Giulianova. Il Giardino Ducale giuliese

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 62.
di Sandro Galantini*
Leandro Alberti, nella sua Descrittione di tutta l’Italia del 1550, reputava «molto dilettevole» la campagna tra San Benedetto e Grottammare grazie ai giardini di limoni che la puntuavano. A sud del Tronto ben diverso a quei tempi era la scenario che si offriva allo sguardo. Unica eccezione, quel giardino ducale delle «marange» o «citrangule», cioè ricolmo di piante di aranci amari (citrus aurantium), menzionato nel 1547-48 a Giulianova. Posto fuori le mura urbane, a valle del palazzo ducale e a poca distanza dalla «fontana grande» (quella cioè di Salita Montegrappa) così da utilizzarne le acque, il giardino era stato voluto probabilmente da Giangirolamo I
Acquaviva d’Aragona. Abile nelle armi ma anche letterato, filosofo e poeta, il signore di Giulianova aveva così voluto dotare la sua “reggia” di uno spazio verde che, riproducendo un modello assai diffuso nelle residenze dell’alta aristocrazia, costituisse il luogo privilegiato della conversazione tra pari ma anche il sito ideale per il dialogo e la riflessione. Indicato nel 1619 come «Cetransole» con una rendita di 111 ducati, il giardino ducale viene quindi utilizzato come area in cui coltivare, «per il moltiplico», tutte le piante in esubero nella ricchissima serra allestita nel suo palazzo di Roma da un cadetto ecclesiastico della famiglia Acquaviva, monsignor Giuseppe, divenuto il 5 settembre 1621 arcivescovo titolare di Tebe.
Si deve quindi a lui, appassionato di essenze rare e tra i maggiori collezionisti floreali italiani, se il giardino ducale giuliese, trasformato in succursale di quello romano e ridenominato «Lazzaretto», diviene una vera oasi botanica, rara a trovarsi nel resto dell’Abruzzo. Non è pertanto un caso se nella folta biblioteca acquaviviana di Giulianova compare un trattato sul giardinaggio del gesuita Giovan Battista Ferrari,
cioè Flora, seu de florum cultura lib. IV, volume stampato a Roma nel 1633 ed acquistato da Giuseppe Acquaviva l’anno prima della sua morte.
Lo splendido giardino ducale veniva tuttavia distrutto durante il difficile periodo dei moti masanelliani. Il 12 aprile 1648, infatti, il ribelle duca di Collepietro Alfonso Carafa assediava Giulianova facendo acquartierare le sue truppe in vari punti strategici: Torre del Salinello (l’attuale Migliori), i «magazzeni» regi vicini al mare, gli orti dell’allora convento dei Cappuccini, oggi parco di Casa Maria Immacolata, e
appunto il «giardino del Duca d’Atri» descritto come «luogo murato», protetto cioè da una recinzione in pietra.
Sicché non sorprende che nel 1649 il giardino, tornato a figurare tra i beni giuliesi degli Acquaviva col nome «Cetransole», risulti senza rendita essendo ridotto ad una mesta landa senza vita proprio a causa dell’assedio dell’anno prima.
La passione per la botanica e la vegetazione ornamentale non abbandona però gli Acquaviva. È forse del 13° duca Giosia III, nato a Giulianova nel 1631 e legatissimo alla città nativa dove amava risiedere con la moglie Francesca Nicoletta Caracciolo, il significativo libro Hortorum libri IV pubblicato dal gesuita Rene Rapin nel 1665, un poema riguardante fiori, piante, alberi e la posizione ideale per un giardino.
In ogni caso è durante la signoria dell’ultimo duca Rodolfo, nato a Giulianova nel 1691, che il vecchio giardino ducale giunge al suo momento di massimo splendore. È nella prima metà del XVIII secolo, dopo che la famiglia ritorna in possesso dei beni sottratti dagli austriaci e con Rodolfo divenuto duca nel 1745 a seguito della morte
del fratello Domenico, che il «giardino grande» alla marina, probabilmente l’ampio spazio verde pedecollinare tra l’attuale piazza Dalla Chiesa e le scalette Montegrappa, si espande diventando luogo di «delizie».
E che fosse una sorta di Eden, in grado di suscitare meraviglia nei pochi privilegiati ammessi a varcarne le due porte d’accesso, lo apprendiamo dai documenti settecenteschi. Impostato su spettacolari stilemi barocchi, il giardino era infatti dotato di «casino» con due stanze ombreggiate da una loggia, di un altro edificio munito di un vasto salone, di «luoghi terranei di più commodi», di stalle ed ambienti per il giardiniere.
Il tutto in una cornice ingentilita da agrumeti, lauri, cipressi, pini e siepi di mortella a formare percorsi labirintici oltre a bossi utilizzati per rievocare la pianta urbana della città di Buda. Né mancavano le statue e persino un grande acquario.
Storico e Giornalista*



Giulianova. L’organo della chiesa della Misericordia

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 61.
di Sandro Galantini*
Il 29 luglio 1879 don Antonio Bindi, anziano canonico della chiesa di San Flaviano di cui nel 1860 era stato arciprete sebbene come facente funzioni, prendeva il primo contatto, molto probabilmente attraverso i buoni uffici del musicista tortoretano Luigi De Fabritiis, con uno dei maggiori esperti di arte organara. Si trattava dell’ascolano Vincenzo Paci, nato nel 1811 ed appartenente ad una famiglia che vantava fra i suoi esponenti illustri artisti, pittori, scultori e maiolicari.
Oggetto della richiesta, il restauro del malridotto organo presente nella chiesa della Misericordia su piazza del Mercato (oggi Dante Alighieri) che il canonico Bindi, zio dello storico Vincenzo, voleva restituire a nuova vita. Con la venuta del Paci a Giulianova, il 15 agosto seguente, iniziava la vicenda del restauro dell’organo giuliese che avrebbe causato all’ascolano più di un’amarezza.
Intanto lo strumento, trasportato nell’aprile 1880 con ogni cautela nel suo laboratorio di Ascoli, era ridotto ad un «fradiciume» come Paci confidava il 20 luglio seguente all’amico e corrispondente De Fabritiis mostrando i segni di un palese pentimento per aver accettato una commessa tanto impegnativa e per la quale, con imprudente generosità, aveva preso su di sé ogni spesa relativa ai trasporti ed ai frequenti spostamenti a Giulianova. Comunque con l’aiuto del figlio Giovanni e di un paio di lavoranti, e tramite un bancone appositamente approntato, Paci in due mesi e mezzo di assiduo e duro lavoro era riuscito a rimpiazzare non solo la tastiera ma anche la pedaliera giacché la vecchia era del tutto inservibile. Inoltre aveva dovuto rinnovare tutte le sottilissime canne della mostra con l’aggiunta di parecchio stagno, oltre a quelle del Principale e alle centinaia dell’interno nel pieno.
Un intervento dunque assai impegnativo, che aveva inoltre comportato la rinnovazione delle anime e dei labri dei bassi di legno, ma per il quale Paci, come lamentava in una sua lettera del 6 dicembre 1880, non aveva ricevuto né dal canonico Bindi, né dal sindaco Gaetano De Maulo, alcun compenso nemmeno parziale nonostante a suo dire si trattasse di somma «meschinissima» e avesse persino concesso, ma inutilmente, la dilazione di un mese. Per cui, concludeva con una certa irritazione, tali comportamenti lo dissuadevano ad «accettare commissioni in codesti paesi».
L’organo, il cui restauro definitivo in ogni sua parte si aveva solo nei primi del marzo 1881 a causa della malattia che nel frattempo aveva colpito Vincenzo Paci, veniva trasportato tramite «vetturale» a Giulianova e ricollocato con il relativo cassone da Giovanni nella Misericordia il 22 marzo seguente, a sei giorni dal decesso del padre.
Sicché era appunto Giovanni Paci a firmare di lì a tre mesi, il 19 maggio, la lettera a Giovanni Pagliaccetti, priore della Confraternita della Ss.ma Misericordia, con la quale comunicava di non poter concedere un ribasso eccedente le 300 lire sulla somma pattuita di 1.550 lire per il lavoro eseguito che, sottolineava con una leggera punta polemica, come da accordi presi a suo tempo con il padre già escludeva le spese per «trasporto dei nuovi pezzi, viaggi, cibarie ed alloggio di 2 giorni per 2 individui».
* Storico e Giornalista



Giulianova. Aprile 1817, le misure del Commissario sanitario per scongiurare l’epidemia.

di Ottavio Di Sanislao*
Giulianova era stata già duramente provata nel corso del 1815 quando era stata percorsa dalle truppe di Murat che nel marzo erano avanzate verso nord e, immediatamente dopo, subita la disfatta, quando erano rientrate nel Regno sempre attraverso il suo territorio. A maggio arrivarono poi truppe tedesche dell’esercito imperiale che si trattennero alcuni mesi. La città era già esausta quando al cosiddetto “anno senza estate” del 1816, che provocò la terribile carestia, seguì un’epidemia di tifo petecchiale. Il Commissario Sanitario giunse a Giulianova nel pieno della pandemia; con le autorità locali concordò alcune misure di profilassi per contrastare il diffondersi dell’epidemia che stava decimando la popolazione. Fu infatti deciso: lo spostamento dell’ospedale e dei malati dall’interno del paese all’ex convento dei celestini soppresso da qualche anno; il trasferimento del carcere dai locali sotto il palazzo ducale giudicati non idonei fin dal 1813; la disinfezione degli ambienti, una maggiore pulizia delle strade; la chiusura delle “fosse carnaie” e l’attenzione nelle sepolture. In particolare, si raccomandava di realizzare fosse profonde in maniera da poter interrare sufficientemente i cadaveri, facendo comunque sempre uso della calce, e di assistere i poveri assicurando almeno un pasto giornaliero. Nel corso del 1817 si registreranno ben 777 morti, circa un quarto degli abitanti. La popolazione del comune nel 1810 era infatti di 2779 abitanti (Archivio di Stato, Atti demaniali Giulia). Per avere una idea della drammaticità del fenomeno basta confrontare il numero dei morti del 1817 con quello degli anni immediatamente precedenti e successivi: 117 nel 1813, 93 nel 1814, 87 nel 1815, 222 nel 1816, 61 nel 1818 e 45 nel 1819.
“Oggi giorno 17 del mese di aprile 1817 essendoci riuniti col sig. dott. Don Fulgenzio de Petris qui arrivato ieri in qualità di Commissario Sanitario, unitamente ai dottori fisici di questo comune, egli dopo un ragionamento fatto con essi (…) si è portato a visitare gli ammalati tanto nel paese che nella campagna, nonché l’ospedale civile, le carceri, le chiese, camposanto e tutte le strade dell’abitato e poi riunitosi col sig. Giudice di pace, sig.ri membri di carità e galantuomini principali del comune si è risoluto concordamente di traslocarsi l’ospedale nel soppresso monastero dei Celestini sito in campagna e distante bastantemente dall’abitato, chiudersi l’ospedale dopo disinfestato con sfumicazioni muriatiche, farsi chiudere tutte le sepolture delle chiese con lamia e mattonato, facendoci prima buttare molta calce, e non più aprirsi, farsi spazzare maggiormente le strade del paese due volte la settimana, come anche farsi chiudere vari locali terranei abitati da poveri già morti, con disinfettarli prima con le sopradette fumicazioni muriatiche, vari fondaci che servono d’occasione d’immondezze; trasferirsi il carcere attuale ridotto in pessimo stato nel torrione della casa del sig. don Francesco Ciafardoni siti nella Rocca; chiudersi ermeticamente le due sepolture del cimitero, con farsi uso per l’avvenire giornalmente dei scavi della profondità secondo il numero dei morti, che vi saranno alla giornata, e quindi dopo averci buttata della calce coprirsi almeno con quattro palmi di terra e mattonato. (…) inoltre si è risoluto farsi un notamento esatto dei poveri atti alla fatiga ed obbligarsi giornalmente d’andare al travaglio delle strade, come anche farsi una nota degli altri poveri impotenti e ricoverarli nell’Ospedale dove dovranno essere provveduti coi sussidi del Governo, dell’Ospedale stesso e dei buoni cittadini, dandosi loro una zuppa economica.…
Fulgenzio De Petris Commissario Sanitario, Egidio Bucci sindaco, Andrea Castorani arciprete-parroco.”
Archivio di Stato Teramo, Stato civile Giulianova, ultima pagina del registro dei morti: 28 dicembre 1817, numero d’ordine settecentosettatnasette.
*Funzionario Archivista



Giulianova. Il cinematografo in città, storie e curiosità.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 60.

di Sandro Galantini*

Grazie al libro Teramo e il cinematografo di

Elso Simone Serpentini

, sappiamo che i giuliesi furono, dopo gli abitanti del capoluogo di provincia, i primi a godere del cinema. Fu peraltro un teramano, Giustino Bonolis, a dare vita a Giulianova, nei locali di Pasquale Beccaceci alla “Marina”, al primo cinema cittadino: il “Vita”. Era la fine di agosto del 1909 ed agli spettatori, tra i quali numerosi bagnanti di Teramo, grazie ad un’ottima macchina di proiezione di marca Pathé, ogni sera venivano proposte pellicole scelte e variegate. L’anno dopo, a luglio, furono invece due commercianti locali, Attilio Buoni e Raffaele De Santis, ad installare sempre alla “Marina”, in un locale «ben areato», un cinematografo Edison. Si trattava, nell’uno e nell’altro caso, di iniziative estemporanee, chiaramente legate alla stagione balneare.

C’era però chi stava accarezzando l’idea di realizzare in città un cinema permanente.
A farsene carico fu il dinamico albergatore Luigi Federici, che commissionò il relativo progetto al celebre architetto romano Antonio Petrignani. Il progetto, approntato nel 1910, prevedeva un edificio a due piani deliziosamente liberty, da adibire a cinema-teatro, purtroppo mai realizzato a causa della mancanza di fondi.
Giulianova avrebbe avuto il suo cinema stabile solo nel 1922. A realizzarlo, ospitato in un immobile al lato sud di piazza Vittorio Emanuele, l’attuale della Libertà, sarà il commerciante Michele Di Pietro. Il Cinema-teatro “Gaetano Braga”, così si chiamava, sarà per molti anni l’unico operante in città. Gestito anni dopo da Giuseppe Rossi e Ripa Scipione Di Teodoro, nel “Braga”, oltre alle consuete proiezioni, verranno organizzate anche manifestazioni di intrattenimento e musicali. Proprio la collaudata coppia Rossi-Di Teodoro nell’inoltrata primavera del 1929 prendeva l’iniziativa di attivare un cinematografo all’aperto. La richiesta contemplava il posizionamento del proiettore nel secondo cortile interno della scuola “Pagliaccetti”, l’attuale “De Amicis”, per un periodo complessivo di 70 giorni. Un’idea che evidentemente piacque molto al commissario prefettizio Sebastiano Pergameno il quale senza difficoltà, dopo quello da parte del Patronato scolastico, il 19 giugno concedeva anche il
suo placet rendendo così possibile dare al progetto concreta attuazione.
Un vero punto si svolta si ebbe negli anni Trenta. Venuto meno il progetto di un Politeama da ubicare nell’immobile Cichetti, ex sede della Dogana regia, sul lato nord di piazza del Littorio, ora Buozzi, nell’estate del 1935 si inaugurava invece su una porzione dell’ex palazzo ducale, al lato sud della stessa piazza, il cinema “Moderno” di Giuseppe Sabatini e Mario Orsini. Quest’ultimo, in particolare, aveva messo a disposizione parte dell’immobile di sua proprietà dove, sulla base dei calcoli per la parte in cemento armato eseguiti da Ernesto Pelagalli, il geometra Costanzo Testoni aveva quindi ricavato l’impianto «ultramoderno», secondo la definizione datane all’epoca.
Nel luglio 1936, come già illustrato da

Ottavio Di Stanislao

, si ristrutturava anche, sostituendo la galleria in legno con altra in cemento armato, l’ormai datato cinema-teatro “Braga” di cui Alessandro De Annibalis aveva approntato il 23 luglio il relativo progetto su incarico degli impresari Francesco Ettorre e Ripa Di Teodoro.

Il cinema, sinora privilegio esclusivo di Giulianova Alta, nel 1937 faceva il suo esordio al Lido dove pure aveva preso le sue prime mosse . Si trattava dell’ “Ideal” di Maria Calisti, nata ad Arquata del Tronto nel 1879 e moglie di Antonio Tritapepe, cinema sorto in tempi brevissimi sulla centralissima piazza Principi di Piemonte, oggi Fosse Ardeatine, su progetto del solito Alessandro De Annibalis che cinque anni prima aveva oltretutto approntato il disegno della vicina villa di famiglia.
L’”Ideal” apriva i suoi battenti il 28 agosto appunto del 1937, con la rappresentazione di Vigilia d’Armi.
Una scelta assai felice considerando che il film francese, diretto dal regista Marcel L’Herbier, aveva conquistato il primo premio alla biennale di Venezia del 1936 peraltro facendo conseguire alla protagonista Annabella, pseudonimo di Suzanne Georgette Charpentier, la vittoria nella sezione per la migliore attrice.
L’ultimo cinema a vedere la luce fu, sempre la Lido, l’Arena “Braga”, realizzato dalla famiglia Ettorre. Un impianto all’aperto posizionato alle spalle del Kursaal ed aperto nel 1940.
*Storico e Giornalista

 




Giulianova. La storia delle “scalette” che collegano Via XIV maggio e Via Vittorio Veneto.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 59.
di Sandro Galantini*
Se non tutti, comunque moltissimi giuliesi conoscono le “scalette”. Quelle, per intenderci, che in ripida discesa, o in erta salita, collegano via Vittorio Veneto con via XXIV Maggio.
L’origine di questo utile percorso a scale è nella delibera presa il 7 dicembre 1938 dal commissario prefettizio Giuseppe De Gregoris simultaneamente all’approvazione del progetto per la bitumatura di via XXVIII Ottobre, l’attuale Gramsci, e di via Vittorio Veneto.
Quel giorno De Gregoris approvava infatti il preventivo di spesa di 2.928,80 lire, inclusive delle 600 per l’acquisto del suolo, che il geometra Costanzo Testoni gli aveva presentato qualche giorno prima, il 30 novembre, avendo ricevuto l’incarico di progettare una «strada scorciatoia» per abbreviare ai pedoni «di circa 300 metri il percorso per raggiungere la stazione ferroviaria», evitando così «il lungo giro della strada provinciale che fiancheggia la proprietà e lo stabilimento Orsini».
Sicché con l’affidamento dell’appalto a trattativa privata al muratore Carlo Ettorre,stante la lieve entità dell’intervento, i lavori potevano prendere avvio.
Nel giro di pochi mesi la «stradella scorciatoia» era stata ultimata benché i costi fossero lievitati decisamente, raggiungendo la somma complessiva di 3.943,60 lire.
Come anche oggi spesso avviene quando si tratta di lavori pubblici, a far crescere allora i costi erano stati alcuni interventi originariamente non previsti ed indicati nella delibera del 14 giugno 1939 che, approvandoli, liquidava contestualmente la maggiore spesa.
A causa di alcune difficoltà determinate dal forte dislivello, infatti, l’importo dei lavori, fissato inizialmente in 2.328,80 lire, era asceso a 2.943,60 sempre comprensivo delle 600 lire per il pagamento del suolo. Poi c’erano le 730 lire per il corrimano in ferro, non preventivato ma ritenuto necessario, fornito e collocato dal fabbro Agrò Di Teodoro.
Oltre, beninteso, alle 270 lire da consegnare al geometra Testoni per progetto, assistenza e contabilità.
*Storico e Giornalista



Giulianova. Torrione la “Rocca”, quella donazione inspiegabile

LA DONAZIONE INSPIEGABILE
di Ottavio Di Stanislao*
Il torrione dell’angolo nord-ovest, chiamato la Rocca, nel 1595 venne donato dal duca Alberto ad un suo vassallo, Antonio Lucque di Campli per i servizi resi e per la fedeltà dimostrata.
“Albertus de Acquaviva de Aragonia Dux Hadrie Deciemus et Terami Princeps. Mag.co Antonio Lucque della terra di Campli nostro carissimo i continui serviggi che da molti anni havemo da voi con molta soddisfazione ricevuto (…) ci inducono ad usarvi ogni ufficio di gratitudine, e però avendo con nostro contento inteso che siete per fare abitazione nella nostra Terra di Giulianova (…) havemo pensato donarvi, (…) a voi e vostri successori in perpetuo il nostro torrione detto la Rocca (…) con terreno adiacente (…) nel quale possiate fabbricare a vostro modo ed appoggiare alle muraglie di detta nostra Terra …”.
Tale documento fu esibito nel 1789 in una causa civile (Fondo Regia Udienza Processi Civili dell’Archivio di Stato di Teramo) sostenuta dal notaio Melchiorre De Panicis di Mosciano, abitante in Giulianova proprio nel suddetto torrione e nei locali adiacenti, per confutare l’accusa di averlo usurpato all’università. L’intento del convenuto era dimostrare che tale struttura era entrata nella disponibilità dei privati da circa due secoli, come era avvenuto anche per il torrione di S. Francesco inglobato nell’omonimo convento.
La donazione del duca Alberto appare però incongruente da molti punti di vista. Nel momento in cui il signore feudale donava ad un privato cittadino un immobile nato come struttura di difesa della città verrebbe da pensare che evidentemente tale funzione era da ritenersi assolutamente superata. Ma, come documentato da Riccardo Cerulli, nel 1576 il capitano Brancadoro, incaricato proprio da Alberto Acquaviva responsabile della difesa della costa adriatica dal Tronto al Pescara, era stato a Giulianova in ricognizione per ordinare i lavori necessari per tenere in efficienza la cinta muraria. Ciò perché la seconda metà del ‘500 fu caratterizzata dal timore delle incursioni turche e barbaresche, tanto da indurre l’amministrazione vicereale a costruire torri costiere di avvistamento in prossimità delle foci dei fiumi. Furono realizzate nel 1568 lungo tutto il litorale e due di queste a Giulianova, sul Tordino e in prossimità del Salinello. Sempre dal codice cinqucentesco studiato da Cerulli apprendiamo che “i torrioni e le mura erano popolate dalli homini deputati alla guardia de le porte”. Una testimonianza del 1700 ci fa sapere che di notte le tre porte venivano chiuse e le chiavi erano tenute dal governatore, mentre da aprile ad ottobre si faceva la guardia sia alle porte che per le vie della città “per sospetto di turchi”. Da un’altra testimonianza della fine del ‘700 apprendiamo che proprio sul torrione della Rocca, punto più alto della città, nei momenti in cui si temeva potessero avvenire sbarchi di pirati, i cittadini organizzavano turni di sentinella. Le incursioni di pirati barbareschi, provenienti dalle coste settentrionali dell’Africa, genericamente chiamati “turchi”, costituirono un pericolo per le popolazioni rivierasche fino ai primi decenni dell’ottocento. Per tale motivo si sorvegliava il mare e se si avvistavano legni sospetti che si avvicinavano alla riva si dava l’allarme e si correva in spiaggia con le armi da fuoco per impedire lo sbarco. Particolarmente temuta era la possibilità di essere catturati dai pirati e ridotti in schiavitù, eventualità tutt’altro che remota. In uno “stato della scuola primaria del comune di Giulia” del 1809, nella colonna dove era indicata la condizione dei genitori degli scolari, accanto al nome di Alessandro Palestini, figlio di Pietro e Maria Grazia, si trova l’annotazione che lo stesso genitore era “schiavo in Tunisi”.
Per tale motivo, alla fine del ‘700, appariva incoerente e presumibilmente illegittimo il possesso di un bastione da parte di un privato tanto da dare adito al processo riferito. Il contesto descritto e documentato, caratterizzato dalla “paura dei turchi”, che aveva avuto il suo punto più critico proprio nella seconda metà del ‘500, quando le strutture difensive non solo vengono controllate nella loro efficienza, ma se ne costruiscono di nuove, porta a ritenere inspiegabile la donazione del bastione da parte da parte del duca Alberto. Due immagini della Rocca, la seconda dalla collezione di Jonata Di Piero e una foto della torre sul Salinello degli anni’50.
*Funzionario Archivista



Giulianova. Storia e leggenda si intrecciano nell’antichissima chiesa di S. Maria a Mare.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 58.
di Sandro Galantini*
Storia e leggenda si intrecciano nell’antichissima chiesa di S. Maria a Mare. Sorta forse su un tempio romano, certamente costruita utilizzandone alcuni resti, la chiesa possedeva una grande e antica campana bronzea. Risalente al 1342, recava una locuzione molto in uso in quei tempi, riportata tanto sulle campane quanto su edifici pubblici e privati, tratta dalla nona lettura del mattutino dell’ufficio
di Sant’Agata martire, protettrice dei campanari: MENTEM SANCTAM,
SPONTANEAM, HONOREM DEO ET PATRIAE LIBERATIONEM.
Dal resto dell’incisione (FACTA FUI TEMPORE DOMINI SABINI PRAEPOSITI HUIUS ECCLESIAE. MAGISTER NICOLAUS FECIT BONA) sappiamo che era opera di Nicola Aprutino, maestro fonditore e appartenente al Capitolo aprutino cui la chiesa di Castel San Flaviano era soggetta. Sin qui la storia. Ma c’è anche una leggenda, tramandatasi per generazioni e raccolta da Vincenzo Bindi. Pare infatti che durante l’invasione di Maometto II, quindi negli anni settanta del ‘400, alcuni turchi tentarono di rubarla. Tuttavia dopo averla caricata sulla loro nave i pirati non riuscirono a salpare. La campana, infatti, miracolosamente aveva aumentato a dismisura il suo peso da cui la scelta dei musulmani di riportarla al suo posto.
La rottura, anni dopo, della campana avrebbe spinto a fonderla realizzandone due, probabilmente gemelle. Di certo una doveva essere quella stessa che, stimata del peso di mille libbre nel 1858, era apparsa «magna, et proportionata», cioè grande e di bella forma al vescovo Giambattista Visconti nel 1610 durante la sua visita pastorale alla chiesa, già all’epoca chiamata anche SS.ma Annunziata forse per un’immagine del 1572 presente all’interno, sul muro destro.
L’altra campana era stata invece trasportata alla chiesa di S. Rocco, legata all’ospedale della Giulianova rinascimentale e per importanza la seconda della nuova città acquaviviana. Definita ancora nel 1731 «grossa» e di «buonissimo suono», questa campana recava l’iscrizione CHRISTUS VINCIT, CHRISTUS REGNAT,
CHRISTUS IMPERAT, cioè Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera. A questa frase, magnifica proclamazione della regalità sociale di Cristo dal XIII secolo sino al crepuscolo del Rinascimento e peraltro ricorrente nelle monete della stirpe franca dei
capetingi, faceva seguito l’indicazione, senza millesimo, del suo autore, il Magister Varinus secondo la trascrizione, su disagevole lettura, datane da Vincenzo Bindi.
Interpretato come Vakinus da Vittorio Savorini, che propendeva di conseguenza per un fonditore straniero, ritengo invece che quel Maestro Varinus sia da identificare con Varino (o Marino) di Marco da Zara, capomastro della fabbrica della cattedrale di Recanati principiata nel 1468 per volere del vescovo Niccolò delle Aste. Se così fosse, la campana sarebbe databile al periodo che precede di poco la fondazione rinascimentale di Giulianova, quindi coerente con la sua rottura si dice avvenuta a qualche anno dalle scorrerie turchesche. Verrebbe altresì ad emergere, attraverso Giulio Antonio Acquaviva magari nelle vesti di committente, il forte legame con Recanati nel nome di San Flaviano, culto comune ai due luoghi e rinvigorito nella città marchigiana nel 1415 grazie al dono di alcune reliquie del Santo bizantino da parte di papa Gregorio XII.
Rimane da dire dell’altra leggenda che riguarda la chiesa di S. Maria a Mare, quella cioè secondo cui erano sepolte all’interno delle sue colonne le sacre spoglie di antichi paladini. La credenza popolare, riflesso dell’epopea carolingia che a Giulianova si era radicata con la storia del gigante Orlando relativa alle muracche (FRAMMENTI –
25), probabilmente aveva la sua origine dalla morte a San Giovanni d’Acri di parecchi militi di Castel San Flaviano, città divenuta uno dei centri di smistamento delle truppe crociate durante il tentativo normanno di espansione ai danni dell’Impero Bizantino e degli stati arabi in Siria e Palestina.
Certo è che il decurionato giuliese, nella seduta del 18 ottobre 1854, in vista dei lavori da effettuare sulla chiesa per adattarla al futuro convento dei Passionisti, respingeva ogni modifica «considerando essere antica tradizione popolare che tra le colonne site all’interno del tempio una ve ne sia consacrata». Per cui i «buoni popolani» erano soliti «orare intorno a ciascuna di esse».
Storico e Giornalista*



Giulianova. Quella mala pianta della negromanzia.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 57.
di Sandro Galantini*
Come già accaduto nel secolo precedente, anche nel ‘600 appare diffuso nella diocesi di Teramo l’inquietante fenomeno della negromanzia.
Molte infatti, come aveva scritto con toni apocalittici il vescovo aprutino Giambattista Visconti nella sua relazione del 15 dicembre 1621, le maliarde, le negromanti e persino le streghe. Le conseguenze di questa opera malefica, secondo il vescovo, erano tra l’altro i gravi peccati carnali contro natura come gli incesti, pare numerosi al tempo.
A Giulianova incesti non sono documentati, almeno stando alle carte della corte di giustizia vescovile e di quella secolare. Diffusi erano piuttosto i concubinaggi, anche con ragazze giovanissime, e i bambini «spurii», nati cioè da relazioni extraconiugali. La vera piaga era però quella delle «affatturazioni», che a Giulianova aveva assunto dimensioni ragguardevoli nel 1622 coinvolgendo in una torbida storia, rispettivamente come parte lesa e in qualità di teste, un sacerdote, Agelio Scalabrino, ed un benestante, Francesco Talucci.
Non mancavano inoltre, a completare la situazione, le paganeggianti credenze negli auspici tratti dai serpenti e dagli uccelli. Insomma, un quadro a tal punto fosco da spingere i Gesuiti, impegnati in una solertissima opera missionaria, a venire a Giulianova nel 1628 per estirpare la mala pianta della negromanzia.
Benché sostenuti dal clero locale, e in particolare dall’arciprete di San Flaviano don Domenico Porfiri che aveva messo a loro disposizione la chiesa madre, i Gesuiti ebbero il loro bel daffare. Come apprendiamo infatti dal libro Istoria della Compagnia di Gesù, pubblicato nel 1757 dal gesuita Saverio Santagata, a Giulianova operava una «certa vecchietta» che, vantandosi di avere ricevuto da Dio il dono della premonizione, ricorrendo ad una colomba prediceva eventi futuri o nascosti, felici oppure infausti. La sua fama di indovina, già solida, si era poi ulteriormente rafforzata quando aveva esattamente predetto l’improvvisa morte di un uomo in apparenza sano. I Gesuiti avevano iniziato la loro missione giuliese proprio tenendo nel duomo di San Flaviano una pubblica arringa contro la fattucchiera. Ma in città era evidentemente molto e diffusamente radicata la considerazione nei confronti di questa sorta di Sibilla giuliese se, scrive Santagata, «poco mancò» che alcuni tra i più ottusi e convinti non uscissero dalla chiesa «infastiditi e scandalizzati».
La tenacia dei Gesuiti, la loro forza argomentativa e la capacità di persuasione esercitata più sui singoli che in altri incontri pubblici, alla fine vinse. Per cui la stessa fattucchiera, a fronte di un sostegno che ormai si era sgretolato, nel fare ammenda «dolente ancora si dimostrò delle spregiate ordinazioni de’ sacri canoni». Una vittoria, si potrebbe quindi dire, su tutta la linea da parte dei Gesuiti. I quali peraltro intensificarono, grazie alla raccolta massiccia di elemosine da parte degli stessi cittadini, il suffragio per le anime del purgatorio con la celebrazione di una messa settimanale perpetua unitamente ai rintocchi notturni «ad excitandos animos ad veneranda nostri Reparatoris vulnera quinquies Angelica salutatione et oratione Dominica».
* Storico e Giornalista



Giulianova. 1839/1971, i lavori sul corso principale. Dall’imbrecciatura alla pavimentazione.

LAVORI SUL CORSO. DALL’IMBRECCIATURA ALLA PAVIMENTAZIONE (1839-1871)
di Ottavio Di Stanislao*
Gli interventi del 1838 si rivelarono presto inefficaci tanto che a pochi mesi dalla fine dei lavori, il sindaco Massei chiedeva di poter procedere di nuovo all’imbrecciatura del corso perché la strada era di nuovo invasa dal fango. Stessa richiesta riproponeva nell’aprile 1839 chiedendo di essere autorizzato ad imporre un turno di trasporto gratuito di breccia dalla marina a tutti i “possessori di carri a bovi, traini, ed animali da basto”. Ed infatti, da allora, compresa l’inutilità di ricostruire il selciato, si provvedeva a rifare periodicamente il manto di breccia per rendere la strada almeno trafficabile. Le pessime condizioni delle strade della città, non solo del corso, sono testimoniate anche da segnalazioni all’intendente da parte di giudici regi che si succedettero nel giudicato di pace negli anni ’50 dell’Ottocento. Sul finire del 1852 il giudice D’Amore scriveva: “Quando piove le strade interne di questo comune fanno schifo e paura (…) V’à poi la strada del corso che ad ogni leggiera pioggia si rende intraficabile per tanto loto che si addensa”. Quasi un anno dopo il nuovo giudice Guarino denunciava “… intorno alla squallida luridezza delle strade interne di questo paese, per cui gran detrimento ne viene alla pubblica salute, atteso anche il vagamento di porci”. Proprio in quegli anni era però maturata la consapevolezza che occorreva una soluzione radicale prevedendo il completamento della raccolta delle acque e una pavimentazione durevole come quella che si stava realizzando sul corso di Teramo. Fu incaricato l’architetto De Maulo di predisporre il progetto che fu approvato dal decurionato alla fine del 1852. (Purtroppo nel relativo fascicolo del fondo “Intendenza borbonica” dell’Archivio di Stato di Teramo, manca la rappresentazione grafica, c’è solo la stima dei lavori occorrenti con il calcolo della spesa che riportai in ampi stralci in “Giulianova. Le modifiche ottocentesche alla città acquaviviana”). La spesa prevista, quasi 1.500 ducati, non era però nella disponibilità del comune in un solo esercizio, perciò si decise di realizzare intanto il condotto per la raccolta delle acque, opera comunque propedeutica alla pavimentazione della strada. Nel procedere con la fondazione si incontrarono “antiche e profonde fosse da grano”, per cui fu necessario realizzare 39 arcate a mattoni su cui mettere in sicurezza il condotto della larghezza di palmi5,50 a 5 palmi di profondità. Tali opere, non previste nel progetto originario, provocarono un contenzioso con l’appaltatore Giovanni Brattini di Tortoreto che terminò nel 1856, dopo che i lavori eseguiti furono “riconosciuti” da una commissione costituita ad hoc dal Servizio di Acque e Strade. Furono realizzate 26 bocchette, della larghezza di 4 palmi, per raccogliere le acque lungo il corso e altre 6 di maggiore ampiezza per raccogliere le acque dalle strade superiori chiuse da pietre forate. Alla prova dei fatti tali caditoie si rivelarono inefficaci in quanto non riuscivano a captare tutta l’acqua piovana che quindi provocava danni alle botteghe che si affacciavano sulla strada. Si pensò di ovviare sostituendo tre pietre forate con griglie ad inferriata. Ma per la pavimentazione bisognerà aspettare ancora molti anni, per la mancanza delle risorse occorrenti e per l’assenza di maestranze esperte in lavori che richiedevano materiali adeguati e precise cognizioni. Già nel 1856 il sindaco Cavarocchi chiedeva di poter rivolgersi a “un tal Schiavoni di Ascoli adibito anche per la costruzione del corso di Teramo, espertissimo in siffatti lavori”, ma il Consiglio di Intendenza era invece d’avviso che bisognava avvalersi “de muratori del nostro Regno”. Non mancava la consapevolezza dell’indifferibilità dell’opera per cui il decurionato la indicava come assolutamente prioritaria in quanto si trattava della “… principale [strada] per essere più di tutte trafficata per essere la più comoda e più adatta al passaggio e per formare il punto di riunione di questi amministrati …”. In particolare, fino agli anni ’60 del secolo scorso la domenica mattina vi si riversavano tutti i contadini del territorio circostante, che si recavano in paese per fare acquisti nelle innumerevoli botteghe. Comunque la selciatura del corso sarà realizzata tra il 1871 e il 1872 dall’impresa dell’ingegnere Angelo Ara di Ancona con cui il comune aveva stipulato il contratto il I giugno 1871. Fu impiegata pietra di Fano e Pesaro, posta in opera da selcini marchigiani. L’importo dei lavori fu di £ 20.117, 35. Fra copostrada e marciapiedi furono pavimentati 2.157, 85 m2.
Nella foto, dell’Associazione Braga, del 1889, l’estremità nord del corso. Si nota la pavimentazione realizzata nel 1871-72. Altre immagini del corso nei primi decenni del ‘900 e caditoie in pietra e in ghisa ancora visibili fino agli anni ’70 del ‘900.
*Funzionario Archivista



Giulianova. 1941, nasce la Casa del Pescatore

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 56.
di Sandro Galantini*
L’entrata in funzione, nel 1939, della moderna struttura del Mercato del pesce, occasionava iniziative e progetti collaterali.
Il giornalista teramano Pietro Marcozzi, che aveva seguito l’iter per la realizzazione del Mercato e ne aveva perorato l’istituzione, avanzava così l’idea di istituire a Giulianova una Scuola permanente di abilitazione e di educazione marinara, in sostanza una piccola “università della pesca” ch’egli suggeriva di intitolare a Costanzo Ciano. La proposta incontrava il deciso sostegno del Banco di Napoli, cui era stata affidata la cassa interna del Mercato del pesce, tanto che il potente istituto di credito metteva da subito a disposizione appositi fondi.
Atri progetti, frutto di un’attenzione mai riservata prima alla categoria dei marittimi giuliesi, concernevano un Consorzio Marinaro cui affidare il collocamento della mano d’opera, la tutela degli interessi ed il rispetto delle norme contenute in varie leggi, nonché l’edificazione, prevista nei programmi dell’ Istituto Autonomo Case Popolari per gli anni 1939-40, di quattro palazzine riservate ai pescatori, per complessivi nove alloggi. L’ultimo progetto riguardava la creazione della Casa del Pescatore, cioè una sorta di dopolavoro ricreativo.
Il Consorzio Marinaro sarebbe rimasto sulla carta diversamente dalla case popolari, di fatto costruite dove sono ancora sul Lungomare Spalato, dalla Scuola di addestramento e dalla Casa del Pescatore. Quest’ultima, pensata appunto come luogo ricreativo ma anche di formazione includendo
la Scuola, sarebbe sorta in tempi rapidi nonostante il clima bellico e qualche intralcio iniziale.
Infatti il 18 maggio 1940, poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia, il Comune prelevava 46.000 lire, sui 60mila che il Banco di Napoli aveva messo a disposizione, versandoli alla segreteria provinciale dell’OND (Opera Nazionale Dopolavoro) che aveva eseguito a sua cura i primi lavori sotto la direzione dell’ingegnere Giuseppe Iannetti. Tuttavia l’OND di Teramo nell’ottobre seguente, ormai in piena guerra, rinunciava a dare seguito ai lavori sicché il Comune appaltava gli interventi per l’ultimazione della struttura alla “Cooperativa Industria Pesca Litorale Teramano”
deliberando, il 9 novembre, di prelevare l’ulteriore somma di 11.476 lire da versare alla ditta.
Il 25 giugno 1941 il Genio Civile effettuava finalmente il collaudo sull’edificio, da tempo ultimato, dichiarando la buona esecuzione dei lavori, del tutto conformi a quanto richiesto dal Commissariato per la Pesca.