamente legato, la Fondazione Brigata Maiella ne celebra i 100 anni attraverso un evento pubblico ,organizzato on line, che vedrà la partecipazione degli studenti dell’Istituto Comprensivo “Mazzini-Capograssi” di Sulmona e dell’Istituto “Ovidio”, coordinati dalle professoresse Daniela La Civita e Gelanda Martorella. In un’ideale staffetta che vuole simboleggiare la trasmissione della memoria da uno degli ultimi testimoni diretti degli anni bui ed eroici del 1943-1945 alle nuove generazioni, gli studenti leggeranno passi del libro di memorie di Gilberto Malvestuto (Sulle ali della memoria, per non dimenticare, Amministrazione provinciale dell’Aquila, 2010) e sue testimonianze rilasciate nel corso degli anni, unitamente ad alcuni brani significativi sulla Resistenza.

 

La prima ribellione di Malvestuto, una reazione contro l’ammaestramento delle parole e del pensiero imposto dal fascismo, nasce tra banchi dell’Istituto magistrale, che frequenta accanto all’amatissima Leda Comitis, sua futura compagna, proveniente da una nota famiglia antifascista di Sulmona. La comunanza affettiva e di ideali socialisti con Leda lasciano un segno indelebile nella formazione di Malvestuto e lo muoveranno anche in seguito vero i valori dalla Resistenza.

L’8 settembre è a Montepulciano Scalo, appena nominato sottotenente, per l’espletamento del servizio di prima nomina. Interrotti i collegamenti del Comando con Siena, in assenza di ordini superiori, egli rimane consegnato in caserma con il suo Battaglione per poter sostenere un eventuale attacco della Wermacht, che intanto si accinge ad occupare militarmente l’Italia centro-settentrionale. Solo attorno al 12-13 settembre arriva l’autorizzazione ad abbandonare il presidio. Con altri ufficiali rimasti in zona e una licenza straordinaria “in attesa di disposizioni”, Malvestuto si mette in viaggio per rientrare in Abruzzo. Abbandonata l’uniforme di ufficiale dell’esercito italiano, fortunosamente raggiunge la città natale dove passa, alla macchia, i nove mesi successivi.

Quando nel giugno del 1944 la Banda Patrioti della Maiella valica il massiccio omonimo e dilaga nella vallata peligna mettendo fine all’occupazione nazi-fascista, Gilberto sceglie per la seconda volta la strada della ribellione con l’adesione alla Resistenza. La sua è di nuovo una scelta morale: a 23 anni avrebbe potuto tornare a vivere liberamente, avendo intanto sostenuto e vinto un concorso pubblico nazionale per la qualifica di alunno d’ordine di stazione. Eppure decide di combattere per la “liberazione dei fratelli del Nord”, aderendo all’appello lanciato da Ettore Troilo, a cui resterà legato, anche nel dopoguerra, in un rapporto di stretta collaborazione basato su una profonda stima reciproca.

Raggiunta la Maiella a Recanti, Malvestuto si arruola con il grado di sottotenente e viene assegnato alla Compagnia Pesante mista. Dalla fine di ottobre 1944 prende parte ai combattimenti sostenuti in Romagna e in Emilia per la liberazione di Monte Castellaccio, Brisighella, Monte Mauro, Monte della Volpe, Monte della Siepe. Trascorre il lungo inverno del ’44 sul Fiume Senio, sul Lamone, sul Fiume Indice, fino alla radiosa primavera che lo vede protagonista della liberazione di Castel San Pietro alla testa della sezione Mitraglieri. La stessa, integrata da un plotone della 1° Compagnia Fucilieri, libererà Bologna intanto insorta contro le forze tedesche e fasciste il 21 aprile 1945.

Tra le pagine più dolorose del suo Diario di guerra, la perdita di Oscar Fuà, studente diciassettenne di Sulmona, caduto a Brisighella e quella del Capitano Mario Tradardi, la mattina del 17 dicembre 1944 a monte Mauro, di cui Malvestuto vorrà portare il feretro a spalla. Tra le pagine più luminose, la solidarietà della popolazione di Modigliana, che lo ospita con i Maiellini la notte di Natale del 1944 e quella dei Bolognesi, di cui ha sempre ricordato il festoso abbraccio al termine della lunga avanzata lungo la Via Emilia.

“I nomi di battaglia non contavano nella Maiella”, ha raccontato Malvestuto a Gad Lerner nella lunga intervista rilasciata lo scorso aprile per la trasmissione “la Scelta”, noi combattevamo a viso aperto.

La terza ribellione nei 100 anni di Gilberto Malvestuto è quella profusa nell’impegno e nella testimonianza civile, soprattutto in veste di Presidente e membro del Direttivo dell’Istituto Abruzzese per la storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea.

“I Cento anni di Gilberto Malvestuto – afferma il Presidente della Fondazione Brigata Maiella, Nicola Mattoscio – ci richiamano alla nostra visione del mondo, all’immagine di avvenire che ciascuno di noi intende impegnarsi a costruire. Avere memoria, infatti, non significa solo conoscere gli eventi del passato, ma anche costruire il futuro sulla base delle idealità che Gilberto e i Maiellini hanno seminato nella mentalità e nella coscienza civile di tutti noi”.

 

 

 




PARTIGIANE LIBERALI. ORGANIZZAZIONE, CULTURA, GUERRA E AZIONE CIVILE

 

Partigiane liberali

Sarà presentato venerdì 16 aprile 2021, nel corso di un evento pubblico organizzato on line dalla Fondazione Brigata Maiella, il volume di Rossella Pace, Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile (Rubbettino, 2020). La presentazione è inserita nella Rassegna “Questione di Resistenze”, che vuole favorire la conoscenza dei più aggiornati prodotti della ricerca storica sui fenomeni plurali delle Resistenze.

 

Costruito sulla base di documenti inediti, in larga parte provenienti da archivi familiari privati, il libro Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile (Rubbettino 2021) muove dall’analisi della variegata e cospicua letteratura dedicata alla Resistenza negli ultimi trent’anni. Dagli anni Novanta in poi – afferma l’autrice – la trattazione della guerra partigiana è uscita lentamente dal doppio binario della memorialistica ufficiale, per lo più relegata ad una narrazione non divisiva, e dalla ricostruzione fortemente ideologizzata, dominata dalla matrice socialcomunista.
Nel dibattito storiografico si sono progressivamente messe in evidenza la varietà e la conflittualità dello schieramento antifascista, ma è stato scarsamente riconosciuto l’apporto politico e militare delle componenti afferenti alle idealità cattolica, monarchica e liberale.
A questa “anomalia” storiografica Partigiane liberali si propone di dare un nuovo contributo, evidenziando i fili di una trama che descrive la partecipazione, a lungo sottaciuta, dei liberali alla lotta di Liberazione. E lo fa offrendo particolare attenzione all’attività svolta delle figure femminili.

Il ruolo della donna tra il 1943 e il 1945, anch’esso riscoperto tra vuoti di varia natura a partire dagli anni Novanta, richiede, infatti, una più attenta valutazione nell’apprezzamento della complessità di un’azione che si mosse instancabilmente tra scena politica e vita quotidiana, tra Resistenza “civile” e Resistenza militare.

Mediante un’accurata ricostruzione documentale, il libro di Rossella Pace apre uno spaccato sui salotti di alcune famiglie dell’élite borghese settentrionale di consolidata tradizione antifascista: realtà già propense alla figura di potenti matriarche, dove “Partigiane liberali”, forti, indipendenti, dotate di senso del dovere e di una naturale adesione all’ideale della libertà contro ogni oppressione, vennero cooptate automaticamente nell’attività resistenziale finendo per svolgere un ruolo di primo piano nell’organizzazione, nel coordinamento e nella direzione della lotta al nazi-fascismo. Lungi dall’essere indifferenti all’impegno corale per la riaffermazione della democrazia, le donne liberali – è questo il tema centrale del libro – fornirono uno dei contributi più rilevanti tra le varie famiglie politiche italiane.

Virginia Minoletti Quarello, attiva tra Genova e Milano, organizzò il servizio il trasporti di materiali logistici e di armi del CLNAI, per poi entrare nel comando del Corpo volontari della libertà e diventare una dirigente dell’organizzazione Franchi (la corposa formazione guidata da Edgardo Sogno); Cristina Casana fece della villa di famiglia una delle basi logistiche e di comunicazione della stessa organizzazione Franchi, ospitando una stazione radio e offrendo rifugio a partigiani alla macchia, ricercati ed ebrei in fuga; Maria Giulia Cardini divenne capo cellula di una missione militare alleata tra la valle di Susa e la val Pellice.

I loro nomi e quelli di molte altre “Partigiane liberali”, non solo andrebbero sottratti all’oblio storiografico, ma rappresentano altrettanti fulcri da cui poter rintracciare una nuova e più dettagliata mappa della strutturata rete partigiana liberale. “Probabilmente causa dei problemi affrontati dalla compagine liberale nel dopoguerra, per le dinamiche interne al partito nonché per una certa forma di autoesclusione ascrivibile alle stesse protagoniste – afferma Rossella Pace – questi nomi sono rimasti finora celati”.

 

Dopo i saluti introduttivi del Presidente dalla Fondazione Brigata Maiella, Nicola Mattoscio e dell’editore Florindo Rubbettino, discuterà con l’autrice, Eugenio Capozzi, professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di lettere dell’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. L’evento sarà visibile il 16 aprile 2021 dalle ore 17.30 sul profilo Facebook della Fondazione Brigata Maiella al seguente link https://www.facebook.com/Fondazione-Brigata-Maiella-1594887637406894

 

Rossella Pace è segretario generale dell’Istituto storico per il pensiero liberale internazionale. Si è occupata di storia del liberalismo, di Resistenza, di storia sociale e di relazioni diplomatiche. Oltre a vari saggi ed articoli su riviste specialistiche ha pubblicato il volume La resistenza liberale nelle memorie di Cristina Casana (Rubbettino, 2018).

Eugenio Capozzi è professore ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di lettere dell’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”. È autore di numerosi studi, tra i quali: Il sogno di una Costituzione (2008), Partitocrazia (2009), Storia dell’Italia moderata (2016), Politicamente corretto, storia di un’ideologia (2018).

 




L’Aquila. “IL PRIGIONIERO DIMENTICATO”. Il nuovo libro di Serpentini e Di Giovanni sulla prigionia di Enrico Sappia a Castel dell’Ovo di Napoli

di Goffredo Palmerini

Enrico Sappia

L’AQUILA – E’ uscita in questi giorni per i tipi di Artemia Nova Editrice l'ultima fatica degli studiosi
Elso Simone Serpentini e Loris Di Giovanni dal titolo “Il prigioniero dimenticato. La detenzione di
Enrico Sappia a Castel dell'Ovo (1850-1854)”. Nella precedente biografia di Enrico Sappia, cospiratore
e agente segreto di Giuseppe Mazzini, scritta a quattro mani da Elso Simone Serpentini e Maurice
Mauviel, alla detenzione del “nizzardo errante” nel carcere napoletano di Castel dell'Ovo è dedicato il
secondo capitolo, per un totale di cinquantatre pagine. Viene descritto sommariamente un arco di vita
di poco meno di quattro anni, da quando Sappia non aveva ancora compiuto 18 anni, a quando ne
stava per compiere 22, dal dicembre 1850 al febbraio 1854. Ulteriori ricerche condotte da Serpentini
e Di Giovanni presso l'Archivio di Stato di Napoli e in altri archivi, tra cui quello privato Damiani di
Palermo, hanno consentito di scandire con maggiori dettagli e con più minute informazioni questa
detenzione napoletana di un personaggio singolare, la cui vita avventurosa attraversa per lungo tratto
gli accadimenti più significativi della seconda metà dell'Ottocento e lo porta a contatto diretto con le
maggiori personalità italiane ed europee del proprio tempo.

Enrico Sappia

Nell’introduzione citata alla biografia di Enrico Sappia si rimarcava che più si investigava su questo
misterioso personaggio – un lungimirante intellettuale che aveva messo il suo genio al servizio di un
ideale repubblicano mosso da una democratica visione dell’Europa – più cresceva il desiderio di
conoscere meglio la sua personalità, per molti versi sfuggente, in quanto volutamente tenuta nascosta
ai curiosi. L’analisi dettagliata dei documenti relativi alla sua detenzione a Castel dell’Ovo e dei nuovi
documenti rinvenuti conferma la segnalata impressione e porta gli autori di questo volume ad
esprimere la soddisfazione per la riuscita del tentativo di mettere in luce molti aspetti di un periodo
cruciale della vita tumultuosa di Sappia, determinante per la formazione del suo carattere, di cui negli
anni successivi si avrà un'espressione ancora più articolata.

Enrico Sappia

Il contributo ad una maggiore conoscenza del personaggio Sappia, così come esso si viene formando
nell'età giovanile, viene soprattutto dai rapporti della polizia borbonica, dai suoi scritti vergati durante
la detenzione, specie quelli poetici, dai suoi comportamenti in carcere, alla continua ricerca di un
modo, sempre assai scaltro, di rendere più tollerabile la detenzione. Mentre altri detenuti, anche di
rilevante notorietà, ebbero a soffrire a Castel dell'Ovo pene e sofferenze indicibili, il giovane Sappia,
pressoché imberbe, seppe ricorrere ad una incredibile serie di stratagemmi per alleviare le sue
sofferenze con una proteiforme capacità di simulazione e di adattamento. Giocò con la polizia
napoletana e con i suoi carcerieri con grande astuzia, promettendo rivelazioni in cambio di trattamenti
più benevoli, concedendone alcune, vere ma mischiate ad altre false e incredibili, al solo scopo di
rendersi “appetibile” agli occhi di chi era abituato a servirsi delle confidenze dei carcerati, estorte in
vari modi, non esclusa la tortura o la minaccia di tortura, per avviare sempre nuove istruttorie e nuove
carcerazioni.

Henri Sappia

Anche riguardo ai quattro anni della detenzione a Castel dell'Ovo vale ciò che si diceva nella citata
introduzione alla biografia di Sappia. Lo storico apprende progressivamente che la sua ricerca non può
mai avere fine. Perciò quanto trovato nei fascicoli dell'Archivio di Stato di Napoli e nell'Archivio
Damiani, o in altre fonti documentaristiche, deve essere considerato non l'ultimativa e definitiva
ricostruzione di un’incredibile odissea, quale fu la vita di Sappia, ma un terreno di coltura sul quale il
seme dell'indagine può ancora attecchire e germogliare. Non tutte le porte si sono aperte e non di tutte

le serrature si sono trovate le chiavi, perciò alcune domande restano senza una risposta conclusiva e
portano solo ad ipotesi storiche e storiografiche, illuminate anche dallo svolgimento successivo degli
elementi biografici del nizzardo.
Ad altre domande la risposta che viene data in questo lavoro è compiuta e certa, così come le ipotesi
che ne conseguono. Il giovane prigioniero usò l'arte dell'infingimento e le sue mosse furono,
nonostante la giovanissima età, sempre avvedute, pur avendo a che fare con vecchie volpi ed esperte
faine, che seppe ingannare e tenere avvinte alle sue reti e alle sue capacità seduttive. La stessa
strategia usò con il non meno esperto comandante del Forte, direttore del carcere, di cui seppe
cogliere le debolezze, riuscendo ad infiltrarsi nella sua famiglia, della quale seppe guadagnarsi le
grazie. Le sue profferte di sudditanza al Re, che si proponeva di uccidere a suo arrivo a Napoli,
sembravano sincere, ma non lo erano, così come non erano sinceri i suoi pentimenti e le sue abiure del
settarismo, le sue conversioni religiose e i suoi cedimenti. Questo anche nella seconda parte della sua
detenzione, gli ultimi due anni, quando in parte il suo gioco venne scoperto e le condizioni carcerarie si
fecero più dure.
Tutto quello che disse e tutto quello che fece aveva un solo obiettivo: alleviare la sua sofferenza. Tutto
il resto non contava e passava in secondo piano. La sua scaltrezza è indubbia. Perfino il far finta di non
avvedersi che gli erano stati messi alle costole agenti provocatori, con il compito di spiarlo e di riferire
ciò che faceva, ciò che diceva e ciò che pensava faceva parte del gioco e del suo armamentario. Di
quegli agenti egli si servì per far sapere ai suo carcerieri ciò che desiderava che essi sapessero, pur
consapevole che essi non avrebbero creduto, per nulla o in parte, alle informazioni che egli dava loro
con quel mezzo. Il gioco a rimpiattino fra le due parti fu un gioco di specchi contrapposti nel quale
ciascuno tentava di essere più scaltro dell’altro e fare la mossa vincente.
Gli ultimi due anni, più pesanti, furono per lui a Castel dell'Ovo oggettivamente più difficili. Ma il gioco
continuò, mentre l’indifferenza sostanziale del governo piemontese alle sue sorti, o il ritardo con il
quale se ne occupava su sollecitazione di taluni membri dell'apparato, faceva di lui, di fatto, un
“prigioniero dimenticato”, che perciò doveva fare affidamento solo su se stesso per sopravvivere fino
alla sospirata scarcerazione. E, quando questa alla fine arrivò, restò nel prigioniero Sappia una rabbia
contenuta a fatica, che gli fece perfino immaginare di poter tornare subito a Napoli, per prendersi
chissà quale rivalsa, o, forse, fingere di volervi tornare per confondere i suoi carcerieri. I protagonisti
di quello che la stampa inglese descrisse come un inferno in terra, quello delle prigioni borboniche, di
cui tante altre vittime si dolsero con espressioni tanto e tanto a lungo gridate – si pensi a Luigi
Settembrini e a Sigismondo Castromediano -, a fronte del giovane e scaltro Sappia appaiono
personaggi di rango inferiore a quello descritto in altri racconti, spesso confusi dalle arti quasi magiche
del giovane prigioniero piemontese.
Il terribile Prefetto di Polizia Gaetano Peccheneda, quasi un mostro di misfatti, l’orco dei racconti, a
fronte dell'impudenza di Sappia acquista, così come il suo successore Orazio Mazza, non meno
famigerato, un carattere “più umano”. Castel dell'Ovo, che per altri fu, e tale apparve, lo Spielberg
italiano, capace con la sua durezza di piegare anche i temperamenti più solidi. Per Sappia invece fu,
per lunghi tratti, quasi un comodo albergo, con vista sul mare, nel quale potersi concedere il tempo per
la poesia e dal quale uscire per gite di piacere nelle principali località turistiche del circondario
napoletano. Così si chiude il condensato del libro in terza di copertina: “[…] Lui è Enrico Sappia e dal
primo momento gioca con i suoi carcerieri, con il Comandante del Forte, col Prefetto di Polizia, con lo
stesso Sovrano, una partita a scacchi che ha una posta altissima: la vita. E’ una partita che dura quattro
lunghi anni, tra alterne vicende, delazioni, ritrattazioni, lusinghe, spie, agenti, provocatori, arroccamenti.
Poi arriva la mossa a sorpresa che mette il Re “sotto scacco” e gli apre la porta di una delle più temute
prigioni del Regno. […]” Dopo la scarcerazione, l'esperienza detentiva si rivelò educativa per il
cospiratore e agente segreto di Mazzini. Enrico Sappia farà tesoro di questa esperienza quando

diventerà l'agente di Mazzini, cambiando mille volti e mille nomi per apparire e scomparire, quasi per
incanto, in tutti gli scenari più importanti del Risorgimento italiano.
Giova infine dare, al lettore di questa nota, solo qualche cenno sull’intensa e movimentata vita di
Enrico Sappia. Era nato il 17 aprile 1833 a Toetto di Scarena, un villaggio allora piemontese (ora
Touët de l'Escarène, nelle Alpi marittime francesi) nella contea di Nizza, da un’antica famiglia benestante.
Trasferitosi con la famiglia a Nizza, il giovane Enrico si forma nel Collegio dei Gesuiti seguendo studi
classici. Appena quindicenne nel 1848 lascia la città per seguire Giuseppe Garibaldi in Lombardia, nella
guerra d’indipendenza contro l’Austria. Dopo la sconfitta si rifugia a Roma, dov’era stata costituita la
Repubblica Romana e vi conosce Giuseppe Mazzini. Mentre le truppe francesi stanno per entrare a Roma
riesce a fuggire e ad imbarcarsi per Costantinopoli, entrando in contatto con irredentisti repubblicani che
si ripromettono di attentare ai principali sovrani d’Europa. Rientrato a Nizza avvia una rete di contatti con
repubblicani italiani e francesi. Nel settembre 1850, a Torino, concorda una missione nel Regno delle Due
Sicilie, pare con l’intenzione d’attentare alla vita del re Ferdinando II. Fatto sta che appena arriva a Napoli
viene arrestato dagli agenti borbonici e ristretto nel carcere di Castel dell’Ovo, subendo una durissima
detenzione – di cui si parla diffusamente in questo interessante volume di Serpentini e Di Giovanni –
durata ben quattro anni.
Scarcerato nel 1854, torna in Piemonte e veste la divisa di granatiere, ma quattro anni dopo, retrocesso nel
grado, è presto costretto a lasciare l’esercito. Inizia quindi la sua peregrinazione da Torino a Firenze a
Roma e quindi in Francia, dove nel 1869 dà alle stampe a Parigi, con uno pseudonimo, il libro Mazzini,
Histoire des conspirations mazziniennes (tradotto da Elso S. Serpentini e pubblicato nel 2020 da Artemia
Nova Editrice), con il quale si propone di coniugare il pensiero mazziniano con il socialismo rivoluzionario.
Segue un’intensa attività giornalistica contro Napoleone III, tanto che viene processato e condannato a 15
anni di carcere, ai quali si sottrae raggiungendo Parigi, dove partecipa ai disordini seguiti alla sconfitta
francese del 1870, subita nella guerra contro la Prussia. Ripara quindi a Londra, da dove denuncia la
repressione francese dei moti irredentisti del febbraio 1871 a Nizza, per il ritorno della città sotto il Regno
d’Italia. Nel 1874 torna a Napoli, poi va in Puglia, quindi in Abruzzo, a Teramo, dove svolge attività
giornalistica e di docente, pubblicando numerosi lavori storici e d’arte. Resta in Abruzzo una decina di anni,
fino al 1890, trasferendosi poi a Caserta, insegnando italiano e storia in un seminario. Nel 1896 torna a
Nizza dove tenta la carriera di romanziere, scrivendo in italiano, ma senza successo. Nel 1898 fonda il
periodico Nice historique, mentre continua a seguire – con Academia nissarda – un’attività culturale di
difesa della specificità nizzarda rispetto all’invadenza francese. Muore a Nizza il 29 settembre 1906.




Guardiagrele. Non si riscrive la storia, si riparano i suoi danni

 

 

La Brigata Maiella a Bologna

In merito alle recenti polemiche suscitate dalla proposta di revoca della cittadinanza onoraria di Guardiagrele attribuita a Benito Mussolini nel 1924, il Presidente della Fondazione Brigata Maiella, Prof. Nicola Mattoscio, richiama l’attenzione collettiva sulla necessità di valutare attentamente la differenza tra riscrivere la storia e riparare ai suoi danni:

Fu concessa un’onorificenza ad un personaggio rivelatosi poi non meritevole, almeno per i tradimenti verso i supremi interessi nazionali e per aver condannato il popolo ad una vera macelleria, con il disastro della guerra, dopo averlo privato di ogni libertà. Quindi, con l’iniziativa non si dovrebbe intendere in alcun modo il tentativo ‘politico’ di condannare e/o riscrivere la storia, che resta sempre tale, nel bene e nel male. Ma si intenderebbe semplicemente cancellare un’onorificenza ad un inappellabile immeritevole sotto ogni aspetto morale”.

Persino con riferimento all’attualità vige e si applica questo principio; che si può facilmente riscontrare anche in capo ai più alti livelli istituzionali, come nei casi in cui il Presidente della Repubblica ritiri il titolo di Cavaliere del Lavoro al titolare condannato in giudizio, per il venir meno proprio del requisito di onorabilità!

La Fondazione Brigata Maiella, peraltro, ha di recente promosso la sottoscrizione della legge di iniziativa popolare contro la propaganda e diffusione di messaggi inneggianti al fascismo, proposta dal comitato presieduto dal Sindaco di Sant’Anna di Stazzema, ritenendo che non sia più ammissibile concepire l’antifascismo come un valore “divisivo”, poiché esso deriva dall’obbligo “unitario” di applicare e rispettare la nostra Costituzione, ovviamente antifascista.

Si ricorda che la Brigata Maiella, oltre ad aver contribuito alla Liberazione di Guardiagrele insieme ai reparti del Corpo italiano di Liberazione nel giugno del 1944, ha contato tra i suoi numerosi aderenti un nutrito gruppo di uomini originari della cittadina. I patrioti di Guardiagrele, costituitosi nel XII plotone, furono i destinatari di un Elogio diretto fatto dal Generale del V Corpo d’Armata Inglese, Generale Ritchie, il 4 maggio 1944 per la loro condotta esemplare.

Intendiamo preservare la memoria dei Maiellini – prosegue il Prof. Mattoscio – tutelando anche il lascito valoriale insito nella Lotta di Liberazione che implica necessariamente il riconoscimento di un universo di idee opposte ai totalitarismi, di cui il cavalier Benito Mussolini è stato un fin troppo triste emblema”.




Giulianova. Sistemato il muretto del cimitero monumentale. Il manufatto storico era stato abbattuto da un tir

ingresso cimitero comunale

ingresso cimitero comunale

Le maestranze comunali hanno ultimato gli interventi di sistemazione del
muretto dell’ingresso principale del cimitero monumentale di Giulianova.

La struttura era stata danneggiata nel mese novembre da un tir che, durante
una manovra di cambio direzione, aveva letteralmente abbattuto il muretto,
protetto dal vincolo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e
Paesaggio dell’Abruzzo, quale cimelio storico della Prima Guerra Mondiale.

Grazie all’acquisizione delle immagini di videosorveglianza e alla raccolta
di alcune testimonianze, la Polizia Municipale è riuscita a risalite alla
targa del mezzo e alla compagnia assicurativa mentre gli uffici comunali
hanno allestito la prativa per quantificare il danno e recuperare
l’importo.




La città di Giulianova commemora il poeta Antonio De Micheli, esule nella Seconda Guerra Mondiale e sepolto nel cimitero monumentale

targa antonio de micheli

giornata del ricordo giulianova (1)

Targhe Cimitero monumentale Giulianova

Giornata del Ricordo in memoria dei massacri delle foibe e dell’esodo
giuliano dalmata

La città di Giulianova commemora il poeta Antonio De Micheli, esule nella
Seconda Guerra Mondiale e sepolto nel cimitero monumentale

Alla cerimonia la partecipazione del Comune di Roseto, dove De Micheli
trascorse gli ultimi anni di vita

In occasione della “Giornata del Ricordo”, istituita con la legge 30 marzo
2004 n.92, che ricorda i massacri delle foibe e l’esodo giuliano dalmata,
il Comune di Giulianova, nel rispetto delle norme anti Covid-19, ha
organizzato un momento istituzionale per commemorare la figura del poeta
Antonio De Micheli, arrestato e internato dagli austriaci nella Prima
Guerra Mondiale ed esule dalmata alla fine della Seconda. Nato a Sebenico
il 24 giugno 1881 e vissuto come esule negli ultimi anni a Roseto degli
Abruzzi, irredentista, giornalista, docente ed esule dalmata, De Micheli
visse tra i due conflitti mondiali e fu testimone diretto degli orrori
delle guerre, per poi morire a Pescara il 22 aprile 1964 ed essere sepolto
nel cimitero monumentale di Giulianova, secondo le sue ultime volontà.

Come racconta il ricercatore storico giuliese Walter De Berardinis, autore
dei principali studi su De Micheli, “la salma, per espressa volontà del
poeta, fu tumulata a Giulianova, alla presenza di una delle due figlie;
amava anche Giulianova antica e il suo cimitero monumentale”.

Per onorare Antonio De Micheli, questa mattina, all’ingresso del cimitero,
è stata scoperta una targa alla sua memoria, alla presenza del sindaco
Jwan Costantini, dell’assessore alla Cultura del Comune di Roseto
Carmelita Bruscia e del commissario dell’Istituto Nazionale per la Guardia
d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon ed autore degli studi su De
Micheli Walter De Berardinis, recante l’incisione, “Qui riposa in pace il
poeta apocalittico “ENNE ENNE”. Nei suoi canti invocò il Caos e la Morte,
tentò ogni mezzo di prolungare la vita sino alla più tarda età”.

L’iniziativa istituzionale gode dell’alto patrocinio dell’Associazione
Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e dell’Istituto Nazionale per la
Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon.

Nel suo intervento il ricercatore De Beradinis ha ricordato che la città di
Giulianova ospitò gli sfollati italiani alla fine delle ostilità del 1945,
tra cui alcuni esuli provenienti dall’Istria, Fiume e Dalmazia. Una di
queste famiglie, tra le tante ancora presenti in città, si segnalano i
Volpe, che diedero in quei tragici giorni, il loro tributo di sangue con
la morte del figlio Armando Volpe, nato a Castel di Sangro il 28 novembre
1919, residente a Fiume e morto il 22 luglio 1945 nel campo di
concentramento di Borovnica (oggi in Slovenia), catturato dall’Esercito
Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

Dopo la scopritura della targa da parte del primo cittadino, il cerimoniere
Walter De Berardinis ha letto una preghiera in memoria delle vittime delle
foibe e portato i saluti del presidente dell’INGORTP, Ugo D’Atri e
dell’A.N.V.G.D. a nome di Mario Diracca e Donatella Bracali. Dopo aver
illustrato le motivazioni che hanno portato la città a commemorare l’esule
dalmata, ha preso la parola l’assessore Bruscia, che ha portato i saluti
del sindaco di Roseto degli Abruzzi, Sabatino Di Girolamo e
dell’amministrazione comunale.

La cerimonia si è conclusa con i saluti del sindaco del Comune di
Giulianova Jwan Costantini.

A seguire un profilo del poeta tracciato dal ricercatore storico De
Beradinis.

Antonio De Micheli, il poeta dalmata sepolto a Giulianova

Di Walter De Berardinis

Il prof. Antonio De Micheli nasce a Sebenico il 24 giugno 1881, da Ivan
Giovanni (originario di Bisceglie) e da Elvira Maroli. Iniziò gli studi a
Spalato, dove si erano trasferiti i genitori, ma ben presto iniziarono gli
scontri con i suoi coetanei slavi e austriaci. Laureatosi a pieni voti
all’Università di Vienna in Filologia romanza e slava, proseguirà gli
studi di giurisprudenza a Padova dove conosce e si lega al prof. Nino
Tamassìa. Nel 1907 si sposta ad Assisi per uno studio su san Francesco e
incontra il prof. Leto Alessandri, bibliotecario della Comunale, che lo
incoraggia a pubblicare la sua opera prima: Le Antiche Leggende di
Francesco di Assisi e la critica Francescana di quest’ultimi decenni,
studio critico con appendice. Rientrato in patria, insegnerà al Ginnasio
Reale Provinciale di Pisino, Zara, Pola, Spalato, Trieste e collaborerà
con il linguista Ugo Pellis. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale
verrà internato, con l’intera famiglia, a Wagna, nel sud-est dell’Austria.
Rientrato in patria inizia la sua campagna irredentista su “Il Lavoratore”
contro i colleghi de “L’Edinost”. Intanto il Governo lo nomina Preside
dell’istituto tecnico di Idra (territorio sloveno occupato), nomina poi
contestata dai suoi stessi colleghi di lingua slovena per aver editato i
“Libri di Lettura per le scuole allogene” non graditi agli slavi. Infatti,
i testi, furono ritirati dal governo Nitti per non urtare la
suscettibilità del popolo sloveno, tornando di fatto all’uso dei vecchi
testi scolatici più consoni per la comunità slovena. In realtà, secondo la
parte slovena, ci furono accuse di plagio e l’uso alquanto discutibile dei
metodi pedagogici. La decisione di ritirare i libri, da parte del governo,
provocò le dimissioni irrevocabili del De Micheli. Nel 1921 entra nella
redazione del “Il Popolo di Trieste”, dove conosce e fa amicizia con il
teatino, Donatello D’Orazio, ed altri intellettuali triestini. Il 24
novembre 1925 pubblica il manifesto ai Dalmati dal titolo: “Ai Dalmati
residenti a Trieste e nella Venezia Giulia”. Nel novembre del 1933, dal Re
d’Italia, Vittorio Emanuele III, arriva il conferimento di Cavaliere
Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Gli anni seguenti sarà
docente presso il Regio Istituto Industriale di Trieste e collaborerà
assiduamente con “Il Popolo di Trieste”, per promuovere la lingua italiana
nell’Istria e la Dalmazia. Dal 1939 inizia le pubblicazioni di diversi
libri: Scintille e Battaglie, pagine d’irredentismo e di vita fascista; I
canti della Solitudine; I Canti della Mia Passione; L’Eptacordo o Canti
del Mistero; Sinfonia Cosmica: echi di pace, di dolore, di vita, di morte;
Dante in Croazia e Negli Abissi dell’Anima, canti di elevazione e di
smarrimento umano. Tra il 1943 e il 1945 si trasferisce a Parma per
insegnare. Negli anni ’50, in visita di piacere in Abruzzo, conosce e
s’innamora di Roseto degli Abruzzi, sarà ospitato dalla letterata
Angiolina Scavongelli in Giannuzzi. A Roseto uscirà la sua ultima opera
letteraria: “I Segni dell’Apocalisse” con l’editore Marino Solfanelli di
Chieti e “Tra rovi e spine, raccolte di novelle”, ma non sarà mai stampato
ed il manoscritto è introvabile. Nell’ultimo anno di vita, nonostante gli
acciacchi, insieme al giovane compositore rosetano, il M° Francesco
Pincelli e recitata da Renato Di Carmine, dedica una poesia alla città che
lo aveva ospitato e fatto ammirare la sua Dalmazia dal lato opposto del
mare Adriatico: Melodia tra le Rose, inno che negli anni successivi verrà
cantato in tutte le scuole di Roseto durante le manifestazioni pubbliche.
Alle ore 14.00 del 22 aprile 1964, nell’ospedale civile di Pescara, si
spegneva l’esistenza dell’esule e poeta dalmata De Micheli. La salma, per
espressa volontà del poeta, fu tumulata a Giulianova, alla presenza di una
delle due figlie; amava anche Giulianova antica e il suo cimitero
monumentale. L’anno successivo, gli amici di sempre, scoprirono nella
stessa casa una lapide marmorea, ma fatta rimuovere subito dalle autorità
pubbliche per mancanza di autorizzazioni. Il 27 luglio 1980 si spegneva
l’esistenza anche della letterata Angiolina Scavongelli Giannuzzi e a
seguire anche la morte del giornalista teatino Donatello D’Orazio, 19
ottobre 1986. Nel 1990 la casa dove visse il poeta fu acquistata dalla
signora Lidia Panicciari, la stessa che poi ha conservato la targa
malridotta fino all’estate del 2019, quando viene riscoperta e ricollocata
al suo posto l’11 febbraio 2020.




Bellante. Commemorazione dei Martiri delle Foibe, domenica 7 febbraio

Alla presenza e con intervento dell’Assessore alla cultura, Teresa Di Berardino, domenica 7 febbraio, a partire dalle ore 10.00, in Piazza Mazzini a Bellante paese (TE) l’Associazione culturale Nuove Sintesi ricorderanno una Tragedia Nazionale: i MARTIRI DELLE FOIBE E GLI ESULI GIULIANO-DALMATI.
Ricorderemo quindi – aggiungono in una nota – le MIGLIAIA DI ITALIANI MASSACRATI dall’ODIO SLAVO-COMUNISTA e gli oltre 300.000 ESULI di ISTRIA, FIUME E DALMAZIA.

– UNA PULIZIA ETNICA CHE, DOCUMENTI ALLA MANO, HA INIZIO A PARTIRE DALLA SECONDA METÀ DELL’ ‘800. – LA LEGGE 92 DEL 30 MARZO 2004 HA ISTITUITO LA GIORNATA DEL RICORDO IL 10 FEBRAIO.

UNA STORIA OCCULTATA PER DECENNI, UNA STORIA DOLOROSA, UNA STORIA TUTTA ITALIANA, UNA STORIA DI VILE SILENZIO.
* Uniche bandiere consentite alla Cerimonia di Commemorazione il TRICOLORE italiano e le bandiere di ISTRIA, FIUME e DALMAZIA.



Scompare un altro protagonista dell’epopea Maiellina UBALDO GROSSI

 

Ubaldo Grossi

È scomparso ieri a Sulmona Ubaldo Grossi. Con lui si perde un altro testimone della guerra di Liberazione, un protagonista della lotta per riscatto italiano dal nazi-fascismo, che aveva vissuto appieno l’epopea maiellina, passando da Roma all’Abruzzo, dalle Marche alla Romagna, fino alla riconquista della Libertà simboleggiata dalla vittoriosa presa di Bologna il 21 aprile 1945.

Nato a Isernia, Ubaldo Grossi avrebbe compiuto 98 anni il 21 febbraio prossimo.

Era stato un soldato nel Regio esercito, reduce dagli scontri per la difesa della Capitale a Porta San Paolo. Dopo quell’ultimo disperato tentativo, con un viaggio difficile, affrontato interamente a piedi, era rientrato a Sulmona. Vivendo alla macchia nel corso dell’autunno e dell’inverno del 1944, aveva aderito alle bande di ribelli operanti nella valle del Sagittario. Fu perciò tra i primissimi, all’arrivo della Banda della Maiella a Sulmona, ad arruolarsi per continuare a combattere contro i nazi-fascisti.

Raggiunto il Gruppo a Recanati, entrò nella Compagnia pesante, dove seppe distinguersi per il fare onesto, disciplinato e coraggioso. Carrista, moltiplicò gli sforzi per la movimentazione del materiale bellico, rimanendo coinvolto in un incidente che lo vide rovesciarsi con il proprio mezzo cingolato in una scarpata. Nel Gruppo acquisì il grado di Sergente Maggiore. Al termine della guerra avrebbe proseguito per un breve tempo la carriera militare prestando servizio nella brigata carristi della 228° Divisione Fanteria.

Nel dopoguerra, a conferma di un animo nobile, avulso alla violenza, seppe reinventarsi come floricoltore.

I funerali si terranno domani nella Cattedrale di San Panfilo a Sulmona alle ore 15.00

Il Presidente della Fondazione Brigata Maiella, Nicola Mattoscio, congiuntamente a tutti gli organi della Fondazione e i rappresentanti dell’Associazione degli ex Combattenti di Sulmona, che negli anni di vita civile gli sono sempre rimasti affianco, esprimono ai familiari il più sentito     cordoglio per la sua scomparsa.




Giornata della Memoria, le celebrazioni di stamane a Teramo

 

Alberto Pepe

Pietra d’inciampo Pepe

Pietra d’inciampo Pepe

Due i momenti attraverso i quali, stamane, il Sindaco Gianguido D’Alberto e  il Presidente del Consiglio Comunale Alberto Melarangelo, hanno celebrato la Giornata della Memoria a Teramo; presente anche il Consigliere comunale Toni Di Ottavio. Il primo alla Villa Comunale, dove è stata deposta una corona di alloro alla Stele dedicata al Tenente Alberto Pepe e a tutti gli internati militari italiani nei lager tedeschi. Il secondo in viale Cavour, presso la pietra di inciampo dedicata allo stesso Alberto Pepe, cui hanno partecipato anche la sezione teramana dell’ANPI e l’associazione Teramo Nostra,.

La formula contenuta, in osservanza delle prescrizioni anticovid, ha ridotto al minimo gli interventi dei partecipanti, i quali hanno tutti ricordato l’importanza e la necessità della Giornata odierna, non solo per rievocare, quale monito, quanto accaduto negli anni terribili della dominazione nazi-fascista, ma anche per sottolineare l’attualità delle motivazioni che rendono necessaria la ricorrenza internazionale che si celebra per commemorare le vittime dell’Olocausto. Non sono mancati cenni sull’esperienza teramana delle deportazioni, e sulle conseguenze delle leggi razziali nel nostro territorio.

 

La corona di alloro  è stata depositata dinanzi alla stele che ricorda il Tenente Alberto Pepe, cittadino teramano morto nel campo di sterminio nazista di Unterluss il 4 aprile 1945, che rifiutò la collaborazione con gli occupanti e per questo venne trucidato. Con lui l’omaggio è stato esteso a tutti gli internati militari italiani nei lager tedeschi

 

Quindi la cerimonia in prossimità della pietra d’inciampo, un piccolo quadrato di pietra (10×10 cm), ricoperto di ottone lucente, posto davanti la porta della casa nella quale ebbe ultima residenza un deportato nei campi di sterminio nazisti; essa ne ricorda il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione, la data della morte.

In Europa ne sono state installate già oltre 70.000, la prima a Colonia, in Germania, nel 1995. L’iniziativa fu creata dall’artista Gunter Demnig (nato a Berlino nel 1947) come reazione a ogni forma di negazionismo e di oblio, al fine di ricordare tutte le vittime del Nazional-Socialismo, che per qualsiasi motivo siano state perseguitate: religione, razza, idee politiche, orientamenti sessuali.

Oggi si incontrano Pietre d’Inciampo in oltre 2.000 città in Austria, Belgio, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lituania, Lussemburgo Norvegia, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Russia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Ucraina e Ungheria. In Italia, le prime Pietre d’Inciampo furono posate a Roma nel 2010 e attualmente se ne trovano a Bolzano, Genova, Livorno, Milano, Reggio Emilia, Siena, Torino, Venezia oltre ad altri numerosi centri. In abruzzo, assime a quella teramana, altre sono a L’Aquila, Lanciano e Chieti.

Obiettivo della “Pietra d’Inciampo”, un inciampo emotivo e mentale, non fisico, è mantenere viva la memoria delle vittime dell’ideologia nazi-fascista nel luogo simbolo della vita quotidiana – la loro casa – invitando allo stesso tempo chi passa a riflettere su quanto accaduto in quel luogo e in quella data, per non dimenticare.

 




Giornata della Memoria. Il Sindaco Costantini depone fiori sulla lapide del cimitero che commemora i  cittadini caduti della Seconda Guerra Mondiale, in ricordo dei  16 giuliesi morti nei campi di prigionia tedeschi

Lapide dei caduti della Seconda Guerra Mondiale

 

L’Amministrazione pensa ad un progetto per la collocazione delle pietre d’inciampo alla loro memoria

 

Il prolungarsi dell’emergenza sanitaria ha reso difficoltoso l’organizzazione di cerimonie pubbliche per celebrare la Giornata della Memoria che ogni anno, il 27 gennaio, ricorda le vittime dell’Olocausto. Nonostante queste difficoltà l’Amministrazione comunale di Giulianova ha deciso di istituire un momento di raccoglimento per commemorare i caduti giuliesi, nativi e residenti, morti nei campi di prigionia tedeschi.

Grazie alla segnalazione di Walter De Berardinis, ricercatore storico sui caduti della Seconda Guerra Mondiale di Giulianova, è stata accertata la presenza di altri caduti giuliesi nei campi di prigionia in Germania, alcuni dei quali sconosciuti e non censiti nella lapide posta all’interno del cimitero di Giulianova.

La tragedia vissuta dai concittadini giuliesi era stata già anticipata dalla misteriosa morte del lavoratore Alessandro Giorgini, morto il 15 marzo 1941, quando verrà ritrovato privo di vita all’età di 37 anni, nella città di Insel nel land della Sassonia – spiega il ricercatore giuliese De Berardinis – dopo l’8 settembre, le autorità tedesche, iniziarono la cattura e la deportazione nei territori della Germania, classificandoli come IMI (Internati Militari Italiani)”.

Ci sembrava doveroso, dopo che lo scorso 14 gennaio abbiamo ricordato la compagna di un ebreo morto a Mauthausen, Margarete Wagner, commemorare anche chi scelse in quel periodo storico di resistere contro il nazismo e non collaborando con la RSI – dichiara il Sindaco Jwan Costantiniricordiamo inoltre che, purtroppo, la stazione ferroviaria di Giulianova rappresentò uno scalo nevralgico per l’arrivo degli ebrei, che vennero trasportati al Kursaal, schedati e poi smistati per essere trasferiti nei campi di internamento della provincia di Teramo. Grazie al lavoro di De Berardinis siamo riusciti a conoscere i nomi di quei concittadini giuliesi, nativi e residenti, che patirono la pena dell’internamento nei campi di prigionia tedeschi e proprio a loro vogliamo dedicare la nostra Giornata della Memoria, anticipando che è volontà della nostra Amministrazione individuare un luogo della città in cui posizionare le pietre d’inciampo alla loro memoria”.

 

In totale Giulianova conta 130 caduti durante la Seconda Guerra Mondale, di cui l’Amministrazione comunale oggi ricorda i cittadini internati:

–  Alessandro Giorgini, morto il 15 marzo 1941, quando verrà ritrovato privo di vita all’età di 37 anni, nella città di Insel nel land della Sassonia;

– Romolo Celj, morto il 16 giugno 1944 a Dortmund e sepolto a Francoforte sul Meno;

– Filippo Covelli, catturato in Montenegro, deportato nello Stalag VI C e Z, morto l’8 novembre 1944; verrà sepolto prima nel Cimitero militare italiano di Gross Fullen (Meppen – Bassa Sassonia) e successivamente, nel Cimitero Militare di Amburgo;

– Renato D’Antonio, catturato a Pola, deportato nello Stalag II A e B, muore nell’ospedale da campo di Neubrandenburg il 13 gennaio 1944 (aveva 19 anni); verrà sepolto nel locale cimitero comunale;

– Vincenzo Di Ferdinando, originario di Teramo, catturato in Albania, muore nel campo di prigionia di Tocci il 15 giugno 1944; poi sepolto a Sinanaj;

– Edmondo Feliziani, catturato in Albania, verrà dato per disperso dal campo di Bor nell’agosto 1944;

– Vincenzo Fidani, catturato nel porto di Tolone, deportato in Germania e ucciso con un colpo di pistola da un sottufficiale tedesco il 20 marzo 1945; il corpo disperso nel territorio di Offstein;

– Castellano Ippoliti, originario di Sant’Omero, catturato in Albania, morto il 23 gennaio 1945 a Trier per bombardamento aereo;

– Salomone Ippoliti, fratello di Castellano, catturato in Italia, verrà deportato prima a Dachau con numero di matricola 54607 e poi nel campo satellite di Mauthausen dove muore il 1 luglio 1944;

– Elio Meloni, originario di Torano Nuovo, catturato in Serbia, muore nel campo di prigionia di Nisich in Serbia il 14 gennaio 1944;

– Giovanni Quatraccioni, nativo di New York da famiglia giuliese, catturato sull’isola di Creta, muore a Biesdorf – Berlino il 26 marzo 1944 (il fratello Antonio era morto nel 1942 nell’affondamento della “Lago Tana” nel canale di Sicilia);

– Bruno Rota, catturato dai tedeschi, deportato in Germania, muore nell’ospedale di Zeithain – Lazarettlager dello Stalag IV B di Mühlberg in Sassonia il 9 marzo 1944;

– Nicola Solipaca, catturato nella base dei sommergibili atlantici – Betasom, verrà rinchiuso nel campo di Germignan in Francia dove muore il 13 agosto 1945; verrà sepolto nel cimitero di St. Medard;

– Francesco Splendiani, lavoratore civile, morto a Linz in Austria il 17 febbraio 1945 per bombardamento aereo sul campo;

– Luigi Stacchiotti, catturato in Grecia, deportato in Germania, disperso il 15 maggio 1944;

– Ernesto Zenobi, catturato in Albania, verrà deportato a Gorlitz dove muore il 15 settembre 1943; oggi è sepolto nel cimitero militare italiano di Varsavia.

 

Per commemorare questi concittadini, oggi, al cimitero di Giulianova, il Sindaco Jwan Costantini, accompagnato dalla Vice Lidia Albani, ha deposto un mazzo di fiori sulla lapide dedicata ai caduti giuliesi della Seconda Guerra Mondiale, recante alcuni dei nomi di questi soldati.

Un gesto semplice ma dovuto, in ricordo di questi nostri soldati e nel rispetto delle loro famiglie – dichiara il primo cittadino – oggi è stato avviato un progetto alla memoria dei giuliesi periti nel secondo conflitto bellico che, non appena potremo buttarci alle spalle l’emergenza sanitaria, verrà ampliato con l’organizzazione di una serie di iniziative culturali, promosse dal Comune di Giulianova in collaborazione con storici, ricercatori e scrittori”.