Mosciano Sant’Angelo. Artemia edizioni e Walter De Berardinis a ASCOLI PICENO, insieme agli Alpini del Feltre per ricordare i caduti della Grande Guerra.

De Berardinis e Artemia edizioni ospiti degli Alpini a Ascoli Piceno per ricordare la Grande Guerra

Lo scorso agosto con gli Alpini di Feltre e Caoria ha raggiunto quota di 2494 m s.l.m. per ricordare suo nonno, il Caporale Alpino del 7° reggimento Alpini – battaglione Feltre, Carlo De Berardinis

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Mosciano Sant’Angelo. L’Artemia editrice diretta da Maria Teresa Orsini e Walter De Berardinis, coautore del libro “Quado c’era la guerra” con l’interessante ricerca dei 122 caduti giuliesi della Grande Guerra, sono stati inviati al raduno (ad Ascoli Piceno dal 30 settembre al 2 ottobre 2016) delle sezioni del 4° raggruppamento Centro – Sud – Isole degli Alpini da Nicola Mione, vice Presidente della Sezione ANA di Feltre.

WALTER DE BERARDINIS SULLA CIMA DEL MONTE CAURIOL
WALTER DE BERARDINIS SULLA CIMA DEL MONTE CAURIOL

Sabato 1 ottobre, in quest’occasione, la delegazione feltrina renderà omaggio al loro concittadino, Angelo Zannettelli, ucciso ad Ascoli e lì sepolto nel periodo della lotta al brigantaggio (proprio a Zannettelli è dedicata la caserma degli alpini di Feltre). In concomitanza con gli amici di Feltre, verrà presentato il libro e ricordato il nonno dell’autore, Carlo De Berardinis, morto a Caoria di Canal San Bovo (TN), il 15 settembre 1917 con il 7° reggimento Alpini – battaglione Feltre – 64° compagnia. Walter De Berardinis, recentemente, è stato ospite dell’Associazione Nazionale Alpini di Caoria con la collaborazione delle sezioni di Trento e Feltre in occasione del 100° anno della conquista del Monte Cauriol in cui morì proprio Carlo De Berardinis.

WALTER DE BERARDINIS CON GLI ALPINI DI CAORIA (TE)
WALTER DE BERARDINIS CON GLI ALPINI DI CAORIA (TE)

Durante i due giorni rievocativi, l’autore del libro ha partecipato alla scalata del Monte Cauriol fino ad arrivare alla cima (quota 2494m s.l.m.), ricalcando lo stesso sentiero della compagnia del nonno (la 64° del Feltre); al termine della scalata, sulla cima, sono state disperse delle zolle di terra portate direttamente dall’Abruzzo con la precisione dai comuni di Bellante (luogo natio), Cologna Paese (luogo dove viveva con la giovane moglie Grazia Di Bonaventura) e Giulianova (dove morì sua moglie), successivamente lo stesso “rito” è stato fatto nel Cimitero Militare di Caoria di Canal San Bovo (TE).

LIBRO A CURA DI SANDRO GALANTINI E WALTER DE BERARDINIS
LIBRO A CURA DI SANDRO GALANTINI E WALTER DE BERARDINIS STAMPATO DALLA ARTEMIA EDIZIONI DI MOSCIANO SANT’ANGELO

Momento toccante dei due giorni storico-culturali è stata la presentazione del libro con il ricordo dei caduti Alpini giuliesi: Domenicantonio Di Donato, 7° Alpini-batt. Cadore; Domenico Marcozzi, Ferdinando Mastrilli, Angelo Sacchini e Pasquale Rossi del 7° Alpini; Antonio Rosci e Gaetano Stacchiotti del 5° Alpini – battaglione Edolo; poi la consegna delle targhe commemorative di ringraziamento per aver accolto nel proprio comune le spoglie del caduto realizzate dalla famiglia De Berardinis in collaborazione con il Sindaco del Comune di Bellante, Giovanni Melchiorre, donate al Sindaco di Canal San Bovo, Albert Rattin e a Luigi Caser, Presidente dell’ANA Caoria. Anche le Associazioni Culturali di Roseto degli Abruzzi, Terra e Mare e Circolo Filatelico e Numismatico, rispettivamente rappresentate da Luciano Di Giulio e Emidio D’Ilario hanno contribuito donando la pubblicazione «La cartolina racconta la storia della città» e Maurizio Dattoli delle librerie Ianni di Giulianova con delle pubblicazioni sulla città.

 

Ufficio Stampa  – Artemia Edizioni

Via G. Pascoli, s.n.c. – C.da Ripoli,  64023 Mosciano S.A. – Teramo

Tel.: +39 085 802237 – Fax: +39 085 8071440 – Cell.: +39 347 5364795

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Roma. Ta Pum – il film documentario – alla Notte dei Ricercatori

Presso CNR-Artov (Area ricerca CNR di Roma Tor Vergata), via Fosso del Cavaliere 100, in occasione della Notte Europea dei Ricercatori, venerdì 30 settembre alle ore 20.00 verrà proiettato in anteprima ‘Ta Pum’, il film documentario  che ripercorre in poco più di 30 minuti gli oltre 2.000 km del Cammino della Memoria, realizzato dai team alpinistico ed escursionistico di Ta Pum nel 2014.

Presenteranno il film: l’autore del documentario Marco Ferrazzoli, Capo Ufficio Stampa Cnr, Maurizio Gentilini del Dipartimento scienze umane Cnr, Paolo Plini, ricercatore dell’Istituto di inquinamento atmosferico Iia-Cnr.

L’iniziativa sarà anche accompagnata da una mostra didattica sul meteo negli inverni di guerra, curata da Massimiliano Pasqui, che verrà illustrata, a partire dal pomeriggio, da studenti di alcuni Istituti Superiori di Roma.

Gli spettatori riceveranno in omaggio una busta di Myosotis, il fiore a tutti noto come “non ti scordar di me”, che il progetto Ta Pum promuove come fiore della  memoria italiano.

Ingresso libero e gratuito, previa registrazione sul sito http://eventi.artov.rm.cnr.it

Scarica l’invito dal www.tapum.it




Bellante. Conferenza:”BERTO RICCI, NICOLA BOMBACCI, ALESSANDRO PAVOLINI – L’OFFENSIVA NAZIONAL-POPOLARE!” e il libro “JOSEF TISO, CON IL POPOLO E PER IL POPOLO”,

L’Ass.ne culturale NUOVE SINTESI

Presenta la Conferenza:“BERTO RICCI, NICOLA BOMBACCI, ALESSANDRO PAVOLINI – L’OFFENSIVA NAZIONAL-POPOLARE!” e  il libro “JOSEF TISO, CON IL POPOLO E PER IL POPOLO”,bellante-01016-4-ultimaInterviene: Roberto Mancini (Storico-Saggista).

SABATO 1 OTTOBRE 2016, ORE 17.00, SALA CONSILIARE COMUNALE “A. SALICETI” – BELLANTE TE)

Nell’incontro saranno “raccontate” e analizzate le figure rivoluzionarie del fascismo “movimentista” nella prima parte … mentre nella seconda parte verrà presentato in prima assoluta il libro “JOSEF TISO, Con il Popolo e per il Popolo”, incentrato sulla figura del sacerdote slovacco che fu ucciso dai comunisti nel 1947 …




“Celebrata a Pescocostanzo la 15^ Giornata Nazionale Mauriziana applauditissimo il messaggio pervenuto dal presidente del Senato Pietro Grasso“

 

 

 

Celebrata a Pescocostanzo d’Abruzzo la 15^ Giornata Nazionale Mauriziana alla presenza delle rappresentanze interforze di Decorati Medaglia d’Oro Mauriziana di Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri e Guardia di Finanza, unitamente alle rappresentanze con gonfalone dei Comuni di Roccaraso, Rocca Pia e Pescocostanzo. Numerose le Associazioni Militari Combattentistiche e d’Arma intervenute unitamente ai Gruppi Alpini per rendere omaggio al loro Santo patrono Maurizio. La Santa Messa è stata officiata da Don Daniel Arturo Cardenas Rettore della Basilica di Santa Maria del Colle. Al termine della celebrazione eucaristica sono seguiti gli interventi di saluto della Dottoressa Rosa D’Antonio e del Presidente della Fondazione Mauriziana Cav. Mauro Di Giovanni che ha ringraziato il Capo di Stato Maggiore della Difesa Generale Claudio Graziano per l’apprezzamento rivolto alla Fondazione. Numerosi sono stati i messaggi augurali pervenuti dalle autorità istituzionali, particolarmente applaudito dai presenti, il messaggio del Presidente del Senato Pietro Grasso per i contenuti altamente significativi e toccanti. Al termine dell’incontro il presidente onorario della Fondazione Mauriziana Sergio Paolo Sciullo della Rocca decorato Medaglia d’Oro Mauriziana del Corpo degli Alpini ha comunicato che la Celebrazione della 16^ Giornata Nazionale Mauriziana, è già stata fissata per martedì 17 settembre 2017.

 

 15^ GIOR.NAZ.MAUR.2016.-

15^ GIOR.NAZ.MAUR.2016.-

ALLEGATA – Foto: di Foto Arte Valentino Di Stefano

 




Italia. Editoria: 26 settembre 1973, si spegne Anna Magnani. 43 anni fa ci lasciava l’attrice più celebre d’Italia. Oggi viene raccontata nella biografia scritta dal giovane Matteo Persica

26 settembre 1973, si spegne

Anna Magnani

43 anni fa ci lasciava l’attrice più celebre d’Italia. Oggi viene raccontata nella biografia scritta dal giovane Matteo Persica che verrà presentata il 29 settembre al Terra di Siena International Film Festival.


In un momento storico come il nostro, nel quale l’arrivismo e la smania di visibilità sono all’ordine del giorno, dovremmo domandarci se un modello pregno di valori come quello di Anna Magnani, che preferì restare fedele a se stessa e al suo pubblico fino alla fine anche quando il mondo del cinema le fece la “guerra”, dipingendola
come donna dal carattere “difficile” e mettendola letteralmente ai margini, valga la pena farlo conoscere alle nuove generazioni.

A quarantatre anni precisi dalla morte (avvenuta il 26 settembre 1973) e sessant’anni dopo la vittoria dell’Oscar, Anna Magnani resta l”attrice più popolare d’Europa, avendo conquistato tutti attraverso le sue interpretazioni indimenticabili: da “Roma città aperta” a “Bellissima”, da “La rosa tatuata” a “Mamma Roma”. Al contrario, la donna Magnani è rimasta sempre un mistero e negli anni si sono accavallati ritratti distanti dalla realtà. Ora, attraverso il libro “Anna Magnani. Biografia di una donna” di Matteo Persica (Odoya Edizioni) – verrà presentato il 29 settembre al Terra di Siena International Film Festival – possiamo dimenticare lo stereotipo della donna volgare, isterica e dal carattere scontroso. Al contrario, dal libro di Persica ne viene fuori il ritratto di una persona colta, intelligente, introspettiva, capace di analizzare la società in maniera scientifica, una donna dalla mentalità umana, moderna e controcorrente.

Il giorno dopo la sua morte, erano centinaia le persone immobili sotto la pioggia. Non c’era nulla da aspettare, ma loro aspettavano.

Alle dieci del mattino di quel 27 settembre 1973, mentre il mondo della politica esprimeva il suo cordoglio, una folla si era riversata davanti ai cancelli della clinica Mater Dei, nel quartiere Parioli, prendendola letteralmente d’assedio. L’istinto popolare prese il sopravvento: le persone erano pronte a buttare a terra il cancello di ferro pur di vedere Annarella. «Fateci entrare!» gridavano. Il direttore della clinica chiamò Valeria, che curava gli interessi dell’attrice. «Signora, che facciamo?» la supplicò. Poi repentinamente il tono di voce divenne perentorio: «Qui bisogna far qualcosa, altrimenti quelli ci demoliscono la clinica!». La folla si era raddoppiata in poche ore e, di comune accordo con Luca, il figlio, alle cinque del pomeriggio il direttore decise di aprire le porte della camera ardente.

Valeria e la collega Silvana, alle quali chiedeva di andare a vedere ogni suo film in uscita per conoscere la reazione del pubblico, questa volta erano costrette a fare da barriera tra il suo corpo esanime e la gente. Nella stanzetta c’erano solo rose rosse. Lei, truccata amorevolmente da Roberto Rossellini, aveva tra le mani un rosario di corallo rosa; in un angolo c’erano quattro suore vestite di grigio che pregavano. Si assistette a scene deliranti, con le popolane romane che si accalcavano l’una contro l’altra. Una di loro, con il volto rigato dalle lacrime, disse con un filo di voce al figlioletto di due anni che teneva in braccio: «Vedi, bello de mamma? Quella è Anna Magnani».

La sera precedente, il 26 settembre, per pura coincidenza all’annuncio della sua morte, dal piccolo schermo in bianco e nero il pubblico la rivide tornare al suo antico splendore quando il primo canale rai trasmise Correva l’anno di grazia 1870, diretto da Alfredo Giannetti. La trasmissione toccò unavetta mai raggiunta fino ad allora: quaranta milioni di telespettatori. Lei, per varie ragioni, non l’aveva mai potuto vedere completamente finito e montato: «Lo vedrò alla televisione» disse. «E mi piacerà sapere, dopo, come l’avrà giudicato il pubblico e, soprattutto, come avrà giudicato me».

L’estate era trascorsa fra un susseguirsi di conferme e di smentite sulle sue condizioni di salute. Il 20 settembre, l’ultima edizione del Momento-Sera titolava in prima pagina: “La Magnani sta morendo!”. Era la verità, ma non se lo aspettava nessuno. La malattia aveva fatto inesorabile il suo corso, e lei sentiva di stare male almeno da un anno o forse di più. Coma. Agonia. Queste due parole tremende erano nell’aria, mentre cominciava la penosa attesa dei giornalisti nell’atrio della Mater Dei, con le sue vetrate luminose, i suoi salottini ultramoderni, le due efficienti receptionist che dicevano di non saper nulla, di non poter confermare nulla. Con la sua scomparsa, il dolore maggiore l’avrebbero provato quanti avevano proiettato su di lei la propria adolescenza, scandita dal ritmo sordo e ossessivo della guerra che avrebbero avvertito meno violenta, vedendola riflessa negli occhi della popolana di Roma città aperta, che con il suo sguardo avrebbe materializzato il sentimento in una lezione di vita. Per loro nessuno avrebbe potuto nella tragedia dare un volto alla speranza come lei, che ne divenne l’icona e vi restò fedele per tutta la vita. Quarantasei anni di carriera, oltre quaranta film, dei quali almeno cinque resteranno di diritto tra i capisaldi del cinema, una galleria di personaggi che raffigureranno la storia del costume, nella faticosa ascesa della donna in una società che l’aveva relegata al ruolo di oggetto di lusso. I tempi e le mode cambiavano, ma la sua coerenza non veniva meno, finendo per prendere dimora in quella nicchia dorata e polverosa dove i fautori del “nuovo cinema” relegavano i vecchi miti, oscurando la sua persona, fino alla morte, che non le permise di vedere il tanto auspicato “nuovo corso” del cinema italiano.

Il 28 settembre, Valeria e suo marito scortarono in anticipo e in gran segreto il carro funebre dalla clinica alla basilica di Santa Maria sopra Minerva dove, alle ore undici, erano previsti i funerali. Lo stesso luogo dove era stata cresimata e aveva preso per la prima volta la comunione. Fu uno stupore trovarsi davanti a uomini, donne, giovani e vecchi di tutti i ceti sociali, che già da tre ore riempivano la basilica. Quando ormai non c’era più posto all’interno, si disseminarono per la piazza, attorno all’obelisco, fino a raggiungere il Pantheon. C’erano migliaia di persone, le strade chiuse al traffico e i negozi serrati in segno di lutto. Attorno alla cassa deposta ai piedi dell’altare, poggiata a terra, un onore che era riservato solo ai papi e ai capi di Stato, su un vecchio tappeto rosso sbiadito e con un unico grande cero davanti, si presentava la gente di Roma, la stessa che fin dalle prime ore della sua scomparsa pensava di raccogliere firme per innalzarle un monumento nel
popolare quartiere di Trastevere.

Quando, alle dieci e quarantacinque, dalla porta della sacrestia, il figlio Luca, accolto da Eduardo De Filippo, entrò in chiesa, il brusio dei presenti si fece ancora più intenso e i lampi dei fotografi bersagliarono il ragazzo senza pietà. Prima che il celebrante, padre Virginio Rotondi, un vecchio amico e padre spirituale di Anna, uscisse dalla sacrestia, un uomo anonimo e disperato, coprendosi gli occhi con le mani, riuscì a superare il cordone degli agenti e a buttarsi sopra la bara baciandola, seguito da presso da una donna bionda e grassa, vestita di bianco, che si inginocchiò in segno di affetto. Padre Rotondi si avvicinò al microfono, mentre nella sua mente tornava indietro col tempo di qualche ora: quando fu costretto a far intervenire Giulio Andreotti e Fiorenzo Angelini, assistente ecclesiastico dell’Associazione medici cattolici italiani, per consentirgli di dare il Sacramento dell’estrema unzione alla Magnani. Intanto, un bambino era riuscito ad arrampicarsi sulla statua del Cristo di Michelangelo, mentre l’altoparlante gracchiava: «Si prega il pubblico di fare silenzio», quasi ci si ritrovasse alla prima di un film o di uno spettacolo teatrale. «In queste condizioni non si può cominciare». Il brusio si acquietò, sia pure per pochi attimi, e Padre Rotondi iniziò a parlare: «Ho la tentazione di affermare che in questo momento io presto la sua voce a lei, ad Anna Magnani. In quella bara c’è il suo corpo esanime, quindi senza anima, perché la sua vita è stata trasferita altrove, per godere la pace e la gloria di Dio e per poter amare illimitatamente Dio. Mi sembra che sia lei, dunque, a parlare attraverso la mia voce. E Anna Magnani dice: ho gli occhi spalancati sulla magnifica realtà che prima intravedevo soltanto… Attraverso la mia voce, lei oggi vorrebbe dire a quanti hanno influenza nel mondo, nel campo politico, economico, artistico, di non distruggere, di non dissipare il loro genio, ma di utilizzarlo per costruire, non soltanto materialmente ma anche
moralmente, l’avvenire».

Quando la bara uscì dalla porta centrale della basilica la gente si ammassò e nell’impeto gli agenti di polizia vennero travolti. Dal tempio era impossibile uscire, dalla piazza non ci si muoveva, le viuzze erano ingorgate; qualcuno si sentì male, altri svennero ma rimasero in piedi trascinati dalla massa che si spostava. Tra i presenti c’era l’amica Marisa Merlini, che per avvicinarsi alla bara venne costretta a farsi scortare dai carabinieri. In quella basilica anche lei pianse lacrime amare, e quando le altre donne si alzarono in piedi, si unì a loro gridando: «Nannarella, non ci lasciare!». Appena le sue spoglie vennero sollevate sulle spalle dei portatori, avviandosi verso il lungo corridoio tenuto aperto al centro della navata dalle forze dell’ordine, esplose nel tempio un applauso fragoroso. L’ovazione rimbalzò nella piazza gremita di gente, tutti quelli che non erano riusciti a entrare nella basilica, mentre la bara scendeva lentamente la scalinata verso il furgone. Qualcuno
voleva toccare anche quello e ci riusciva, altri si contentavano di lanciare un bacio, altri ancora si facevano il segno della croce e sussurravano una preghiera. Il nome di Anna Magnani rimbalzava. Pareva davvero l’ultima scena di un film. Quando tutto si dissolse in un intimo corteo funebre che l’avrebbe portata al cimitero del Verano, nella piazza ormai sgombra rimasero le corone e una folla che le scrutava attenta, «Dio, come sono belle!», e leggeva i nomi sulle fasce. Il desiderio era più forte del pudore e le dita si allungarono rapidamente per carpire un fiore. Chi prendeva un bocciolo, chi strappava via senza alcun ritegno un mazzo intero. Il trofeo più bello, un mazzolino di mughetti inviato da Elizabeth Taylor, lo conquistò in tempo un donnone che, a spinte e gomitate, quasi lo divelse dalla cassa.

In chiesa e tra la folla si notarono tanti volti noti: da Alberto Sordi a Elsa Merlini, da Audrey Hepburn ad Amedeo Nazzari, da Mario Monicelli a Sergio Amidei, da Giulietta Masina a Roberto Rossellini. Fu proprio quest’ultimo, uno dei suoi più grandi amori, a starle accanto fino alla fine. Quando lui seppe che stava male gli inviò un telegramma: «Non è vero niente, comunque merda, merda, merda!». Poco dopo fu lei stessa a telefonargli: «Sono Anna. Vieni qui». Quando entrò nel suo appartamento la trovò in camera da letto, vestita per non sembrare una malata. Si strinsero l’uno all’altra, forse come mai avevano fatto. «Sono malata» gli disse «ma morire mi fa schifo, non voglio. Tu devi stare qua e impedirmi di morire. Roberto, non farmi morire». Lui le regalò una dolce bugia, promettendole che non l’avrebbe permesso. Anche quando gli ultimi attimi erano
vicini, lui le fece credere che non tutto era perduto, che una speranza era ancora viva. La accarezzava, le stava accanto, le parlava senza stancarsi di farlo, mentre si impegnava per trovare un farmaco capace di restituirla alla vita. Ma il farmaco, che in realtà non garantiva alcun miracolo, arrivò troppo tardi.

Il giorno dei funerali fece effetto la mancanza di Paolo Stoppa, che aveva condiviso con lei gli esordi. Pochi giorni dopo, su Il Globo, venne pubblicata una lettera nella quale l’attore scriveva: «Cara Anna, come mai al tuo funerale c’era tutta Roma e io no, non devo spiegarlo proprio a te, che certamente non saresti venuta al mio. Ce l’eravamo promesso – tacitamente – ogni volta che avevamo parlato insieme di questi magnifici funerali degli attori, che tutti e due sfuggivamo come fosse il nostro. “A questi galà” mi dicesti una volta “c’è sempre qualche collega del morto disposto a prenderne il posto nella cassa, pur di rubargli la parte di protagonista”. Credevo, Anna, che ai tuoi funerali almeno questo ti sarebbe stato risparmiato, per due motivi. Primo: perché la parte di protagonista, a te, nessun collega ha osato negartela mai, facendo anzi di te un monumento fin dai tempi di Roma città aperta. Secondo: perché a rubarti la parte di protagonista – in pratica – i
colleghi s’erano già abbastanza sfogati, da quei tempi a oggi, facendo di te appunto un monumento, ma un monumento disoccupato. E invece no. Anche al tuo funerale – e subito prima, e subito dopo – c’era un mucchio di gente che tentava di rubarti la battuta. Non dirò chi, non dirò come. Erano intanti, e ciascuno a suo modo, ciascuno nel suo piccolo».

Anna era morta. Qualcosa era veramente finito. «Ora non posso più nemmeno pensare di tornare a Palazzo Altieri» ricorda Franco Monicelli «di rivedere quella poltrona su cui lei sedeva. Perché quella casa, quella bellissima casa, senza di lei è morta, non vale più nulla. Come tutte le cose che toccava, che lei abitava, a cui lei partecipava. Erano vive finché c’era lei, senza di lei morivano. Un nostro amico mi ha telefonato oggi e piangendo mi ha detto: “Ora non ci litigheremo più”».

Anche in via degli Astalli 19, a Palazzo Altieri, la sua residenza da oltre vent’anni, era andato qualcuno. Fermo sull’entrata, il custode apriva il battente del portone chiuso in segno di lutto per far entrare e uscire le automobili dal cortile. Idealmente, lo stesso luogo dal quale un anno prima ci aveva salutato nella sua ultima partecipazione, seppur minuta, in un film: Roma di Federico Fellini. Quella scena non venne ripresa in strada davanti alla sua vera casa, ma la scenografia costruita dai sapienti maestri di Cinecittà riproduceva l’esterno di un palazzo in tutto e per tutto simile alla sua dimora. «Questa signora che rientra a casa, costeggiando il muro di un antico palazzetto patrizio, è un’attrice romana: Anna Magnani. Che potrebbe essere anche un po’ il
simbolo della città» la definiva, nell’ultima sequenza, la voce fuori campo di Fellini. «Che so’ io?» gli rispondeva stupita. «Una Roma vista come lupa e vestale» proseguiva lui. «Aristocratica e stracciona…». E lei: «De che?!», ancor più stupita. «Tetra» insisteva imperterrito Fellini. «Buffonesca… potrei continuare fino a domattina». «A Federì…» lo invitava lei «va’ a dormi’, va’». «Posso farti una domanda?» tentava lui disperatamente di prolungare il dialogo. «No, nun me fido, ciao» ribatteva lei seccamente, mentre chiudeva il portone del palazzo e con esso ogni speranza del regista. «Buonanotte!».

Davanti a quel portone, a chi si presentava in cerca di notizie, con malinconica fermezza, il custode rispondeva: «Qui ormai non c’è più nulla da vedere».
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Il libro “Anna Magnani. Biografia di una donna” è stato recentemente presentato con successo al Festival di Venezia, considerato dalla critica il migliore sull’attrice: «È un libro monumentale, zeppo di rivelazioni e di cosiddetti virgolettati significativi: un testo che rimarrà» per Mariano Sabatini; «Un’autobiografia postuma» per Giancarlo Governi; «Il più bel libro su Anna Magnani» per Maurizio Costanzo.

Un libro che ha sorpreso gli addetti ai lavori per la qualità del testo e per la giovane età dell’autore: Matteo Persica, romano classe 1982, autodidatta, che ha speso otto anni della sua vita per concludere le ricerche.
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Contatti:

Matteo Persica
matteo.persica@yahoo.it




L’omaggio sul Gran Sasso a due vittime dell’Operazione Quercia dimenticate dalla Storia Onorata la memoria di Giovanni Natale e Pasquale Vitocco 73 anni dopo quel 12 settembre ‘43 di Antonio Giampaoli *

 

 

 

L’AQUILA – In occasione del 73° anniversario del blitz dell’esercito tedesco che portò alla liberazione di Mussolini dalla prigione di Campo Imperatore, il Centro Turistico Gran Sasso d’Italia ha voluto ricordare il 12 settembre scorso il carabinere Giovanni Natale e la guardia forestale Pasquale Vitocco, che persero la vita in quella circostanza. Due vittime dell’Operazione Quercia dimenticate dalla Storia che ritrovano la dignità del ricordo, attraverso l’intitolazione a loro delle stazioni di Monte e di Valle della Funivia del Gran Sasso, con due targhe che sono state scoperte dai parenti delle vittime e benedette dal parroco don Giovanni Gatto. Una bellissima cerimonia con la presenza di autorità civili e militari, con l’omaggio doveroso alle famiglie del carabiniere e del forestale uccisi nell’assolvimento del loro dovere.
I parenti delle vittime si sono incontrati e abbracciati per la prima volta, con gli onori dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo Forestale dello Stato. I dettagli di quella giornata sono stati ricostruiti grazie agli storici Walter Cavalieri e Goffredo Palmerini. Il prof. Cavalieri, nel suo intervento, ha parlato di presunta “liberazione” di Mussolini dal Gran Sasso, con un ampio intervento ricostruttivo di quel periodo e di quegli eventi, ha così concluso:

 

“… qualche storico dell’ultim’ora pare aver scoperta l’acqua calda, cioè che esistesse un accordo segreto italo-tedesco che prevedeva la consegna del duce in cambio della fuga del re e di Badoglio. Per la verità, la tesi dell’accordo Ambrosio-Kesselring fu sostenuta per la prima volta da Ruggero Zangrandi (“L’Italia tradita”, Mursia, 1971) e più recentemente rilanciata dal giornalista Marco Patricelli. Come si sa, l’accordo fu pienamente eseguito a Campo Imperatore, ma qualcuno dimenticò di avvertire i pochi carabinieri di Assergi e ogni altro uomo in divisa. Per questo a valle furono uccisi dai tedeschi il carabiniere Giovanni Natale e il forestale Pasqualino Vitocco. Vittime della ragion di Stato di cui oggi è stata finalmente onorata la memoria”.

 

Dopo Cavalieri, l’intervento di Goffredo Palmerini.

 

“Farò un intervento breve, dopo l’ampia relazione sul contesto storico di quei giorni che con la sua competenza ha fatto il prof. Cavalieri. Cercherò, per quanto mi riguarda, dai fatti che ricordiamo di trarre un giudizio e un ammonimento – da modesto uomo delle istituzioni fino a qualche anno fa – che valgano per allora, per l’oggi e sopra tutto per il futuro. Mi sono interessato a queste vicende leggendo pubblicazioni che l’hanno analizzate – i libri di Marco Patricelli, Walter Cavalieri, Aldo Rasero, Vincenzo Di Michele – ma ancor più ultimamente scrivendo la Presentazione a un bel libro di Antonio Muzi, “L’ala tedesca sul Gran Sasso”. Antonio Muzi, studioso di storia per pura passione, ha scritto un volume di forte interesse e di grande utilità specie per le giovani generazioni, per far conoscere meglio uno dei periodi più bui e penosi della nostra storia nazionale. E quello del quale qui e ora stiamo parlando resta un buco nero della nostra storia nazionale, con la quale ancora non facciamo del tutto i conti. Parliamo degli avvenimenti che interessarono l’Italia dal 25 luglio 1943, con il voto del Gran Consiglio e la conseguente caduta del regime fascista, fino alla “liberazione” di Mussolini dalla “prigione” di Campo Imperatore, il 12 settembre, che poi portò alla nascita della Repubblica di Salò e alle drammatiche conseguenze che ne seguirono.


Fu un mese e mezzo, o poco più, denso di avvenimenti che cambiarono il corso della nostra storia, tra miserie morali e fughe dalle responsabilità, culminate in quell’8 settembre 1943, quando l’Italia andò allo sbando per l’inqualificabile comportamento del Re, del capo del Governo generale Badoglio e del capo di Stato Maggiore generale Roatta, fuggiti dalla capitale ad Ortona, da qui imbarcatisi per Brindisi, senza aver lasciato ordini chiari e precisi alle nostre Forze Armate, rimaste in balia della reazione tedesca in Italia e nei diversi fronti di guerra. La pagina più nera della nostra storia patria, dalla quale tuttavia sarebbe nata la Resistenza e la lotta di Liberazione, con il riscatto della dignità del Paese, prodromo alla riconquista delle libertà democratiche e alla nascita della Repubblica.


Torniamo, per un momento, a quei giorni, quando dall’isola della Maddalena il prigioniero Mussolini il 28 agosto fu tradotto sul Gran Sasso, dapprima alla “Villetta” di Fonte Cerreto e qualche giorno dopo all’albergo di Campo Imperatore. Accanto e intorno al Duce, nel corso della sua prigionia e fino alla sua “liberazione”, avvenuta il 12 settembre di 73 anni fa, con la proditoria “Operazione Quercia” dei Tedeschi, concertata dal generale Student con il maggiore Mors, si aggira una fioritura di varia umanità, personaggi che sembrano più adatti al teatro delle maschere, tanto sono capaci di recitare a soggetto. Funzionari dello Stato ciascuno dei quali, rispetto ai propri doveri e alle proprie responsabilità, opera a suo piacimento, omettendo o modificando le disposizioni ricevute, a seconda delle personali convenienze o convinzioni. Oppure adottando comportamenti non del tutto compatibili o appropriati a quelli che la propria funzione dovrebbe osservare. Eccone un campionario: Polito, Meoli, Senise, Gueli, Faiola, ma anche altri.


Sicché la catena di comando risulta svilita, praticamente aleatoria, come dimostrano i fatti susseguitisi dal 25 luglio al 12 settembre ’43. E l’ordine di Badoglio di non far cadere vivo il prigioniero in mani tedesche, dunque all’occorrenza di sopprimerlo – ma Badoglio sapeva pure che Mussolini, in base al patto d’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre dal generale Castellano, avrebbe dovuto essere consegnato vivo agli Alleati! – non ha praticamente alcun séguito. Come non ha praticamente séguito per tentennamenti nell’esecuzione l’ordine superiore, ribadito dal prefetto dell’Aquila all’ispettore Gueli, di trasferire Mussolini da Campo Imperatore a Fano Adriano, nel versante teramano, in vista d’un possibile imminente attacco tedesco. O come Gueli interpreta a suo modo la raccomandazione del capo della Polizia Senise di regolarsi “con prudenza” in caso d’attacco tedesco, tradotto praticamente nell’ordine “non sparate” quando il capitano delle SS Otto Skorzeny, sceso dal primo degli alianti tedeschi atterrati a Campo Imperatore e precipitatosi verso l’albergo, va a “liberare” Mussolini.

Il “fortilizio inespugnabile”, così definito dal medesimo Gueli per rassicurare Badoglio, non produce difesa o reazione alcuna in chi è a sua difesa, diventa una casa aperta ai militari del commando tedesco venuto dal cielo che in pochi minuti “liberano” Mussolini, fanno persino foto di gruppo con i militari italiani, caricano Mussolini su un monomotore biposto Fieseler Storch – sul quale pretende di salire e sale anche Skorzeny, l’avventato capitano delle SS fatto poi passare per eroe, mettendo a serio rischio il decollo – lo portano a Pratica di Mare e da quell’aeroporto un aereo trasferisce il Duce e Skorzeny al cospetto di Hitler.


Da questo quadro viene fuori – per quel periodo e per quegli avvenimenti – un’Italia che non vorremmo mai più vedere, uno Stato liquefatto, le sue istituzioni sfarinate, dove imperano sotterfugi e menzogne, furbizie e fughe dalle responsabilità, mancanze di lealtà o insufficienze verso i propri doveri. Un cercare di arrangiarsi, di adattarsi agli eventi secondo convenienza, dove il rigore del dovere è perso, il senso del rispetto verso la nazione e il suo destino, in una congiuntura così drammatica, viene declinato secondo la personale utilità. Il segno d’una decadenza etica, nel corpo stesso dello Stato, terrificante. Solo alcuni giorni dopo quel 12 settembre inizierà la riscossa dell’Italia, il recupero della dignità nazionale.

Questa decadenza etica del senso dello Stato e dei propri doveri trova qui a Campo Imperatore il suo apice. E di fronte alla vergogna d’una simile condizione il comportamento del carabiniere Giovanni Natale e della guardia forestale Pasquale Vitocco, due umili persone in divisa che erano al posto di blocco nei pressi di Assergi o nelle immediate vicinanze a fare il loro dovere, furono le sole a lasciarci la vita, sotto i colpi della mitragliatrice sparati dalla colonna motorizzata tedesca al comando del Maggiore Harald Mors che procedeva verso Fonte Cerreto. Due persone, due uomini dello Stato, due padri di famiglia che stavano facendo il proprio dovere, morti nell’esercizio del proprio dovere. Il loro comportamento, nel contesto di tradimento dei valori di lealtà verso lo Stato e delle responsabilità, li fa assurgere a semplici eroi. A loro va il nostro rispetto, la nostra gratitudine e l’onore che a loro compete per la dignità del loro comportamento. L’onore che oggi, seppure tardivamente, gli tributiamo, facendone memoria con l’apposizione di queste due targhe, nelle stazioni di partenza e arrivo della Funivia del Gran Sasso.


Quel loro comportamento ci riscatta in parte dalla vergogna di quei giorni. Un riscatto che sarebbe poi cresciuto proprio dall’Aquila, con i partigiani che s’erano organizzati sulle nostre montagne, cui s’aggiunsero alcuni giovani. Nove di essi furono catturati dai tedeschi e fucilati, dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa. Accadde il 23 settembre. Sono anche loro i nostri eroi, i 9 Martiri Aquilani. Il loro sacrificio nello stesso giorno dell’eccidio di Cefalonia. Per questo andiamo orgogliosi e come Abruzzesi ancor più per il contributo rilevante reso dall’Abruzzo alla lotta di Liberazione dal nazifascismo, con la nascita della Brigata Maiella, nel dicembre ’43: il primo reparto partigiano militarmente inquadrato, l’unico insignito di Medaglia d’Oro al valor militare, la formazione combattente con il più lungo e ampio ciclo operativo, dall’Abruzzo alle Marche, all’Emilia Romagna e al Veneto, fino alla completa liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Se dunque c’è un ammonimento da trarsi per l’oggi e per il futuro dal sacrificio di Giovanni Natale e Pasquale Vitocco, esso risiede nel richiamare in ciascuno di noi il senso dello Stato, nel rispetto dei propri doveri, ciascuno nell’ambito delle proprie responsabilità piccole o grandi. In ogni condizione o circostanza, ordinaria o eccezionale. L’unico modo, qusto, per dare dignità alla nostra vita e un futuro migliore alla nostra comunità e alla nostra Italia”.

 

Il prefetto dell’Aquila, Francesco Alecci, in un intervento molto intenso e toccante, ha infine sottolineato che «lo Stato all’epoca non fu capace di governare la situazione. Ingloriosa fu la vita di Mussolini, come ingloriosa fu la sua fuga. Non fu una liberazione».
Il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, ha parlato di due persone che la storia ha voluto nascondere.

«Una delle vittime più grandi è la verità di quel giorno», ha osservato il presidente del Ctgs, Fulvio Giuliani, che ha avuto il merito di promuovere questa significativa manifestazione.
Con un pizzico di orgoglio e con tanta commozione Giocondina Giusti, nipote di Pasquale Vitocco, ha voluto ringraziare gli organizzatori della cerimonia, anche a nome della mamma (figlia della vittima), degli zii e cugini residenti in Australia ed in America:

 

«Ringrazio l’amministrazione del Centro Turistico, le Autorità militari, civili e religiose che hanno voluto onorare la memoria di nonno Pasquale, uomo onesto e ligio al dovere che esercitò la sua professione di guardia forestale ai piedi di queste nostre bellissime montagne. L’occasione mi suggerisce l’augurio che le generazioni future non possano mai più conoscere le sofferenze della guerra e che questo nostro bellissimo Gran Sasso sia fonte di benessere per le popolazioni che vivono nei suoi dintorni. Grazie ancora».
Un episodio storico che si consumò ad Assergi, che scosse la nostra comunità. Il sito web “Assergi Racconta” ha ricostruito la vicenda, attraverso le testimonianze dei figli del Vitocco e del soccorritore Costanzo Alloggia. Si trattò di un’azione di guerra, un’azione coordinata nella quale reparti di terra si incaricarono di spianare la strada per facilitare l’atterraggio a Campo Imperatore degli alianti che portavano i soldati che avevano il compito di liberare il Duce. Le truppe tedesche al comando del Maggiore Mors, viaggiavano sulla strada che porta a Fonte Cerreto dove è situata la stazione di partenza della Funivia per Campo Imperatore. L’avanguardia della lunga colonna motorizzata, costituita da motorette munite di mitraglia, costrinse alla resa un drappello di carabinieri che presidiava la strada verso la Base della Funivia. Un carabiniere, per l’appunto il Natale, rimase ucciso, non essendosi accorto che tutto il drappello si era arreso senza nemmeno sparare un colpo. In un pagliaio poco distante una guardia campestre, Pasquale Vitocco, avvedutosi del trambusto e temendo forse per sé e per la sua famiglia, pensò di uscire e di allontanarsi attraverso un viottolo che conduceva al paese (alla Porta del Colle, per essere precisi), ma alcuni soldati tedeschi lo avvistarono e, temendo, a motivo della divisa di guardia forestale che indossava, che avesse intenzione di chiamare rinforzi, gli spararono, ferendolo gravemente. L’episodio avveniva ad Assergi, all’altezza della località detta Fraunil. Soccorso poi da Costanzo Alloggia e dalla moglie che subito lo raggiunse, fu condotto alla casa della maestra Battista Sacco, in prossimità della Porta dell’Orologio. Successivamente fu portato all’ospedale dell’Aquila su di una camionetta degli stessi soldati tedeschi, che nel frattempo si erano resi conto del tragico errore, ma il mattino dopo Vitocco spirò.

 

*direttore Assergi Racconta – http://assergiracconta.altervista.org/

 




PRETI AQUILANI IN PRIMA LINEA. Il clero aquilano negli anni della dittatura fascista e dopo l’8 settembre 1943

 

 

 

L’AQUILA – L’11 settembre ricorre il 65° anniversario della morte di uno dei sacerdoti più esemplari del clero aquilano: don Natale Mariani, nato nel 1889 a Bazzano, ordinato sacerdote nel 1915, tre anni d’insegnamento presso il Seminario Aquilano e le monache di S. Basilio e dal 1918 al 1948 parroco di Tione. Trasferito a Cese di Preturo, vi spirò nel 1951. Nel 2007 Paride Duronio ne ha fatto un romanzo.

Don Natale Mariani
Don Natale Mariani

Orlando Antonini Nunzio
Orlando Antonini Nunzio

 

Dio non ha scelto gli angeli, scriveva un autore anni fa riferendosi ai preti, ma essere umani in carne ed ossa attraverso i quali egli fa fluire nei credenti la sua vita. Canali di creta, i preti, che spesso possono trovarsi in più o meno cattivo stato, ma egli fa loro assolvere ugualmente la funzione di canali conduttori, ragion per cui la Chiesa continua ad esistere confermando un’origine non da questo mondo. Don Natale fu tra gli ottimi di tali canali conduttori di vita, in quel di Tione.

 

Uomo di profonda spiritualità, solida cultura e notevoli doti umane, intellettuali e pratiche poliedriche che mise tutte a disposizione della sua gente, colpì quando disse ai Tionesi appena arrivato: “Sono nato in una famiglia ricca, ma non sono venuto qui per accumulare ricchezze; ho fatto voto al Signore di vivere in povertà… e vorrò spendermi soltanto per voi, fino a morire poverissimo”. Apparteneva a quella categoria di sacerdoti provenienti da casate patrizie che si servirono delle facoltà di famiglia tanto per arricchire le nostre chiese di preziosi paramenti e vasi sacri quanto e soprattutto per aiutare la gente bisognosa.

 

Il campo nel quale don Natale esplicò maggiormente la sua passione pastorale fu l’istruzione dei giovani. Còlte al suo arrivo a Tione le necessità della popolazione stremata dal terremoto del 1915 e dalla prima guerra mondiale, vide specialmente le necessità educative della gioventù: fino agli anni Venti del ‘900 nei nostri piccoli paesi la scuola pubblica si arrestava alla IV elementare, per cui i giovani erano senza futuro, obbligati a servire nei campi i possidenti locali, per vivere. Così organizzò, usando a volte gli inginocchiatoi dei banchi della chiesa per sedie e le loro panche per scrittoi, corsi di insegnamento superiore per giovani, anche dei paesi vicini. I frutti furono sorprendenti: contadini e pastori, con la preghiera e lo studio, hanno appreso “come l’uom s’eterna”, e molti dei suoi alunni, che agli esami di stato risultavano meglio preparati dei loro coetanei, sono ascesi a gradi notevoli nella società, nell’esercito, nell’amministrazione pubblica.

 

Questa dedizione ai giovani gli attirò le ire dei gerarchi fascisti, preoccupati che invece di frequentare la ‘Casa del Fascio’ essi affollavano la scuola di don Natale: anche a lui fecero trangugiare l’olio di ricino. Poi, durante l’occupazione tedesca nel 1944, sorpreso a rifornire di viveri i giovani rifugiati alle Pagliare di Tione, fu arrestato e messo in prigione all’Aquila, uscendone per l’intervento dell’arcivescovo di allora, Carlo Confalonieri.

 

La testimonianza di don Natale per il periodo di occupazione tedesca, tra 1943 e 1945, non fu isolata. Si segnalano altri casi, non meno coraggiosi, compiuti da vari nostri sacerdoti. La posizione ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche era di porsi al di sopra delle parti; nella pratica, attraverso appunto i parroci, si cercò per quanto possibile di sostenere le comunità e le persone in pericolo, i partigiani feriti, gli ebrei perseguitati. Oltre a quanto ha scritto nel 2004 Amedeo Esposito in un noto volume circa l’impegno in merito dell’arcivescovo Confalonieri e dei suoi collaboratori, è auspicabile condurre uno studio approfondito sull’opera della Chiesa aquilana in genere, in quelle tragiche circostanze. Alcuni parroci non esitarono ad intervenire presso le autorità tedesche per invocare tratti più umani verso civili prigionieri: è il caso del parroco di Tornimparte don Berardino Santucci. Altri come il parroco di S. Gregorio don Adolfo Riddei e il parroco di Aragno don Antonio Mei aiutarono partigiani braccati o feriti, alloggiandoli nelle soffitte magari in presenza, al piano inferiore, di soldati tedeschi. Altri ancora ebbero il coraggio di esporre la loro vita per salvare condannati a morte.

 

Don Peppe Bernardi, parroco di Ripa Fagnano, nella primavera del 1944, dietro soffiata di una persona del luogo, che poi egli perdonò, venne arrestato con l’accusa di aver aiutato alcuni giovani ex militari ritornati in paese dopo l’8 settembre 1943, di aver nascosto animali domestici dei parrocchiani nei sotterranei della chiesa per sottrarli alle razzie dei Tedeschi, di aver aiutato prigionieri inglesi. Deportato nella caserma Pasquali all’Aquila e umiliato fino ad esser portato in giro per la città in mutande e con un fiasco in mano, venne condannato a morte ed obbligato a scavarsi la ‘fossa’. Poi per interessamento di un personaggio autorevole fu liberato pochi giorni prima della data stabilita per la fucilazione.

 

Don Luigi Cinque, parroco di S. Demetrio, si offrì ai Tedeschi in cambio di due inglesi da fucilare. Don Giorgio Giancarlo, parroco di Collepietro, fu messo al muro ad armi spianate affinché rivelasse la presenza in paese degli Inglesi, ma non parlò. E il parroco di Casentino don Ferdinando Camilli, assieme al segretario politico f.f. del Fascio – il ben noto Cav. Antonio Lisi oggi più che novantenne –, salvò dai tedeschi un gruppo di ebrei rifugiati nel paesello, facendoli, col loro consenso, passare per cristiani battezzati.

 

È giusto far conoscere all’opinione pubblica queste notizie riguardanti don Natale Mariani ed i sacerdoti aquilani ricordati, i quali, come spesso succede al bene, non fanno notizia.

 

Orlando Antonini

 

 

 

  1. DURONIO, Don Natale- Romanzo, L’Aquila 2007

Foto a pag. 80: “Don Natale in compagnia del calzolaio Angelo Ferri. Alle spalle si notano le macerie del terremoto del 1915.” (gentile concessione di Ruggiero Mariani)

 




L’Aquila. 12 settembre del 1943 – La liberazione di Mussolini al Gran Sasso, una storia da rivedere

 
Per molti anni nei banchi di scuola ho letto che il 12 settembre del 1943 i tedeschi compirono una grande impresa al Gran Sasso e liberarono Mussolini. Fin d’allora mi sono chiesto come fosse possibile ….e poi senza morti e feriti.  Sono trascorsi poi anni  e anni, molti, ma la storia ripetuta nei manuali storici è sempre la stessa.

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Per tale ragione e vista l’imminenza della ricorrenza della data del 12 settembre, ove appunto esattamente 4 giorno dopo l’armistizio dell’ 8 settembre del 1943 i tedeschi liberarono Mussolini al Gran Sasso vorrei segnalarvi la seguente revisione storica. C’è infatti una nuova verità storica nascosta”sull’Operazione Quercia del 12 settembre 1943″: ” un accordo sottobanco tra il governo Italiano e i tedeschi “.
Fu proprio quell’ incauto accordo sottobanco tra il governo Italiano e i tedeschi  la causa principale della cruenta lotta interna tra gli stessi italiani.
L’ otto settembre del 1943 l’Italia annunciò l’armistizio con le Forze Alleate.   C’era però un altro tavolo, quello non ufficiale, dove il governo Badoglio continuò a collaborare con il vecchio amico tedesco e l’illustre prigioniero Mussolini veniva così sottratto agli Alleati e consegnato ai tedeschi il 12 settembre a Campo Imperatore.
Una nuova verità storica quella che ho raccontata nel libro “ L’ultimo segreto di Mussolini ” ed . Il Cerchio; ( in inglese : The Last Secret of Mussolini – From Campo Imperatore to the Italian Social Republic: a story to be rewritten ).
Tra inediti e nuove testimonianze, l’agente Nelio Pannuti – addetto alla sorveglianza personale di Mussolini al Gran Sasso –  in una dichiarazione scritta rilasciata  di suo pugno proprio a me, personalmente, affermò senza mezzi termini che quell’incursione dei tedeschi “sembrava proprio un’azione concordata, tant’è che, una volta liberato il Duce, ci fu un momento conviviale tra soldati italiani e tedeschi nella sala dello stesso albergo, tutti con le armi in spalla pacificamente”.
Per non parlare dell’azione italiana di governo nel riaggiustamento storico. Il comandante dei carabinieri al Gran Sasso Alberto Faiola fu pure encomiato nel suo foglio matricolare, quando al contrario questi non solo non predispose alcuna misura cautelativa, ma venne anche meno ai suoi doveri – dove peraltro ci fu anche un’ azione giudiziaria  volta a smentire il tutto – invitando alcuni suoi amici proprio in quei giorni all’albergo di Campo Imperatore
Una tesi storica revisionista che è raccontata sin dagli inizi grazie anche alla testimonianza – sconosciuta a molti – di Karl Radl, l’aiutante di colui che erroneamente è stato sempre considerato il vero artefice dell’“Operazione Quercia”: il capitano Otto Skorzeny. Proprio Radl –  in netta contraddizione con la testimonianza del generale Soleti, l’ostaggio Italiano che fu caricato su un aliante –  dichiarò: ” che a Campo Imperatore era tenuto prigioniero lo sapevano tutti ; persino i bambini  ne erano a conoscenza” . Addirittura ci fu  un pastorello di tredici anni che trafugò gli alianti tedeschi impossessandosi di alcuni armamentari.  Alla resa dei conti si trattò di un accordo tra gli italiani e i tedeschi  e il prezzo più caro l’ha pagato proprio la storia
Vincenzo Di Michele



Il “Top Gun” abruzzese. Leo F. BUTISTE ( Di Battista) un eroico pilota della Seconda Guerra Mondiale discendente di una “dinastia” arrivata negli Stati Uniti da Castel del Monte (AQ) .

Associazione Culturale “AMBASCIATORI DELLA FAME”

 

Pescara, 17 agosto 2016Foto 1 Foto 2 Foto 3

 

Il “Top Gun” abruzzese. Leo F. BUTISTE ( Di Battista) un eroico pilota della Seconda Guerra Mondiale discendente di una “dinastia” arrivata negli Stati Uniti da  Castel del Monte (AQ) . 

 

Tutto ebbe inizio quando Franco Di Battista ( a Ellis Island divenne Frank Butiste) arrivò negli Stati Uniti nel 1901 dalla sua Castel del Monte (AQ). Come per tutti gli italo-americani i primi anni furono assai duri. Lavorò prima in miniera e poi in una acciaieria. Nel 1904 giunse a Oil City, Contea di Venango in Pennsylvania, per lavorare nella costruzione del nuovo tracciato ferroviario. I guadagni iniziarono ad essere soddisfacenti.  Frank poi riscoprì il “mestiere” di sarto che aveva imparato nella sua Castel del Monte. Iniziò a fare pantaloni prima per i suoi colleghi, poi per i vicini e infine per la stessa azienda per la quale lavorava. Consolidata la sua situazione economica, nel 1909, decise di far giungere negli stati Uniti tutta la sua famiglia: Grazia Mucciante, sua moglie,  e i suoi tre figli Pietro, Giovanni e Lorenzo. Sarà proprio l’ultimo dei suoi figli, Lorenzo Quirino (nato a Castel del Monte il 22 giugno del 1893), a seguire le orme paterne come sarto. Del resto il giovane Lorenzo era stato a “scuola” di sartoria dallo stesso maestro del padre. E questi un giorno gli disse: “hai la mano più ferma e precisa di tuo padre e tutti gli altri ragazzi che ho avuto a bottega. Farai strada”. Il vecchio sarto “castellano” non si sbagliò. Quando la famiglia giunse a Oil City trovò una bella sorpresa. Frank , con i risparmi accumulati, aveva avviato un negozio di sartoria nel quale, inizialmente,  tutti trovarono occupazione. Successivamente Pete e Joe sceglieranno, con successo, la via della ristorazione. Sarà loro il più importante ristorante della città. Invece l’intraprendente Lorenzo, rilevò il negozio paterno e ne fece in brevissimo tempo una delle più pregiate sartoria dell’intera Pennsylvania. Aprì altri laboratori di “alta sartoria”  e creò un proprio marchio “L.D. Butiste, Merchant Tailor”. Da lui si riforniranno per anni politici, imprenditori e anche semplici cittadini vogliosi di essere vestiti “dal grande sarto abruzzese”. Rileverà anche una delle più importanti aziende di “lavaggio a secco” e numerose lavanderie. L’intraprendente ed ambizioso Lorenzo D. assunse un importante ruolo nella vita sociale di quel suo nuovo paese. Sarà, tra le altre cose, importante membro della potente organizzazione “Designers Society of America” e Segretario Generale e “Venerabile” della “Tellini Lodge”. Quando lasciò l’attività, dopo ben 62 anni, i giornali e gli organi d’informazione diedero ampissimo risalto alla cosa e la descrissero come la vera fine di un “mito”. Un importante giornalista scrisse sconsolato: “Mio nonno, mio padre ed io abbiamo indossato i suoi pantaloni ? E ora ?”. I figli di Lorenzo D. e di Josephine (Giuseppina) Giuliani (questo il nome della moglie) scelsero altre strade. Uno in particolare, Leo F., sarà quello che gli darà maggiori soddisfazioni. Leo F. , nato il 1 maggio del 1923, conseguì titoli di studio presso la Oil City High School, l’Indiana University of Pennsylvania (musica)  e la Duquesne Univerisy di Pittsburgh (legge). Fu per qualche anno anche  insegnante. Successivamente scelse di accettare un’importante offerta dalla  Bank of Boston Connecticut divenendone prezioso uomo di fiducia. Negli anni sarà  presidente e vice presidente di numerose banche nel New Hampshire, nel Connecticut e Philadelphia.  Nel 1971 l’American Bankers Association  lo inserì nella prestigiosa “Top ten” dei più influenti uomini del mondo bancario americano.   La sua passione rimarrà sempre la musica. Capace di suonare svariati strumenti divenne, lasciato il lavoro, direttore d’Orchestra della Portland Symphony. Ma quello che lo consegnerà alla memoria degli Stati Uniti è il suo essere stato eroico pilota durante la Seconda Guerra Mondiale. Di stanza a Boxted nella contea di Essex (Inghilterra) con il 62 Fighter Squadron a bordo del suo “Republic P-47 Thunderbolt” seppe coprirsi di gloria. Coraggioso e sprezzante del pericolo riuscì ad abbattere numerosi aerei nemici e riuscì a colpire numerosi obiettivi sensibili e strategici. Un giorno mentre rientrava da un’azione, in riserva di carburante, vide due piloti della RAF in grave difficoltà e non esitò ad andare in loro soccorso. Il suo intervento risultò decisivo. Naturalmente arrivarono riconoscimenti ed onori. Le sue azioni e il suo proverbiale coraggio sono ancora oggi ricordati su alcuni dei  più importati siti e libri del settore, tra questi, “American Air Museum in Britain”, il francese “Ciel de Glorie”, “56th Fighter Group in World War II” e “WWII Victories of the Army Air Force”. Una curiosità: sulla carlinga del suo aereo aveva scritto “Josephine My Flyng Machine” (“Josephine mia macchina volante”) in onore della sua cara mamma.  Nel giugno del 1945 arrivò per lui un encomio accompagnato dalla promozione a tenente. Aveva 80 anni quando morì  a Hartford (Connecticut)  il 6 giugno del 2003.

 

Geremia Mancini – Presidente onorario “Ambasciatori della fame”

 

Foto 1: Leo F. Butiste;

Foto 2: Leo F. Butiste accanto al suo “Republic P-47 Thunderbolt”;

Foto 3: Leo F. Butiste fotografato in volo. Ben visibile la scritta “Josephine My Flyng Machine”




CENT’ANNI DALLA CONQUISTA DEL MONTE CAURIOL

CENT’ANNI DALLA CONQUISTA DEL MONTE CAURIOL

Il Gruppo Alpini di Caoria
La Sez. Ana Trento e la Sez. Ana Feltre
PRESENTANO:
27 AGOSTO 1916               –              27 AGOSTO 2016
CENT’ANNI DALLA CONQUISTA DEL MONTE CAURIOL
PROGRAMMA:
SABATO 27 AGOSTO
Ore 9,00 ritrovo presso località Pralongo per visita allo “Sbarramento di fondovalle” (trincee e postazioni in caverna) della prima guerra mondiale con rievocazione storica da parte dei figuranti in divisa d’epoca , visita del Cimitero militare e al museo di Caoria con esperti ed appassionati della materia.
Ore 11,00 a Refavaie per visita itinerario segni della Grande Guerra (con mezzi propri)
Ore 12,00 Possibilità di ristoro al rifugio Refavaie, oppure rancio del soldato in gavetta presso cucina da campo austroungarica a CaoriaOre 14,00 Rievocazione storica e vita da campo con figuranti Austriaci e Italiani presso parco fluviale di Caoria
Ore 16,30 sfilata composta fino al Cimitero Militare, alza bandiera, onore ai caduti e deposizione corona d’alloro con lettura dei decorati del Cauriol e dintorni. Ritorno fino alle lapidi dell’asilo di Caoria con deposizione corona.
Ore 19,30 cena alpina sotto il tendone A.N.A. di Caoria
Ore 20,30/21.00  conferenza storica con immagini d’epoca a cura del dr Luca Girotto:“27 AGOSTO 1916 – LA CONQUISTA DEL CAURIOL”
MITOLOGIA ALPINA
TRA CONCRETEZZA TATTICA ED AMBIZIONI STRATEGICHE
La serata sarà impreziosita dai canti del CORO VANOI
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DOMENICA 28 AGOSTO
Ore 06,00 ritrovo e partenza con pulmini presso rifugio Refavaie  del primo gruppo che salirà alla cima del monte Cauriol, seguirà il trasporto del secondo gruppo di persone che parteciperanno alla cerimonia presso la chiesetta Monte Cauriol.Sia per l’andata che per il ritorno è previsto il trasporto con bus navetta solo per quanti parteciperanno alla cerimonia.
Ore 10,45 Santa Messa presso chiesetta del monte Cauriol c/o “Campigol del Fero” dove saremmo raggiunti dal gruppo che scenderà dalla cima Cauriol, onore ai caduti con suono del silenzio e salva d’Onore.La cerimonia sarà allietata dal Coro Alpino di Feltre.
Dopo il saluto delle autorità presenti rientro fino ai pulmini, partenza e ritrovo a Caoria presso tendone A.N.A.
Dalle Ore 13.30 Pranzo Alpino
Dopo il Pranzo il Coro Alpino di Feltre ci allieterà con le sue canzoni.In collaborazione con:
Comune di Canal San Bovo, Ecomuseo del Vanoi, Coro Vanoi, Pro Loco di Caoria e Coro Ana Piave