Teramo. Editoria: “NOI SIAMO QUELLI DI SELENYJ JAR”

Fumetto dedicato alla memoria di tutti gli alpini che non hanno fatto ritorno

dalla Russia e all’alpino Valentino Di Franco, reduce di Selenyj Jar e memoria storica della battaglia

 

Seconda Guerra Mondiale, fronte russo: gli Alpini del Battaglione L’Aquila entrano nella storia con le loro gesta eroiche a Selenyj Jar, tra fine 1942 e inizio 1943. Tanti non torneranno da quel fronte, ma non verranno mai dimenticati. 

 

Nell’opera a fumetti, non poteva mancare Peppino Prisco che si arruolò negli alpini a 18 anni e partecipò alla campagna di Russia come tenente nel Battaglione “L’Aquila” del nono Reggimento Alpini, inquadrato nella Divisione Julia, guadagnandosi una medaglia d’argento al valor militare.

 

Il ricordo di quelle gesta cambia anche linguaggio, per raggiungere tutte le generazioni e trasmettere valori senza età.

 

Nasce così “Noi siamo quelli di Selenyj Jar” racconto a fumetti di Marco Trecalli, architetto, grafico e fumettista, con la collaborazione di Daniele Di Benedetto, Capo Gruppo ANA del 9° Reggimento Alpini e militare in servizio a L’Aquila.

 

Il fumetto realizzato con il sostegno della Fondazione Carispaq e dalla Sezione A.N.A. Abruzzi, riporta in vita i nostri nonni facendoli ridere, scherzare, combattere e imprecare. In bianco e nero, come le poche foto che ci rimangono di quell’inferno di ghiaccio, ma accompagnati dalle loro parole, dai loro sentimenti, dalle loro debolezze e dalle tante forze.

 

In questi giorni, 78 anni fa, il reggimento cominciava a muoversi verso il quadrivio, l’opera è dedicata alla memoria di tutti gli alpini che non hanno fatto ritorno dalla Russia e all’alpino Valentino Di Franco, reduce di Selenyj Jar e memoria storica della battaglia.

 

Un’opera su “Quel quadrivio maledetto che ha un valore simbolico che va oltre le drammatiche cifre dell’ecatombe degli Alpini abruzzesi. Racchiude i più puri ed esaltanti valori alpini, ai quali ognuno di noi deve quotidianamente ispirarsi erigendoli a riferimento”.

 

“Noi siamo quelli di Selenyj Jar” ha anche però un altro risvolto. 

 

L’opera, curata e patrocinata dal Gruppo Ana 9 Reggimento Alpini – Sezione Abruzzi, destinerà il ricavato della vendita del fumetto alla ricerca scientifica.

In Italia sono meno di 50 i bambini affetti da mucopolisaccaridosi di tipo III “sindrome di Sanfilippo” per la quale oggi non ci sono cure, ma solo sperimentazioni e ricerche scientifiche. I bambini, affetti da questa crudele malattia, hanno bisogno di noi.

 

Il fumetto, pubblicato da pochi giorni dalla casa editrice Ricerche & Redazioni, è disponibile online sulle principali piattaforme di vendita e sul sito della casa editrice, alla quale si potrà chiedere una copia scrivendo una all’indirizzo email info@ricercheeredazioni.com




Pescara. Scompare uno degli ultimi testimoni della strage di Sant’Agata di Gessopalena: GIUSEPPE D’AMICO

Giuseppe D’Amico

 

Verso le 4 del mattino del 21 gennaio 1944 in contrada Sant’Agata di Gessopalena, militari dell’esercito tedesco in ritirata, trucidarono barbaramente 36 civili che avevano radunato in un casolare. L’eccidio disumano venne consumato lanciando bombe a mano all’interno del casolare e poi sterminando i pochi superstiti con raffiche di mitraglia. 22 donne, 14 uomini inermi persero la vita quella notte. Sfuggirono alla strage 4 persone che riuscirono ad allontanarsi dal casolare prima che i tedeschi iniziassero l’immane carneficina ed altri 2 che miracolosamente resistettero al fuoco e alle bombe, i fratelli Nicoletta e Antonio Di Luzio, allora di 16 e 10 anni. È scomparso ieri a Gessopalena uno degli ultimi testimoni viventi della strage: Giuseppe D’Amico, di Torricella Peligna, all’epoca diciannovenne. Sfollato a Gessopalena, la mattina del 21 gennaio si era allontanato con i familiari alla ricerca di cibo. In prossimità di Sant’Agata il gruppo era stato fermato da una pattuglia tedesca. Perquisiti e piantonati per circa mezz’ora, mentre era in corso la strage, i quattro sono uniti al destino delle altre vittime da un tragico ordine di “kaput”. Mentre indietreggiavano per essere fucilati sul posto, Giuseppe D’Amico si era buttato in a terra, rifugiandosi dietro un ulivo e mettendosi così rocambolescamente in salvo. Perse il fratello, D’Amico Silvio, di 34 anni, sua moglie Di Paolo Angiolina e la sorella Maria D’Amico di 37 anni.                   Giuseppe D’Amico aveva testimoniato la sua drammatica esperienza sia all’indomani della strage, contribuendo alla prima ricostruzione dei fatti eseguita dai carabinieri di Lanciano, sia nel corso degli anni. I suo ricordi si trovano tra le testimonianze e documenti raccolti da Gino Melchiorre nel 1999 e poi ancora tra le interviste raccolte da Max Franceschelli nel 2009. “Tornai dai miei genitori – aveva raccontato –  Appena giorno si vide il fumo di Sant’Agata: avevano incendiato tutto. Ad una certa ora andammo a vedere i nostri morti. Mio padre si fece fare tre casse da Peppe di Mastr’Annibale e li seppellimmo a Gesso”.
Il Presidente della Fondazione Brigata Maiella, Nicola Mattoscio e il vice Presidente, Mario Zulli, esprimono a nome proprio e di tutti gli organi il più sentito cordoglio per la scomparsa di uno degli ultimi testimoni della spietata strage nazifascista, di cui ricorrerà a breve il 77° Anniversario.
Nella foto, Giuseppe D’amico.

 




Roseto degli Abruzzi, 8 novembre inaugurazione lapide soldati decorati delle due guerre

Decorati di Roseto

L’amministrazione comunale di Roseto degli Abruzzi inaugura domenica 8 novembre, alle ore 10,00, una lapide, monumento in onore dei soldati rosetani, che hanno combattuto nelle due guerre mondiali e che hanno ricevuto una decorazione al valore militare.
Il comitato “Per non dimenticare” in collaborazione con il Circolo Filatelico Numismatico Rosetano, entrambi sodalizi con sede a Roseto degli Abruzzi, in occasione delle celebrazioni di novembre della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, hanno proposto all’amministrazione comunale di Roseto degli Abruzzi una lapide, monumento dedicata ai soldati rosetani che hanno combattuto durante le due guerre e che hanno ricevuto una decorazione al valore militare.
Ricordiamo che nella città di Roseto degli Abruzzi, in Piazza della Stazione, sono già presenti due lapidi, rispettivamente con i nomi dei soldati che hanno combattuto e persa la vita durante le due guerre mondiali (1915-1918) e (1940-1945).
Ma a Roseto degli Abruzzi fino a oggi non esiste un luogo e una lapide che onora e ricorda i cittadini soldati e combattenti che hanno onorato la città ed hanno ricevuto un riconoscimento al valore militare.
L’idea di una lapide ai decorati rosetani era maturata quando i due ricercatori, D’Ilario e Di Giulio, di concerto con l’amministrazione comunale nel 2018, in occasione della pubblicazione del loro libro “Roseto degli Abruzzi, Caduti e Decorati, durante il convegno nella sala consigliare del municipio ascoltarono l’intervento del sindaco Sabatino Di Girolamo che prese l’impegno affinchè questa idea potesse avere una svolta concreta durante il suo mandato di Primo cittadino.
L’assessore alla cultura Carmelita Bruscia coordinandosi con il sindaco Sabatino Di Girolamo, con il consigliere municipale architetto Giuseppe Di Sante hanno insieme portato avanti l’iniziativa, ciascuno nel proprio ruolo, che nel giorno di domenica 8 novembre 2020 vede il suo epilogo con lo svelamento e inaugurazione della lapide, monumento.
Dopo attente e minuziose ricerche gli organizzatori dell’iniziativa storica culturale sono riusciti a individuare i nominativi dei soldati che hanno combattuto e ricevuto una decorazione (medaglie e croci al valore militare) durante i combattimenti e azioni di guerra nei due conflitti mondiali.
In particolare il presidente del Circolo Filatelico Numismatico Rosetano Emidio D’Ilario e il giornalista, scrittore e ricercatore storico della città Luciano Di Giulio, hanno voluto porre all’attenzione dell’ammistrazione comunale rosetana la possibilità della realizzazione e della posa in opera di una lapide, monumento con sopra incisi i nomi dei decorati combattenti rosetani, in modo da onorare la memoria dell’intera città di Roseto degli Abruzzi.
L’idea prevede la posa in opera di un blocco di marmo, dove sul lato superiore sono stati incisi i nominativi dei soldati decorati, per le loro eroiche azioni, durante i due conflitti mondiali.
Per quanto riguarda invece la location dove sarà ospitato la lapide- monumento l’idea si è soffermata sul Parco delle Rimembranze, nel lungomare Roma, nella zona centrale della città di Roseto degli Abruzzi. A i due lati del monumento due pali ospitano la bandiera italiana e quella europea.
Con questo luogo e con questa lapide, monumento oggi finalmente la città di Roseto degli Abruzzi ha un luogo dedicato ai suoi soldati “eroi” che hanno meritato il riconoscimento di valor militare. Militari di terra, mare e cielo di Roseto degli Abruzzi, Montepagano e Cologna, che hanno combattuto nelle due guerre mondiali.
L’inaugurazione si svolgerà nel rispetto delle indicazioni anti contagio da Covid-19.

Di seguito i nomi dei militari incisi nella lapide.
Prima guerra (13 nomi): Attilio Borghese, Davide De Luca, Vincenzo Di Furia, Giovanni Di Giorgio, Casto Di Giulio, Divinangelo Di Giuseppe, Filippo Di Pietro, Roberto Felicioni, Tommaso Latini, Ezio Marinelli, Vincenzo Moretti, Elio Trammannoni, Attilio Tribuletti.
Seconda guerra (10 nomi): Pietro Amodeo, Vittorio Casini, Egisto Colli, Alberto Di Bonaventura, Giuseppe Di Sabatino, Tommaso Latini, Giuseppe Lucidi, Guerino Muser, Nicola Pomante, Nicola Recchiuti.




Giovanni Lafirenze: come da sempre ribadisco, gli ordigni bellici inesplosi producono danni a cose e persone in ogni latitudine del mondo.

Giovanni Lafirenze

In questo articolo riportiamo gli incidenti da Uxo avvenuti nel corso degli anni negli Stati Uniti d’America. La nostra fonte è la Denix, (Ambiente e Sicurezza sul Lavoro) che non manca d’illustrare il pericolo prodotto dai residuati bellici. Il Ministero della Difesa e la Denix hanno realizzato un “Programma di educazione alla sicurezza degli esplosivi 3R (Riconoscimento, Ritiro, Rapporto). “Toccare, spostare o maneggiare intenzionalmente le munizioni ha causato una serie di morti e feriti. Proteggi te stesso, la tua famiglia, i tuoi amici e la comunità seguendo le 3R per la sicurezza degli esplosivi!”. Sia Ministero, quanto Denix, ricordano a tutti: “se incontri o pensi di aver incontrato una munizione, non avvicinarti, toccarla o disturbarla, ma chiama il 118”. Al largo della costa della Carolina del Nord, nel luglio 1965, una tremenda tragedia avviene a bordo del peschereccio (FV) Snoopy. Un residuato bellico è avvolto dalla rete da pesca. I marinai issano a bordo rete e bomba, quest’ultima urta la nave ed esplode e muoiono otto membri dell’equipaggio. In California nel 1983, in un canyon situato nei pressi della propria abitazione tre ragazzi raccolgono una granata inesplosa e la lanciano su una parete rocciosa, due giovani muoiono il terzo resta gravemente ferito.  Nel 1995, la fonte non cita lo Stato USA, una famiglia in vacanza non lontana da una base militare trova sette ordigni inesplosi. A fine villeggiatura qualcuno della famiglia decide di portare le munizioni a casa. Dopo qualche giorno, i bambini giocano con due ordigni e questi detonano, i piccoli restano gravemente feriti. Nel 2000, anche in questo caso la fonte non cita il luogo dell’incidente, due giovani maneggiano una bomba, questa scivola al suolo ed esplode. Un 16-muore, l’amico subisce pesanti ferite. Sembra che nello stesso sito ci sia stata un precedente detonazione che avrebbe coinvolto anche 20 bambini. Stesso anno, un bambino di nove anni perde mano sinistra e l’avambraccio a causa di un residuato, raccolto quasi sedici mesi prima. In California, nel 2006, un uomo che conserva da oltre 15 anni un residuato permette ai bambini del vicinato di giocare in casa con la bomba. I piccoli divertendosi, lanciano in aria l’ordigno. Nella ricaduta il residuato colpisce il tavolo ed esplode. Due bambini uccisi e sei feriti.  Stesso anno, due collezionisti di residuati bellici subiscono l’esplosione di una bomba, risalente alla guerra di secessione.  In Virginia, nel 2008 un residuato della guerra di secessione uccide un giovane intento a smanettare l’ordigno. Nella Carolina del Nord, anno 2008, l’esplosione avviene in un centro di riciclaggio materiali ferrosi della città di Raleigh, due i lavoranti feriti. In Texas, nel 2013, due persone impegnate a raccogliere materiale ferroso trovano una granata inesplosa. L’ordigno esplode e i due restano gravemente feriti. Quest’ultimo incidente si replica nel New Mexico, (Nuovo Messico), due donne rastrellano ferro, trovano un residuato, quest’ultimo detona, le due donne restano gravemente ferite. Se tutte queste persone avessero seguito il progetto 3Rs Explosives Safety Education Program, la conta di morti e feriti sarebbe stata di gran lunga inferiore. Colgo l’occasione di ricordare che in Italia l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra, in collaborazione con MIUR, Stato Maggiore della Difesa da anni è impegnata a divulgare e sensibilizzare giovani e meno giovani i pericoli dei residuati bellici inesplosi per mezzo delle Campagne “De-Activate e Conoscere-Per Ri-Conoscere”. Da qualche tempo anche le autorità svizzere per evitare incidenti causati da bombe inesplose hanno realizzato la Campagna: non toccare – contrassegnare – notificare, per telefono o tramite app 

Giovanni Lafirenze




L’Associazione Nazionale Carabinieri di Giulianova ringrazia pubblicamente tutti gli esercizi commerciali

ANC Giulianova

delegazione Istituto Nazionale per la Guardia d’onore al Pantheon

Vescovo e ANC Giulianova

Durante il “lockdown” per il Covid-19 sono stati donati pacchi alimentari preparati dai volontari dell’ANC

Una Santa Messa con il Vescovo di Teramo per ringraziarli

Giulianova. Si è svolta nel pomeriggio di domenica, 4 ottobre, la cerimonia organizzata dalla Sezione locale dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Giulianova per ringraziare tutte le attività commerciali di Giulianova che hanno contribuito alla donazione di prodotti alimentari, igiene per la persona e materiale scolastico, a favore dei più deboli. L’iniziativa, ideata dalla sezione giuliese dell’A.N.C., era rivolta alle famiglie e persone svantaggiate a seguito dell’emergenza sanitaria Covid-19. La squadra di volontari era coordinata dalla segretaria della sezione, Cinzia Verrigni; dai componenti della famiglia Giuseppe Perfetto e dal Presidente dell’A.N.C., Franco Gizzi. Con i propri autoveicoli e protezioni individuali hanno effettuato centinaia di consegne sul territorio giuliese. Grazie all’ospitalità del Locale Comitato della Croce Rossa Italiana, presso la sede dell’ex Ospizio Marino, il Vescovo di Teramo – Atri, S.E. Lorenzo Leuzzi, ha celebrato una Santa Messa unitamente ai parroci delle parrocchie del lido. Al termine della cerimonia, il Presidente Franco Gizzi, ha consegnato gli attestati di riconoscimento ai direttori delle attività commerciali e al Presidente del Comitato di Giulianova della C.R.I., Adriano Renzo Voogt, per la totale disponibilità dimostrata all’evento. Mentre il Vescovo di Teramo ha benedetto tutti i mezzi di soccorso, compreso l’ultima nuova ambulanza in dotazione alla CRI.




Con soldi della comunità europea si finanziano stelle rosse e musei a ricordo del dittatore Tito

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Gent.mo direttore,

 

Con soldi della comunità europea si finanziano stelle rosse e musei a ricordo del dittatore Tito (nave Galeb)  a dispetto della Risoluzione europea del 19 settembre 2019.

Questa la risposta dell’Associazione per la cultura fiumana istriana e dalmata nel Lazio- Archivio Museo storico di Fiume: auspichiamo di attenersi ai principi della Risoluzione europea del 19 settembre 2019, poiché Il regime comunista jugoslavo di Tito fa parte della lista dei regimi dittatoriali.

Seconda guerra mondiale – Battaglia di Fiume (17 aprile -2 maggio 1945). La domanda sui 2.800 caduti da parte partigiana jugoslava – da 350 a 2.800 morti  c’è una grande differenza.  

Ma il Comune di Rijeka-Fiume sa quanti morti da parte jugoslava ci furono in battaglia? Oppure si affermano cifre a caso?

DA DOVE SPUNTANO le 2.800 vittime tra i partigiani jugoslavi che si leggono nell’articolo del quotidiano “Il Piccolo”?!  In base agli studi croati sull’argomento sono circa 350 !

La stella rossa sul grattacielo di Fiume  opera di un artista serbo  è costituita da 2.800 schegge di vetro rosso che simboleggiano i 2.800 partigiani morti durante la battaglia di Fiume  (dal 17 aprile al 2 maggio 1945), ma la fonte per tale cifra quale è?

Secondo gli autorevoli storici croati Strcic e Giron i caduti non superano le 350 unità. Si riservavano di rivedere un po’ le cifre i due autori ormai scomparsi, ma da 350 di allora a 2.800 di oggi c’è una bella differenza.

La fonte croata:  i morti jugoslavi in combattimento non superano in base a studi storici seri i 350 caduti ( se sommiamo i caduti certi e gli scomparsi)   Fonte A.Giron – P. Strčić, Zaobići Ingridstellung, Povijesno društvo Rijeka, Fiume-Rijeka 1995, pp. 148-149.

I due storici croati contano tra i caduti tedeschi e italiani circa 1.600 militi. Se le perdite dei partigiani jugoslavi sono 2.800 e il nemico tedesco solo 1.600 morti a quel punto la battaglia di Fiume l’avrebbero vinta i tedeschi con i combattenti italiani della RSI, ma così non fu.

Se esistono studi aggiornati per quanto sopra sarebbe utile avere la fonte che parla di 2.800 morti tra i partigiani. Il sottoscritto possiede solo questa fonte e una dichiarazione orale del prof. Sobolevski che affermava di non sapere le cifre esatte, forse 500 morti…

Ogni notizia utile è benvenuta a questo indirizzo mail: info@fiume-rijeka.it

dott. Marino Micich 
Direttore Archivio Museo storico di Fiume




Teramo. RACCONTO BREVE “SEMO VINTUNO” di Mira Carpineta

Eccidio di Capistrello, memoriale ai 33 martiri

 

Capistrello giugno 1944

C’era ancora qualche ora di luce e doveva sbrigarsi. Il pane e le sagnette[1] con i fagioli erano pronte. Sistemò la callara[2] nel canestro, avvolta nel panno della tovaglia, con il coperchio serrato per non far disperdere il calore. In un’altra mmotina[3], un altro grande strofinaccio, avvolse altre cibarie, altro pane, qualche tocco di formaggio, una pizza con le cipolle. Sistemò il tutto insieme, arrotolò un altro fazzolo[4] e lo mise a cerchio sulla testa. Poi prese il canestro e se lo pose sul capo per uscire.

Con quel peso sulla testa attraversò la strada e si diresse verso la stazione e‘glio Rucetto[5].

Da diversi giorni ormai un commando tedesco in ritirata si era stanziato nel palazzo più grande della piazza.  Lei si avvicinò al portone, il soldato di guardia la vide e annusò con desiderio i profumi che emanavano dal canestro e non la fermò. Lei entrò nella corte interna e un altro soldato le venne incontro per scortarla in una stanza che era stata adibita a cucina. Le tolse il canestro dalla testa e lo pose sul grande tavolo dove erano disposte altre cibarie. Il soldato sollevò il coperchio della callara e il vapore della minestra calda gli colpì le narici. Abbozzò un sorriso, richiuse, recuperò la tovaglia che avvolgeva la pentola e gliela gettò nel canestro. Diomira lo riprese, se lo sistemò di nuovo sulla testa e senza dire una parola si diresse verso l’uscita.

Allontanandosi dal comando tedesco si diresse verso la fine del paese. Non poteva tornare subito a casa e doveva sbrigarsi perché tra poco sarebbe scattato il coprifuoco e i tedeschi sparavano a tutto ciò che si muoveva.

Nella parte della montagna che scivolava verso la Valle Roveto, proprio nel punto in cui il declivio accompagnava il paese verso il pianoro, c’erano dei cunicoli. Alcune gallerie scavate nella roccia, memoria di storie lontane[6], che tutti i contadini e i pastori della montagna conoscevano bene. Quanto riparo avevano fornito a uomini e animali, in ogni tempo e per ogni necessità. Diomira si diresse verso queste grotte, mise il canestro sotto il braccio ed entrò in un cunicolo. C’era ancora un po’ di luce e sussurrò dei nomi: “Ndò, Luigì, Armandì…”[7]  Dal fondo più buio uscirono tre persone.  I ragazzini gli corsero incontro. “Mà, si venuta, finarmente!” disse il più piccolo, Armandino, 11 anni.

Si stata attenta?” – le chiese il marito Antonio. “Scine – rispose- statte tranquijo, non m’a venuto appresso nisciuno. I sordati m’oto dato quisto[8] e mostrò al marito un foglio, il lasciapassare che le avevano concesso per potersi recare al comando a portare da mangiare ai soldati. Ma lei non sapeva leggere, né scrivere. Allora Antonio le spiegò che quel foglio era importante perché le dava un po’ di libertà di movimento e che soprattutto doveva mostrarlo alle ronde di sorveglianza ogni volta che la fermavano.

Questa è na fortuna – disse Antonio – cuscì te po’ move pe glio paese no poco de più. Che se dice?”[9]

Mentre i bambini mangiavano lei e Antonio parlavano della situazione in paese. La ritirata dei tedeschi, nel 44, fu drammatica in tutta l’Italia e anche nella Marsica lasciò lutti atroci.

Dopo il bombardamento di Montecassino le truppe tedesche ripiegavano verso nord, attraverso i tratturi abruzzesi, mentre l’aviazione alleata sottoponeva quel tratto della montagna marsicana a continui bombardamenti. I pastori, per proteggere il bestiame, si trasferivano verso le montagne di Luco dei Marsi.

Il 4 giugno del 44, nel giorno della liberazione di Roma, sui pascoli vicini a Capistrello pastori e contadini furono rastrellati da tedeschi e fascisti e condotti verso la stazione. I tedeschi erano convinti che vi fossero tra loro partigiani e alleati che fornivano indicazioni sulla ritirata ai bombardieri e la giornata si concluse nel modo più atroce.

33 persone, tra cui 2 ragazzini di appena 13 e 14 anni vennero fucilati, alla Stazione di Capistrello davanti ad una buca lasciata da una bomba dove i corpi trovarono sommaria sepoltura. Un mese prima c’era stato un episodio altrettanto efferato: un ragazzo di 17 anni, accusato di partigianeria fu catturato, torturato e poi ucciso. Tutti ne rimasero sconvolti.

Da diverse settimane ormai, la paura di Antonio e Diomira per i loro figli e per i pericoli che correvano fintanto che i tedeschi rimanevano in paese, li aveva costretti alla scelta di separarsi: Antonio con i figli maschi si era nascosto in quelle grotte, che la montagna e la vegetazione avevano ingoiato nel corso dei secoli. Diomira e la figlia Annina invece, erano rimaste in paese, nella casa addossata al costone di roccia. La stessa casa che era sopravvissuta, miracolosamente, al terribile terremoto del 1915, quando in pochi minuti scomparvero città, paesi e migliaia di vite.

In quella stazione Diomira, appena 15enne, si era recata ogni giorno, dopo la sciagura, ad aspettare gli aiuti militari e nella casa sulla roccia aveva offerto riparo ai sopravvissuti. E adesso quella stazione era diventata la tomba di 33 capistrellani senza colpe, se non quella di voler sopravvivere alla follia umana della seconda guerra mondiale.

Le notizie sulla guerra non erano confortanti. I tedeschi, non più alleati, sfogavano la ferocia della precipitosa ritirata su gente inerme, contadini, pastori, poveri braccianti già segnati da una vita ostile in una natura anch’essa ostile.

Dovemo resiste. Appena se ne vanno potete revenì – diceva Diomira – Ma vu non ve facete vedè. Io cerco de revenì addomà. Me raccommanno vagliù. Sentete patreto. Me raccommanno figli mè.[10]

Un abbraccio veloce e poi raccolse il canestro e sgattaiolò verso il paese.

Era quasi notte. Tornò al comando per riprendere le pentole vuote che gli sarebbero servite il giorno dopo e con il lasciapassare in mano si avviò verso casa.

Non riusciva a dormire. Erano tanti giorni ormai che sfidavano la sorte e benché l’istinto la guidasse nelle azioni, le giornate sembravano interminabili. Soprattutto dopo l’eccidio la vita in paese era diventata ancora più difficile. I pochi uomini rimasti venivano mandati con la forza a scavare trincee, a bonificare strade dalle bombe sganciate dagli aerei americani. Quei “cafoni” descritti da Ignazio Silone nei suoi libri come quelli che venivano in fondo, dopo i cani e gli animali del principe Torlonia, erano loro. Gente che rischiava la vita per proteggere qualche capo di bestiame o che raschiava i campi della valle e dei Piani Palentini per combattere l’eterna guerra contro la fame e la miseria in una terra aspra e bellissima.

Si fece di nuovo giorno e si ricominciava, come sempre, dall’alba. Diomira uscì di casa per andare a raccogliere qualche verdura e qualche frutto.  Mentre attraversava la strada, una camionetta le passo vicino a velocità sostenuta. Lei fece appena in tempo a scansarsi. Allora decise di andare verso il paese. Si accorse subito che stava succedendo qualcosa.  La paura le bloccò il respiro per qualche secondo.  La mente correva sempre alla stazione. Altre macchine venivano verso di lei. Tutte di corsa. Davanti al comando vide soldati caricare un camion e altri che correvano avanti e indietro con sacchi sulle spalle. Anche alcune donne erano in strada. Lei riconobbe Marietta, la moglie del mugnaio e gli chiese che cosa stesse succedendo. “E’ da mantemà[11] che stanno a fa tutto sto annanzi e rrete[12]. Volesse Dio che se ‘nne vanno!” rispose Marietta.

Diomira decise di andare verso la chiesa. Il prete, forse, poteva sapere qualcosa in più. Lo trovò inginocchiato davanti all’altare che pregava. Si avvicinò timorosa ma decisa: “Donn’Artù, perdoname ma sapissi tu che sta succedenne? Che oto arrestato che cun atro[13]?” Don Arturo si girò sussultando. “Diomì che sta a ddì?” “Donn’Artù so visto i tedeschi con le machine, le camionette che scappèane. Addò vanno?“  incalzò lei. “Diomì non saccio niente…”. Non finì la frase don Arturo che la chiesa si popolò. Altre persone erano entrate con lo stesso stupore in viso misto a paura. E si guardavano l’un l’altro interrogandosi con gli sguardi. Don Arturo li guardò e si avviò verso l’uscita, sul sagrato. Davanti alla stazione i movimenti continuavano concitati. Ordini in tedesco e soldati che correvano dappertutto. Diomira fu presa dall’angoscia. Doveva correre dai suoi figli, avvertirli del pericolo. Insomma doveva fare qualcosa. Tornò a casa. Prese un po’ d’acqua e qualche pezzo di pane.

Li avvolse in un panno e se lo annodò alla vita. La figlia la guardava con aria interrogativa. “Né sta succedenne checcosa. Tengo da ji agli vagliuni. Tu va acchè Richetta e aspettame la. Me raccommanno, non t’allontanà[14]”. Usci di nuovo. La piazza della stazione si era improvvisamente svuotata. Sembrava che fossero scappati tutti. Mentre si incamminava verso il nascondiglio vide qualcuno che correva verso il negozio di Carminuccio. Era il figlio di Richetta. Voleva fermarlo ma aveva paura di perdere tempo. Però aveva bisogno di sapere. Lo chiamò. Il ragazzo la vide e le si avvicinò. “Vagliò addò va?”- gli chiese.  “Senne vanno Diomì, senne vanno!” gli disse il ragazzo ansimando per la corsa. “i tedeschi senne vanno? – chiese – e tu comme lo sa?” “ji steva alla posta e poco fa è arrivato no telegramma pe Don Gaetano e m’oto ditto de portarcelo. E quando soglio portato a Don Gaetano isso ma dato na pacca ‘ncapo[15] e m’ha ditto che la guerra a Capistreglio steva pe finì”.

Diomira si rincuorò un poco, ma accelerò il passo verso il nascondiglio dei suoi figli. Doveva vederli e assicurarsi che stessero bene. Come sempre cercò di non farsi vedere da nessuno, fece un giro più lungo, attraversò il bosco, risalì il fiume. Se qualcuno l’avesse vista poteva dire che andava a lavare i panni. Alla fine raggiunse la sua meta. Si addentrò nel cunicolo e sussurrò i nomi. Non si faceva avanti nessuno e il cuore per un attimo le si fermò. Poi nel buio dal fondo scorse il marito: “Diomì, si tu? Che succede?” Lei lo chiamò sempre sussurrando: “Ndò, so jio. I vagliuni addò stanno[16]?”

Diomì che succede?” insisteva Antonio. “Senne stanno a scappà. – rispose lei –  I tedeschi, senne vanno. Maddomà oto pigliato tutto[17] e senne stanno jenne. Don Gaetano dice che a Capistreglio la guerra è finita”. Antonio l’abbracciò stretta e chiamò i ragazzi: “vagliù potete scì[18]”. Si abbracciarono e rimasero in silenzio per qualche minuto. Lei si sciolse il fagotto dalla vita e diede da mangiare ai figli. Mentre li guardava e li accarezzava con gli occhi e le mani, il marito le disse: “Diomì revà a casa mo. Io e i vagliuni remanemo n’atro giorno ecco[19]. Per sicurezza. Vedemo che succede oggi. Addomà[20] quando revè vedemo se è sicuro a tornà a casa. Che dici?”Ndò io tengo paura. Se qualche soldato va girenne[21] e ve trova, proprio mo…” – “Allora facemo coscì: tu mo revà a casa. Massera, pello scuro[22] ci vedemo alla chiesa. Avvisa Don Arturo. “- “va bene”. Li abbracciò un’altra volta e si avviò.  Intanto al paese erano quasi tutti per la strada che parlavano dell’accaduto. Avevano visto le manovre dei soldati dalle prime ore del mattino e avevano aspettato con il fiato sospeso temendo un’altra atroce rappresaglia. Adesso invece quella strana calma li lasciava storditi. Ognuno si affannava a cercare notizie, conferme o smentite. Il figlio di Richetta ripeteva la storia del telegramma di Don Gaetano ma non riuscivano a rincuorarsi. Le ore passavano e nel pomeriggio Don Arturo suonò le campane con più forza del solito. Non era ancora l’ora dei vespri ma la gente uscì di casa lo stesso e si avviò verso la chiesa. Don Arturo li aspettava davanti all’altare: “Figli mè, ve so chiamato per darve na bbona nova[23]. I tedeschi senne so jiti[24] pe ddavero. Oggi la radio ha ditto che gli americani so entrati a Roma e che i tedeschi scappano verso nord. La guerra non è finita ancora, ma se Dio vuole ste bestie oto fenito[25] de fa danni ecco a Capistreglio. So parlato puro con don Gaetano. Mo dovemo solo pregà che finisce prima possibile.” Tutti si sentirono sollevati e iniziarono a recitare un rosario. Mentre sgranava le avemaria Diomira pensò ai suoi ragazzi e a suo marito e fu contenta che Antonio avesse deciso di raggiungerla proprio alla chiesa.

La preghiera diventò una veglia ai piedi della statua di Sant’Antonio mentre la notte avvolgeva quel giorno sospeso nell’attesa di qualcosa di indefinito. Ad un tratto qualcuno entrò in chiesa.

Poi un altro. E un altro ancora. La notizia della fuga dei tedeschi si era diffusa e tutti quelli che si erano rifugiati sui monti stavano tornando a casa. Anche Antonio, con i suoi ragazzi si fece avanti nel buio. Don Arturo accoglieva e benediva tutti, mentre si riunivano alle famiglie. Il figlio di Richetta gli si avvicinò e lui gli scompigliò i capelli dicendo: –scì beneditto vagliò–  il ragazzo sorridendo gli chiese: – Donn’Artù, ma allora che dici, semo vinti?![26]

 Semo vintuno, ci stengo puro io![27]–  aggiunse gridando l’ultimo arrivato.

***

 

 

Mira Carpineta, nata a Teramo il 6 giugno 1964, vent’anni esatti dopo lo sbarco in Normandia. Ho studiato ragioneria e informatica diplomandomi all’Ist. Tec. Comi di Teramo nel lontano 1983. Dopo qualche anno ho avuto nostalgia degli studi e ho ricominciato dall’Università di Teramo, facoltà di Scienze della Comunicazione, dove mi sono laureata in giornalismo con una tesi sulla stampa cattolica e il berlusconismo studiando il caso FAMIGLIA CRISTIANA. Sono giornalista pubblicista iscritta all’ODG Abruzzo, ho scritto per diverse testate locali e dal 2013 al 2015 sono stata direttore responsabile di un mensile e un giornale on line PrimaPagina. La storia che racconto appartiene al vissuto della mia famiglia integrata dalla mia fantasia. Questo è solo uno dei tanti racconti della mia straordinaria nonna Diomira, di cui porto il nome.

 

 

 

 

 

 

[1] Tagliolini. Pasta fatta a mano per minestre

[2] Pentola grande

[3] Fagotto fatto con strofinaccio annodato.

[4] Copricapo tipico delle donne abruzzesi consistente in un grosso quadrato di stoffa ripiegato o arrotolato in testa

[5] Nome della stazione di Capistrello a piazza Ricetto o Rucetto in dialetto marsicano. Molti dialoghi del racconto sono trascritti come pronunciati.

[6] Probabilmente si tratta dei Cunicoli di Claudio, la prima opera di bonifica e prosciugamento del lago Fucino ad opera dell’imperatore romano Claudio tra il 41 e il 52 D.C.

[7] I nomi di alcuni protagonisti: Antonio, Luigino, Armandino

[8] “si,stai tranquillo, nessuno mi ha seguito. I soldati mi hanno dato questo (documento)”

[9] “è una fortuna, così potrai muoverti un po’ più liberamente “

[10] “Dobbiamo resistere. Appena andranno via potrete tornare. Ma voi non dovete farvi vedere. Io cercherò di tornare domani. Mi raccomando ragazzi. Ascoltate vostro padre.

[11] stamattina

[12] Avanti e indietro

[13] Hanno arrestato qualcun altro?

[14] Bambina mia sta succedendo qualcosa. Devo andare dai ragazzi. Tu vai da Richetta e aspettami là. Non allontanarti

[15] Un buffetto in testa

[16] Antonio sono io, I ragazzi dove sono?

[17] Stamattina hanno caricato tutto

[18] Ragazzi potete uscire

[19] Diomira torna a casa adesso. Io e i ragazzi rimaniamo un altro giorno qui.

[20] domani

[21] È ancora in giro

[22] Stasera quando si fa notte

[23] Una buona notizia

[24] Sono andati via

[25] Hanno finito

[26] Don Arturo che dici, abbiamo vinto? – gioco di parole che in dialetto può significare anche “siamo venti”

[27] Siamo ventuno ci sono anche io




L’Aquila. i Pomilio, IN UN libro di MAURILIO Di Giangregorio

11 agosto 2020

 

 

Una famiglia di grandi talenti raccontata dal fecondo storico abruzzese

 

di Goffredo Palmerini

Maurilio di Giangregorio

 

L’AQUILA – Maurilio Di Giangregorio è nato il 2 ottobre 1950 a Castel di Ieri, un grazioso borgo della Valle Subequana ad una cinquantina di chilometri da L’Aquila. Chimico industriale e ingegnere chimico, due lauree, la prima a Roma La Sapienza nel 1974, l’altra cinque anni dopo all’Università dell’Aquila. E’ stato apprezzato docente negli Istituti superiori dell’aquilano fino alla meritata pensione. Un’intensa vita tra libera professione e insegnamento, si direbbe. Maurilio, invece, persona di grande affabilità quanto d’impareggiabile modestia, coltivava nel frattempo un amore per nulla segreto per gli archivi, per la cultura del territorio, per la ricerca storica. Personaggi, fatti e vicende che hanno intessuto la vita secolare di città e borghi d’Abruzzo lo intrigavano quanto e più delle discipline scientifiche. E infatti la sua ricerca storica ha messo così bene in luce, oltre le vicende che solo affidate alla tradizione orale si sarebbero irrimediabilmente perse, la grande fioritura d’intelligenze che hanno connotato la nostra regione a dispetto del secolare isolamento vissuto dall’Abruzzo fino ad alcuni decenni fa, dovuto all’asperità d’un territorio montano duro da vivere, gramo ed a volte selvaggio, sebbene nell’eccezionale sua suggestione. Quella condizione di difficoltà di vita nel nostro Abruzzo, insomma, tale da assicurare, durante lo scorso secolo, il cospicuo contributo di braccia all’esodo migratorio italiano, nella più grande tra le diaspore che la storia moderna ricordi, con quasi 30 milioni d’emigrati in un secolo o poco più.

 

La straordinaria passione di Maurilio Di Giangregorio, infaticabile ricercatore di storia locale, ha dunque cominciato a dare i suoi frutti dal 2003 con un’incessante e feconda produzione di saggistica storica, risultato di anni di frequentazione appassionata di archivi, biblioteche, fonti documentali, ascolto della memoria orale, consuetudine con i fondi archivistici delle famiglie abruzzesi, sovente veri e propri scrigni di storia. E di storie! Quel che non manca a Maurilio è la pazienza, l’assiduità e la determinazione nell’affrontare ogni impresa. Ha così regalato alla cultura storica abruzzese risultati di grande valore ed interesse. Poi il rigore della ricerca, che gli consente di pubblicare i suoi saggi storici sempre con un notevole apparato documentale, rendendo la sua opera preziosa per lettori e studiosi. E’ così che il suo amore per la ricerca storica, animata da una passione irrefrenabile, in scarsi vent’anni ha portato alla pubblicazione di ben 68 libri di saggistica storica, composti e stampati in proprio, e alla ristampa – a sua cura – di altri 57 volumi di storia locale. Una produzione “industriale” di storia che ha reso e rende un contributo di eccezionale rilevanza alla storiografia abruzzese, e non solo. Tra le sue opere va particolarmente citata la monumentale pubblicazione in 8 volumi “Il terremoto della Marsica, 13 gennaio 1915, nei documenti d’archivio”, edita nel 2015 nella ricorrenza del Centenario.

 

La premessa mi sembrava doverosa per parlare del volume “La famiglia Pomilio”, l’ultima opera in ordine di tempo di Maurilio Di Giangregorio, sebbene egli ne abbia già altri 5 in corso di pubblicazione e vedranno la luce entro il 2020. L’interessante volume, fresco di stampa, racconta i Pomilio, una famiglia di talenti abruzzesi che affonda le sue radici ad Archi, un paese dell’entroterra in provincia di Chieti. Capostipite fu Domenico Livio Giuseppe Pomilio, nato ad Archi il 16 luglio 1843, da Donna Diana Lannutti e Don Massimo Pomilio, entrambi del luogo e discendenti di famiglie di notabili locali.

 

Con questa importante opera – scrive Maurilio Di Giangregorio nella pagina di Presentazione che apre il volume -, ho voluto approfondire la conoscenza di una famiglia abruzzese, quella dei POMILIO, i cui componenti maschili hanno contribuito allo sviluppo del capitalismo industriale italiano tra la fine dell’età giolittiana e il periodo del “miracolo economico”. Particolare attenzione è stata dedicata alle iniziative industriali localizzate nelle regioni del sud dell’Italia. Ho voluto documentare l’opera con le notizie riguardanti i singoli componenti: fatti, storie e personaggi, non trattati, o omessi, in altre pubblicazioni, anche di successo, perché sconosciuti, nella loro essenza intima e strettamente famigliare. Questo ci mostra un aspetto inedito particolare, che mette a nudo l’anima di una famiglia illuminata, che ha risentito in pieno, vivendole, le vicende storiche di quel periodo, anche in contrapposizione ideologica, ma che non hanno prodotto divisioni nel nucleo famigliare. Quasi tutti i componenti della famiglia Pomilio, nella morte, si sono ritrovati nel Mausoleo del Cimitero di Francavilla al Mare, intitolato a Pomilio Livio, Ingegnere di Archi (Chieti), loro genitore, come ultima dimora. Questa ricerca, che mi ha impegnato per diversi anni, seppure lacunosa e incompleta, raccoglie tutta la pubblicistica riguardante la famiglia Pomilio, reperita nelle biblioteche e archivi nazionali, e ci mette in condizione di approfondire ulteriormente la conoscenza di umanisti, professionisti e imprenditori, che al primo posto hanno messo l’interesse per lo sviluppo della loro terra d’origine: l’Abruzzo.”

 

Domenico Livio Pomilio, il capostipite, fu direttore tecnico della Provincia di Chieti dal 1861 al 1911. Come tale realizzò tantissime opere pubbliche nel territorio provinciale. Fu redattore del Piano regolatore del nuovo rione fuori Porta Sant’Anna di Chieti. Fino al 1911, quando andò in pensione, aveva realizzato una rete stradale rotabile di oltre 600 chilometri, praticamente unendo tutti i centri abitati del chietino. L’ingegnere Domenico Livio e sua moglie Giuseppina Cortese, di ricca famiglia napoletana, ebbero 11 figli. Ad eccezione di Amalia e Beatrice, tutti gli altri figli maschi erano laureati in ingegneria, chimica, economia e giurisprudenza. Tutti professionisti e tecnici di elevatissimo valore: Federico avvocato; Amedeo, Ernesto, Giulio si laurearono in scienze economiche; Alessandro, Carlo, Ottorino e Vittorio in ingegneria; Umberto in chimica. Questi, nel dettaglio, i principali discendenti della stirpe.

 

Amedeo Pomilio (Chieti, 1882 – Francavilla al Mare, 1963) conseguì la laurea in Scienze economiche in Svizzera. “E’ anch’egli un esponente di quel coacervo di personaggi geniali ed intraprendenti, straordinario per l’Abruzzo ed il Mezzogiorno nel complesso, che è stata nella prima metà del Novecento la famiglia Pomilio. […] L’arte misteriosa degli alchimisti, dicono tutte le testimonianze, era una passione che Amedeo nutriva da ragazzo.  Fornito di un rudimentale alambicco, si era costruito un proprio laboratorio dove cercava di carpire in sofisticate miscelazioni, sulla base di antiche usanze paesane, i sapori e i profumi della terra d’Abruzzo.” (Emanuele Felice). Amedeo, infatti, viene ricordato come fondatore della Distilleria Aurum, società nata nel 1923 che realizzò il caratteristico stabilimento di liquori progettato dal grande architetto fiorentino Giovanni Michelucci. Qui si produssero l’Aurum, la Cerasella, la Mentuccia di San Silvestro, confezionate con bottiglie caratteristiche e con etichette xilografate da Armando Cermignani. Ebbe dell’Abruzzo una sua visione economico e culturale di regione-cerniera fra l’Adriatico e le tre parti del Paese.

 

«Quando per vicende di guerra la figura storica della patria può sembrare scaduta, ella ha una riserva antichissima e vergine nella regione; la cui civiltà indigete e materna, cioè generosamente italiana, non si è ancora compromessa perché non mai riconosciuta. Tuttavia essa è quanto mai presente e radicata nel cuore di tutti». «La regione dunque può garantire al mondo il valore umano della stessa nazione. Esente da ogni possibilità nazionalistica aggressiva, come organismo minore, lascia meglio individuare nell’unità indivisibile dell’Italia la sua fisionomia, che perciò ogni altro popolo è disposto a riconoscerle. Con il che, essendo la regione ottima mediatrice e pegno di pace e di comprensione dell’Italia presso le al­tre genti del mondo, concorre all’unità eu­ropea».

 

Questa era la pre­messa ideale alla fon­dazione dell’Unione delle Genti d’Abruzzo, un sodalizio attra­verso il quale, fin dal­la primavera del 1946, Amedeo Pomilio for­mulava – ancor prima che l’Assemblea Co­stituente gli desse di­gnità istituzionale – il suo pensiero regiona­listico, conferendogli il carattere d’una iniziativa nascente non da un potere centrale, ma dall’impulso di forze economiche e culturali locali. Lo statuto del­l’Unione delle Genti d’Abruzzo contiene tutta la filo­sofia regionalistica di Amedeo Pomilio. Esso è una specie di atto di fede nella re­gione, fondato sulle sue tradizioni, sulla sua storia, ma soprattutto sulla valutazione delle sue potenzialità ancora quasi tutte inesplorate.

 

Ottorino Pomilio (Chieti, 1887 – Roma, 1957) studiò al Liceo G. B. Vico per poi trasferirsi a Napoli dove si laureò in ingegneria industriale ed elettrotecnica. Vincitore di borsa di studio si trasferì a Parigi ottenendo la specializzazione che gli consentì, una volta rientrato in Italia, di essere nominato capo dell’Ufficio Tecnico del Battaglione Aviatori, potendo così sviluppare appieno la sua vocazione di inventore e progettista nel campo dell’aeronautica. Nel 1913 stabilì il primato italiano di volo in altezza e nel 1915 divenne sottotenente del Genio militare. Chiamato come progettista alla Direzione Tecnica dell’Aviazione Militare (DTAM), lavorò a stretto contatto con il fratello Carlo e con un altro grande talento abruzzese dell’ingegneria aereonautica, Corradino D’Ascanio. L’intesa tra i tre ingegneri diede vita ad un proficuo rapporto collaborativo negli stabilimenti italiani di Pisa e Torino e li portò a lavorare anche oltreoceano, tant’è che nel 1918 il Governo americano chiese ufficialmente al Governo italiano di avere la collaborazione dei fratelli Pomilio e di D’Ascanio. Infatti, giunti negli Stati Uniti, presso Dayton (Ohio) diedero subito vita alla società “Airplane Pomilio Brothers Corporation”, con l’intenzione di costruire una fabbrica aeronautica avvalendosi della collaborazione di altri fratelli (Alessandro, Ernesto e Vittorio) e di Corradino D’Ascanio, oltre ad una ventina di tecnici giunti in gran parte dall’Abruzzo. Finito il conflitto mondiale si concluse anche la collaborazione con gli stabilimenti di Indianapolis ed Ottorino, non riuscendo nel programma di convertire la sua progettualità dal campo dell’aereonautica militare a quella civile, abbandonò definitivamente l’aeronautica per dedicarsi esclusivamente alla chimica, settore nel quale i fratelli Umberto ed Ernesto avevano già ottenuto qualche successo a Napoli con la Elettrochimica Pomilio.

 

 

Umberto Pomilio (Chieti, 1890 – Francavilla al Mare, 1964) si era laureato in chimica all’Università di Napoli in giovane età, col massimo dei voti e la lode. Fu libero docente. Successivamente in Svizzera si laureò in ingegneria chimica. Dopo essersi specializzato in Germania, elaborò un metodo per l’estrazione della cellulosa dallo sparto e dalla paglia che consentiva di fare a meno del legno ed assieme al fratello ingegnere Ottorino brevettò il Processo Pomilio grazie al quale, nel 1936, il regime fascista decretò la nascita a Chieti di una fabbrica per la produzione della carta. Con un massiccio finanziamento, testimonianza del progetto rivoluzionario nel metodo, nacque nel 1938 lo stabilimento CEL.D.IT. Cellulosa d’Italia. Fu scelta, per l’edificazione della fabbrica, un’area dove al tempo c’erano solo campi coltivati, destinata a divenire negli anni successivi La Vallata del Lavoro, come amava definirla Ottorino. Umberto fu Cavaliere del Lavoro. Sposò Sabatier Marie Edmée Celine Geneviève, figlia del premio Nobel per la chimica Paul Sabatier, di Tolosa (Francia). Il loro figlio unico Bruno Pomilio, nato a Napoli nel 1924, morì sui Pirenei in Francia nel 1939, all’età di 15 anni. Nell’agosto del 1953 il CAI di Chieti volle intitolargli il rifugio sulla Maiella, denominato “Rifugio Bruno Pomilio“.

 

Vittorio Pomilio. Nel cielo di Pola d’Istria, il mattino dell’11 luglio 1924, la folgore del fato recideva la giovinezza di Vittorio. Studente di ingegneria, aveva frequentato l’Accademia navale di Livorno. Quando cadde con il suo aereo rivestiva il grado di Tenente di Vascello.

 

Amalia Pomilio sposò a Chieti, il 19 luglio 1902, l’avvocato Giacomo Costa. Questi subì la repressione del regime fascista. Era stato confinato alle isole Tremiti e successivamente a Lampedusa, da dove evase rifugiandosi in Francia. E’ morto a Roma il 5 aprile 1963.

 

In pillole, questa la storia della “dinastia” Pomilio, ma ampia trattazione l’Autore dedica al capostipite Domenico Livio e agli 11 figli Amedeo, Umberto, Ottorino, Carlo, Giulio, Amalia, Alessandro, Beatrice Federico, Ernesto e Vittorio. Chi riterrà opportuno approfondire, potrà farlo leggendo il volume “La famiglia Pomilio”, 806 pagine, ricco d’un corposo apparato di documenti e immagini fotografiche. L’opera è solo l’ennesimo lavoro saggistico dello scrittore e storico Maurilio Di Giangregorio, nel cui notevole corpus di pubblicazioni si possono trovare le storie di altre famiglie (Giovannucci, Morante, Federici, Strozzi, Del Fante, prossimamente Cappelli e De Angelis) e di personaggi abruzzesi (tra i quali Vincenzo Gentile, Michele Iacobucci, Panfilo Gentile, Gabriele D’Annunzio, Giovanni Del Guzzo, Luigi Casale, Elia Federici, Amelio Cichella, Andrea Bafile, Luigi Boschis, Filippo Carusi, Tito Acerbo, Panfilo Serafini, Adelchi Serena ed altri).

 

Notevole il contributo storico che Di Giangregorio ha riservato all’epopea alpina – Maurilio, ufficiale degli alpini, è stato esponente dell’ANA Abruzzi -, agli eroi abruzzesi nei vari fronti di guerra, alla Resistenza in Abruzzo. Rilevante anche il suo contributo nella ricerca storica nel campo dell’emigrazione abruzzese – importanti i suoi volumi sulla tragedia di Marcinelle, per i quali è stato insignito nel XXX e XXXI Premio internazionale Emigrazione -, ed i suoi numerosi saggi storici sui terremoti, per i quali ha meritato nel 2009 il riconoscimento alla Cultura come “Uomo dell’Anno” nel Premio L’Aquila “Zirè d’Oro”. Maurilio Di Giangregorio è giornalista pubblicista dal 2004 e collabora con il quotidiano dell’Abruzzo il Centro. E’ inoltre corrispondente dall’Italia del mensile “La Voce”, la rivista degli italiani in Francia (Parigi) diretta da Patrice Gaspari. E’ infine socio ordinario della Deputazione di Storia Patria per gli Abruzzi e socio dell’Istituto abruzzese di Storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea.

 

 




Giulianova. Anche l’I.N.G.O.R.T.P. di Teramo saluta il Comandante della Guardia Costiera di Giulianova

 

Donata la medaglia del 75° anniversario dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e una targa di merito

Giulianova. Anche l’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon – delegazione di Teramo – rappresentato dalla GdO Walter De Berardinis, ha salutato la partenza del Comandante della Guardia Costiera di Giulianova, il T.V. Claudio Bernetti in avanzamento C.C. all’ufficio stampa della Guardia Costiera a Roma. Negli uffici del comando giuliese sono stati consegnati: una medaglia (era prevista una cerimonia il 25 aprile c.a.) ricordo per il 75° anniversario dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – 1945/2020 – dove tra i 127 caduti giuliesi spiccano i 36 marinai giuliesi caduti con il corpo della Regia Marina Militare, il più alto tributo di sangue, seguito da 28 fanti e una targa di merito per l’attività svolta sulla costa teramana con la seguente frase: “La ringraziamo per essere stato sempre presente alle nostre cerimonie storiche-patriottiche, segno evidente che Lei indossa la divisa con il cuore e la passione che ogni ufficiale della Marina Militare Italiana mette al servizio del proprio Paese. Le auguriamo Le migliori fortune professionali e umane.”




Il CAST e L’I.N.G.O.R.T.P., con il patrocinio del Comune di Giulianova, organizzano un evento per ricordare il pilota automobilistico giuliese, Vincenzo Trifoni.

 

Vincenzo Trifoni

Vincenzo Trifoni

Vincenzo Trifoni

Attraverso la presentazione del libro: “Il Libico – Vincenzo Trifoni – l’Avventura coloniale e automobilistica del pilota che amava Giulianova”, del giornalista Paolo Martocchia, verrà ricordata la storia di un giuliese dimenticato dalla storiografia sportiva italiana.

L’evento, nel rispetto delle normative anti covid, si svolgerà sulla Terrazza Kursaal, mercoledì 29 luglio 2020, alle ore 21.00, con ingresso libero.

La serata, moderata dal giornalista e curatore dell’appendice del libro, Walter De Berardinis, vedrà la presenza di due volti noti dello sport motoristico internazionale: Gabriele Tarquini, Campione del mondo e Gianfranco Mazzoni, giornalista di Rai Sport. I saluti istituzionali saranno affidati al Sindaco di Giulianova, Jwan Costantini, agli Assessori alla Cultura, al  Turismo e alle Manifestazioni Giampiero Di Candido e Marco Di Carlo e al Presidente del CAST – Club Automoto Storiche Teramo Carmine Cellinese. Poi sarà la volta dello giornalista e saggista originario di Parma, Paolo Martocchia, che illustrerà i contenuti del libro attraverso la proiezione fotografica del materiale storico raccolto in diversi archivi storici nazionali ed internazionali. Le conclusioni della serata saranno affidati alla famiglia Trifoni con la presenza dell’ultima figlia del pilota giuliese, Elena e del nipote, Vincenzo Manini. La serata sarà allietata dal trio musicale “Redpoint Connection” composto da: Daniele Ferretti, Abramo Riti e Domingo Bidetta.

L’evento, con il patrocinio del Comune di Giulianova, è inserito nel programma estivo di “Giulia Eventi 2020”, e vede la collaborazione istituzionale anche dell’Archivio di Stato di Teramo e dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon.

Negli anni ’30 del secolo scorso Vincenzo Trifoni primeggiava sul fronte dell’automobilismo sportivo. Divenne di fatto un driver dalle eccellenti potenzialità dopo aver trionfato nella corsa di Regolarità Tunisi – Tripoli del 1928, piazzandosi alle spalle di personaggi storici come Giovanni Lurani Cernuschi e Lelio Quarantotti nelle successive due edizioni, soltanto per «banali errori d’orologio». Trifoni vinse sia su Lancia sia su Alfa Romeo, alla guida dei principali modelli dell’epoca, e nel 1930, tornato in Abruzzo, sigillò con una storica vittoria la prima edizione della corsa in salita “Teramo – Civitella del Tronto”. Perse solo il confronto con il Marchese De Sterlich, nella sua ultima corsa a Castel di Lama, dove competevano anche Tadini e Caniato, i soci di Enzo Ferrari della “Scuderia Ferrari” che pilotavano Alfa Romeo.

Il volume riscopre un grande personaggio dell’Abruzzo e della disciplina sportiva automobilistica e presenta in allegato i dati e le ricerche sui Caduti di Giulianova nella Seconda Guerra Mondiale, a 75 anni dall’anniversario. Lo studio archivistico è curato dal giornalista e ricercatore dei Caduti giuliesi nei due conflitti mondiali Walter De Berardinis, che ha ulteriormente tratteggiato il vissuto della famiglia Trifoni con un profilo sul fratello Romolo, Tenente di Fanteria deceduto nella Grande Guerra.

Grazie al lavoro di ricerca storica del giornalista Paolo Martocchia e alla passione del curatore Walter De Berardinis, ripercorreremo la storia e le imprese di un grande uomo di sport per lungo tempo dimenticato dalla storiografia sportiva italiana – dichiara il Sindaco Jwan Costantiniun appuntamento imperdibile, non solo per gli appassionati di automobilismo ma per tutti i giuliesi. Un’occasione importante per restituire alla città la memoria di un giuliese illustre”.