Giulianova. Il cinematografo in città, storie e curiosità.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 60.

di Sandro Galantini*

Grazie al libro Teramo e il cinematografo di

Elso Simone Serpentini

, sappiamo che i giuliesi furono, dopo gli abitanti del capoluogo di provincia, i primi a godere del cinema. Fu peraltro un teramano, Giustino Bonolis, a dare vita a Giulianova, nei locali di Pasquale Beccaceci alla “Marina”, al primo cinema cittadino: il “Vita”. Era la fine di agosto del 1909 ed agli spettatori, tra i quali numerosi bagnanti di Teramo, grazie ad un’ottima macchina di proiezione di marca Pathé, ogni sera venivano proposte pellicole scelte e variegate. L’anno dopo, a luglio, furono invece due commercianti locali, Attilio Buoni e Raffaele De Santis, ad installare sempre alla “Marina”, in un locale «ben areato», un cinematografo Edison. Si trattava, nell’uno e nell’altro caso, di iniziative estemporanee, chiaramente legate alla stagione balneare.

C’era però chi stava accarezzando l’idea di realizzare in città un cinema permanente.
A farsene carico fu il dinamico albergatore Luigi Federici, che commissionò il relativo progetto al celebre architetto romano Antonio Petrignani. Il progetto, approntato nel 1910, prevedeva un edificio a due piani deliziosamente liberty, da adibire a cinema-teatro, purtroppo mai realizzato a causa della mancanza di fondi.
Giulianova avrebbe avuto il suo cinema stabile solo nel 1922. A realizzarlo, ospitato in un immobile al lato sud di piazza Vittorio Emanuele, l’attuale della Libertà, sarà il commerciante Michele Di Pietro. Il Cinema-teatro “Gaetano Braga”, così si chiamava, sarà per molti anni l’unico operante in città. Gestito anni dopo da Giuseppe Rossi e Ripa Scipione Di Teodoro, nel “Braga”, oltre alle consuete proiezioni, verranno organizzate anche manifestazioni di intrattenimento e musicali. Proprio la collaudata coppia Rossi-Di Teodoro nell’inoltrata primavera del 1929 prendeva l’iniziativa di attivare un cinematografo all’aperto. La richiesta contemplava il posizionamento del proiettore nel secondo cortile interno della scuola “Pagliaccetti”, l’attuale “De Amicis”, per un periodo complessivo di 70 giorni. Un’idea che evidentemente piacque molto al commissario prefettizio Sebastiano Pergameno il quale senza difficoltà, dopo quello da parte del Patronato scolastico, il 19 giugno concedeva anche il
suo placet rendendo così possibile dare al progetto concreta attuazione.
Un vero punto si svolta si ebbe negli anni Trenta. Venuto meno il progetto di un Politeama da ubicare nell’immobile Cichetti, ex sede della Dogana regia, sul lato nord di piazza del Littorio, ora Buozzi, nell’estate del 1935 si inaugurava invece su una porzione dell’ex palazzo ducale, al lato sud della stessa piazza, il cinema “Moderno” di Giuseppe Sabatini e Mario Orsini. Quest’ultimo, in particolare, aveva messo a disposizione parte dell’immobile di sua proprietà dove, sulla base dei calcoli per la parte in cemento armato eseguiti da Ernesto Pelagalli, il geometra Costanzo Testoni aveva quindi ricavato l’impianto «ultramoderno», secondo la definizione datane all’epoca.
Nel luglio 1936, come già illustrato da

Ottavio Di Stanislao

, si ristrutturava anche, sostituendo la galleria in legno con altra in cemento armato, l’ormai datato cinema-teatro “Braga” di cui Alessandro De Annibalis aveva approntato il 23 luglio il relativo progetto su incarico degli impresari Francesco Ettorre e Ripa Di Teodoro.

Il cinema, sinora privilegio esclusivo di Giulianova Alta, nel 1937 faceva il suo esordio al Lido dove pure aveva preso le sue prime mosse . Si trattava dell’ “Ideal” di Maria Calisti, nata ad Arquata del Tronto nel 1879 e moglie di Antonio Tritapepe, cinema sorto in tempi brevissimi sulla centralissima piazza Principi di Piemonte, oggi Fosse Ardeatine, su progetto del solito Alessandro De Annibalis che cinque anni prima aveva oltretutto approntato il disegno della vicina villa di famiglia.
L’”Ideal” apriva i suoi battenti il 28 agosto appunto del 1937, con la rappresentazione di Vigilia d’Armi.
Una scelta assai felice considerando che il film francese, diretto dal regista Marcel L’Herbier, aveva conquistato il primo premio alla biennale di Venezia del 1936 peraltro facendo conseguire alla protagonista Annabella, pseudonimo di Suzanne Georgette Charpentier, la vittoria nella sezione per la migliore attrice.
L’ultimo cinema a vedere la luce fu, sempre la Lido, l’Arena “Braga”, realizzato dalla famiglia Ettorre. Un impianto all’aperto posizionato alle spalle del Kursaal ed aperto nel 1940.
*Storico e Giornalista

 




Giulianova. La storia delle “scalette” che collegano Via XIV maggio e Via Vittorio Veneto.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 59.
di Sandro Galantini*
Se non tutti, comunque moltissimi giuliesi conoscono le “scalette”. Quelle, per intenderci, che in ripida discesa, o in erta salita, collegano via Vittorio Veneto con via XXIV Maggio.
L’origine di questo utile percorso a scale è nella delibera presa il 7 dicembre 1938 dal commissario prefettizio Giuseppe De Gregoris simultaneamente all’approvazione del progetto per la bitumatura di via XXVIII Ottobre, l’attuale Gramsci, e di via Vittorio Veneto.
Quel giorno De Gregoris approvava infatti il preventivo di spesa di 2.928,80 lire, inclusive delle 600 per l’acquisto del suolo, che il geometra Costanzo Testoni gli aveva presentato qualche giorno prima, il 30 novembre, avendo ricevuto l’incarico di progettare una «strada scorciatoia» per abbreviare ai pedoni «di circa 300 metri il percorso per raggiungere la stazione ferroviaria», evitando così «il lungo giro della strada provinciale che fiancheggia la proprietà e lo stabilimento Orsini».
Sicché con l’affidamento dell’appalto a trattativa privata al muratore Carlo Ettorre,stante la lieve entità dell’intervento, i lavori potevano prendere avvio.
Nel giro di pochi mesi la «stradella scorciatoia» era stata ultimata benché i costi fossero lievitati decisamente, raggiungendo la somma complessiva di 3.943,60 lire.
Come anche oggi spesso avviene quando si tratta di lavori pubblici, a far crescere allora i costi erano stati alcuni interventi originariamente non previsti ed indicati nella delibera del 14 giugno 1939 che, approvandoli, liquidava contestualmente la maggiore spesa.
A causa di alcune difficoltà determinate dal forte dislivello, infatti, l’importo dei lavori, fissato inizialmente in 2.328,80 lire, era asceso a 2.943,60 sempre comprensivo delle 600 lire per il pagamento del suolo. Poi c’erano le 730 lire per il corrimano in ferro, non preventivato ma ritenuto necessario, fornito e collocato dal fabbro Agrò Di Teodoro.
Oltre, beninteso, alle 270 lire da consegnare al geometra Testoni per progetto, assistenza e contabilità.
*Storico e Giornalista



Giulianova. Torrione la “Rocca”, quella donazione inspiegabile

LA DONAZIONE INSPIEGABILE
di Ottavio Di Stanislao*
Il torrione dell’angolo nord-ovest, chiamato la Rocca, nel 1595 venne donato dal duca Alberto ad un suo vassallo, Antonio Lucque di Campli per i servizi resi e per la fedeltà dimostrata.
“Albertus de Acquaviva de Aragonia Dux Hadrie Deciemus et Terami Princeps. Mag.co Antonio Lucque della terra di Campli nostro carissimo i continui serviggi che da molti anni havemo da voi con molta soddisfazione ricevuto (…) ci inducono ad usarvi ogni ufficio di gratitudine, e però avendo con nostro contento inteso che siete per fare abitazione nella nostra Terra di Giulianova (…) havemo pensato donarvi, (…) a voi e vostri successori in perpetuo il nostro torrione detto la Rocca (…) con terreno adiacente (…) nel quale possiate fabbricare a vostro modo ed appoggiare alle muraglie di detta nostra Terra …”.
Tale documento fu esibito nel 1789 in una causa civile (Fondo Regia Udienza Processi Civili dell’Archivio di Stato di Teramo) sostenuta dal notaio Melchiorre De Panicis di Mosciano, abitante in Giulianova proprio nel suddetto torrione e nei locali adiacenti, per confutare l’accusa di averlo usurpato all’università. L’intento del convenuto era dimostrare che tale struttura era entrata nella disponibilità dei privati da circa due secoli, come era avvenuto anche per il torrione di S. Francesco inglobato nell’omonimo convento.
La donazione del duca Alberto appare però incongruente da molti punti di vista. Nel momento in cui il signore feudale donava ad un privato cittadino un immobile nato come struttura di difesa della città verrebbe da pensare che evidentemente tale funzione era da ritenersi assolutamente superata. Ma, come documentato da Riccardo Cerulli, nel 1576 il capitano Brancadoro, incaricato proprio da Alberto Acquaviva responsabile della difesa della costa adriatica dal Tronto al Pescara, era stato a Giulianova in ricognizione per ordinare i lavori necessari per tenere in efficienza la cinta muraria. Ciò perché la seconda metà del ‘500 fu caratterizzata dal timore delle incursioni turche e barbaresche, tanto da indurre l’amministrazione vicereale a costruire torri costiere di avvistamento in prossimità delle foci dei fiumi. Furono realizzate nel 1568 lungo tutto il litorale e due di queste a Giulianova, sul Tordino e in prossimità del Salinello. Sempre dal codice cinqucentesco studiato da Cerulli apprendiamo che “i torrioni e le mura erano popolate dalli homini deputati alla guardia de le porte”. Una testimonianza del 1700 ci fa sapere che di notte le tre porte venivano chiuse e le chiavi erano tenute dal governatore, mentre da aprile ad ottobre si faceva la guardia sia alle porte che per le vie della città “per sospetto di turchi”. Da un’altra testimonianza della fine del ‘700 apprendiamo che proprio sul torrione della Rocca, punto più alto della città, nei momenti in cui si temeva potessero avvenire sbarchi di pirati, i cittadini organizzavano turni di sentinella. Le incursioni di pirati barbareschi, provenienti dalle coste settentrionali dell’Africa, genericamente chiamati “turchi”, costituirono un pericolo per le popolazioni rivierasche fino ai primi decenni dell’ottocento. Per tale motivo si sorvegliava il mare e se si avvistavano legni sospetti che si avvicinavano alla riva si dava l’allarme e si correva in spiaggia con le armi da fuoco per impedire lo sbarco. Particolarmente temuta era la possibilità di essere catturati dai pirati e ridotti in schiavitù, eventualità tutt’altro che remota. In uno “stato della scuola primaria del comune di Giulia” del 1809, nella colonna dove era indicata la condizione dei genitori degli scolari, accanto al nome di Alessandro Palestini, figlio di Pietro e Maria Grazia, si trova l’annotazione che lo stesso genitore era “schiavo in Tunisi”.
Per tale motivo, alla fine del ‘700, appariva incoerente e presumibilmente illegittimo il possesso di un bastione da parte di un privato tanto da dare adito al processo riferito. Il contesto descritto e documentato, caratterizzato dalla “paura dei turchi”, che aveva avuto il suo punto più critico proprio nella seconda metà del ‘500, quando le strutture difensive non solo vengono controllate nella loro efficienza, ma se ne costruiscono di nuove, porta a ritenere inspiegabile la donazione del bastione da parte da parte del duca Alberto. Due immagini della Rocca, la seconda dalla collezione di Jonata Di Piero e una foto della torre sul Salinello degli anni’50.
*Funzionario Archivista



Giulianova. Storia e leggenda si intrecciano nell’antichissima chiesa di S. Maria a Mare.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 58.
di Sandro Galantini*
Storia e leggenda si intrecciano nell’antichissima chiesa di S. Maria a Mare. Sorta forse su un tempio romano, certamente costruita utilizzandone alcuni resti, la chiesa possedeva una grande e antica campana bronzea. Risalente al 1342, recava una locuzione molto in uso in quei tempi, riportata tanto sulle campane quanto su edifici pubblici e privati, tratta dalla nona lettura del mattutino dell’ufficio
di Sant’Agata martire, protettrice dei campanari: MENTEM SANCTAM,
SPONTANEAM, HONOREM DEO ET PATRIAE LIBERATIONEM.
Dal resto dell’incisione (FACTA FUI TEMPORE DOMINI SABINI PRAEPOSITI HUIUS ECCLESIAE. MAGISTER NICOLAUS FECIT BONA) sappiamo che era opera di Nicola Aprutino, maestro fonditore e appartenente al Capitolo aprutino cui la chiesa di Castel San Flaviano era soggetta. Sin qui la storia. Ma c’è anche una leggenda, tramandatasi per generazioni e raccolta da Vincenzo Bindi. Pare infatti che durante l’invasione di Maometto II, quindi negli anni settanta del ‘400, alcuni turchi tentarono di rubarla. Tuttavia dopo averla caricata sulla loro nave i pirati non riuscirono a salpare. La campana, infatti, miracolosamente aveva aumentato a dismisura il suo peso da cui la scelta dei musulmani di riportarla al suo posto.
La rottura, anni dopo, della campana avrebbe spinto a fonderla realizzandone due, probabilmente gemelle. Di certo una doveva essere quella stessa che, stimata del peso di mille libbre nel 1858, era apparsa «magna, et proportionata», cioè grande e di bella forma al vescovo Giambattista Visconti nel 1610 durante la sua visita pastorale alla chiesa, già all’epoca chiamata anche SS.ma Annunziata forse per un’immagine del 1572 presente all’interno, sul muro destro.
L’altra campana era stata invece trasportata alla chiesa di S. Rocco, legata all’ospedale della Giulianova rinascimentale e per importanza la seconda della nuova città acquaviviana. Definita ancora nel 1731 «grossa» e di «buonissimo suono», questa campana recava l’iscrizione CHRISTUS VINCIT, CHRISTUS REGNAT,
CHRISTUS IMPERAT, cioè Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera. A questa frase, magnifica proclamazione della regalità sociale di Cristo dal XIII secolo sino al crepuscolo del Rinascimento e peraltro ricorrente nelle monete della stirpe franca dei
capetingi, faceva seguito l’indicazione, senza millesimo, del suo autore, il Magister Varinus secondo la trascrizione, su disagevole lettura, datane da Vincenzo Bindi.
Interpretato come Vakinus da Vittorio Savorini, che propendeva di conseguenza per un fonditore straniero, ritengo invece che quel Maestro Varinus sia da identificare con Varino (o Marino) di Marco da Zara, capomastro della fabbrica della cattedrale di Recanati principiata nel 1468 per volere del vescovo Niccolò delle Aste. Se così fosse, la campana sarebbe databile al periodo che precede di poco la fondazione rinascimentale di Giulianova, quindi coerente con la sua rottura si dice avvenuta a qualche anno dalle scorrerie turchesche. Verrebbe altresì ad emergere, attraverso Giulio Antonio Acquaviva magari nelle vesti di committente, il forte legame con Recanati nel nome di San Flaviano, culto comune ai due luoghi e rinvigorito nella città marchigiana nel 1415 grazie al dono di alcune reliquie del Santo bizantino da parte di papa Gregorio XII.
Rimane da dire dell’altra leggenda che riguarda la chiesa di S. Maria a Mare, quella cioè secondo cui erano sepolte all’interno delle sue colonne le sacre spoglie di antichi paladini. La credenza popolare, riflesso dell’epopea carolingia che a Giulianova si era radicata con la storia del gigante Orlando relativa alle muracche (FRAMMENTI –
25), probabilmente aveva la sua origine dalla morte a San Giovanni d’Acri di parecchi militi di Castel San Flaviano, città divenuta uno dei centri di smistamento delle truppe crociate durante il tentativo normanno di espansione ai danni dell’Impero Bizantino e degli stati arabi in Siria e Palestina.
Certo è che il decurionato giuliese, nella seduta del 18 ottobre 1854, in vista dei lavori da effettuare sulla chiesa per adattarla al futuro convento dei Passionisti, respingeva ogni modifica «considerando essere antica tradizione popolare che tra le colonne site all’interno del tempio una ve ne sia consacrata». Per cui i «buoni popolani» erano soliti «orare intorno a ciascuna di esse».
Storico e Giornalista*



Giulianova. Quella mala pianta della negromanzia.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 57.
di Sandro Galantini*
Come già accaduto nel secolo precedente, anche nel ‘600 appare diffuso nella diocesi di Teramo l’inquietante fenomeno della negromanzia.
Molte infatti, come aveva scritto con toni apocalittici il vescovo aprutino Giambattista Visconti nella sua relazione del 15 dicembre 1621, le maliarde, le negromanti e persino le streghe. Le conseguenze di questa opera malefica, secondo il vescovo, erano tra l’altro i gravi peccati carnali contro natura come gli incesti, pare numerosi al tempo.
A Giulianova incesti non sono documentati, almeno stando alle carte della corte di giustizia vescovile e di quella secolare. Diffusi erano piuttosto i concubinaggi, anche con ragazze giovanissime, e i bambini «spurii», nati cioè da relazioni extraconiugali. La vera piaga era però quella delle «affatturazioni», che a Giulianova aveva assunto dimensioni ragguardevoli nel 1622 coinvolgendo in una torbida storia, rispettivamente come parte lesa e in qualità di teste, un sacerdote, Agelio Scalabrino, ed un benestante, Francesco Talucci.
Non mancavano inoltre, a completare la situazione, le paganeggianti credenze negli auspici tratti dai serpenti e dagli uccelli. Insomma, un quadro a tal punto fosco da spingere i Gesuiti, impegnati in una solertissima opera missionaria, a venire a Giulianova nel 1628 per estirpare la mala pianta della negromanzia.
Benché sostenuti dal clero locale, e in particolare dall’arciprete di San Flaviano don Domenico Porfiri che aveva messo a loro disposizione la chiesa madre, i Gesuiti ebbero il loro bel daffare. Come apprendiamo infatti dal libro Istoria della Compagnia di Gesù, pubblicato nel 1757 dal gesuita Saverio Santagata, a Giulianova operava una «certa vecchietta» che, vantandosi di avere ricevuto da Dio il dono della premonizione, ricorrendo ad una colomba prediceva eventi futuri o nascosti, felici oppure infausti. La sua fama di indovina, già solida, si era poi ulteriormente rafforzata quando aveva esattamente predetto l’improvvisa morte di un uomo in apparenza sano. I Gesuiti avevano iniziato la loro missione giuliese proprio tenendo nel duomo di San Flaviano una pubblica arringa contro la fattucchiera. Ma in città era evidentemente molto e diffusamente radicata la considerazione nei confronti di questa sorta di Sibilla giuliese se, scrive Santagata, «poco mancò» che alcuni tra i più ottusi e convinti non uscissero dalla chiesa «infastiditi e scandalizzati».
La tenacia dei Gesuiti, la loro forza argomentativa e la capacità di persuasione esercitata più sui singoli che in altri incontri pubblici, alla fine vinse. Per cui la stessa fattucchiera, a fronte di un sostegno che ormai si era sgretolato, nel fare ammenda «dolente ancora si dimostrò delle spregiate ordinazioni de’ sacri canoni». Una vittoria, si potrebbe quindi dire, su tutta la linea da parte dei Gesuiti. I quali peraltro intensificarono, grazie alla raccolta massiccia di elemosine da parte degli stessi cittadini, il suffragio per le anime del purgatorio con la celebrazione di una messa settimanale perpetua unitamente ai rintocchi notturni «ad excitandos animos ad veneranda nostri Reparatoris vulnera quinquies Angelica salutatione et oratione Dominica».
* Storico e Giornalista



Giulianova. 1839/1971, i lavori sul corso principale. Dall’imbrecciatura alla pavimentazione.

LAVORI SUL CORSO. DALL’IMBRECCIATURA ALLA PAVIMENTAZIONE (1839-1871)
di Ottavio Di Stanislao*
Gli interventi del 1838 si rivelarono presto inefficaci tanto che a pochi mesi dalla fine dei lavori, il sindaco Massei chiedeva di poter procedere di nuovo all’imbrecciatura del corso perché la strada era di nuovo invasa dal fango. Stessa richiesta riproponeva nell’aprile 1839 chiedendo di essere autorizzato ad imporre un turno di trasporto gratuito di breccia dalla marina a tutti i “possessori di carri a bovi, traini, ed animali da basto”. Ed infatti, da allora, compresa l’inutilità di ricostruire il selciato, si provvedeva a rifare periodicamente il manto di breccia per rendere la strada almeno trafficabile. Le pessime condizioni delle strade della città, non solo del corso, sono testimoniate anche da segnalazioni all’intendente da parte di giudici regi che si succedettero nel giudicato di pace negli anni ’50 dell’Ottocento. Sul finire del 1852 il giudice D’Amore scriveva: “Quando piove le strade interne di questo comune fanno schifo e paura (…) V’à poi la strada del corso che ad ogni leggiera pioggia si rende intraficabile per tanto loto che si addensa”. Quasi un anno dopo il nuovo giudice Guarino denunciava “… intorno alla squallida luridezza delle strade interne di questo paese, per cui gran detrimento ne viene alla pubblica salute, atteso anche il vagamento di porci”. Proprio in quegli anni era però maturata la consapevolezza che occorreva una soluzione radicale prevedendo il completamento della raccolta delle acque e una pavimentazione durevole come quella che si stava realizzando sul corso di Teramo. Fu incaricato l’architetto De Maulo di predisporre il progetto che fu approvato dal decurionato alla fine del 1852. (Purtroppo nel relativo fascicolo del fondo “Intendenza borbonica” dell’Archivio di Stato di Teramo, manca la rappresentazione grafica, c’è solo la stima dei lavori occorrenti con il calcolo della spesa che riportai in ampi stralci in “Giulianova. Le modifiche ottocentesche alla città acquaviviana”). La spesa prevista, quasi 1.500 ducati, non era però nella disponibilità del comune in un solo esercizio, perciò si decise di realizzare intanto il condotto per la raccolta delle acque, opera comunque propedeutica alla pavimentazione della strada. Nel procedere con la fondazione si incontrarono “antiche e profonde fosse da grano”, per cui fu necessario realizzare 39 arcate a mattoni su cui mettere in sicurezza il condotto della larghezza di palmi5,50 a 5 palmi di profondità. Tali opere, non previste nel progetto originario, provocarono un contenzioso con l’appaltatore Giovanni Brattini di Tortoreto che terminò nel 1856, dopo che i lavori eseguiti furono “riconosciuti” da una commissione costituita ad hoc dal Servizio di Acque e Strade. Furono realizzate 26 bocchette, della larghezza di 4 palmi, per raccogliere le acque lungo il corso e altre 6 di maggiore ampiezza per raccogliere le acque dalle strade superiori chiuse da pietre forate. Alla prova dei fatti tali caditoie si rivelarono inefficaci in quanto non riuscivano a captare tutta l’acqua piovana che quindi provocava danni alle botteghe che si affacciavano sulla strada. Si pensò di ovviare sostituendo tre pietre forate con griglie ad inferriata. Ma per la pavimentazione bisognerà aspettare ancora molti anni, per la mancanza delle risorse occorrenti e per l’assenza di maestranze esperte in lavori che richiedevano materiali adeguati e precise cognizioni. Già nel 1856 il sindaco Cavarocchi chiedeva di poter rivolgersi a “un tal Schiavoni di Ascoli adibito anche per la costruzione del corso di Teramo, espertissimo in siffatti lavori”, ma il Consiglio di Intendenza era invece d’avviso che bisognava avvalersi “de muratori del nostro Regno”. Non mancava la consapevolezza dell’indifferibilità dell’opera per cui il decurionato la indicava come assolutamente prioritaria in quanto si trattava della “… principale [strada] per essere più di tutte trafficata per essere la più comoda e più adatta al passaggio e per formare il punto di riunione di questi amministrati …”. In particolare, fino agli anni ’60 del secolo scorso la domenica mattina vi si riversavano tutti i contadini del territorio circostante, che si recavano in paese per fare acquisti nelle innumerevoli botteghe. Comunque la selciatura del corso sarà realizzata tra il 1871 e il 1872 dall’impresa dell’ingegnere Angelo Ara di Ancona con cui il comune aveva stipulato il contratto il I giugno 1871. Fu impiegata pietra di Fano e Pesaro, posta in opera da selcini marchigiani. L’importo dei lavori fu di £ 20.117, 35. Fra copostrada e marciapiedi furono pavimentati 2.157, 85 m2.
Nella foto, dell’Associazione Braga, del 1889, l’estremità nord del corso. Si nota la pavimentazione realizzata nel 1871-72. Altre immagini del corso nei primi decenni del ‘900 e caditoie in pietra e in ghisa ancora visibili fino agli anni ’70 del ‘900.
*Funzionario Archivista



Giulianova. 1941, nasce la Casa del Pescatore

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 56.
di Sandro Galantini*
L’entrata in funzione, nel 1939, della moderna struttura del Mercato del pesce, occasionava iniziative e progetti collaterali.
Il giornalista teramano Pietro Marcozzi, che aveva seguito l’iter per la realizzazione del Mercato e ne aveva perorato l’istituzione, avanzava così l’idea di istituire a Giulianova una Scuola permanente di abilitazione e di educazione marinara, in sostanza una piccola “università della pesca” ch’egli suggeriva di intitolare a Costanzo Ciano. La proposta incontrava il deciso sostegno del Banco di Napoli, cui era stata affidata la cassa interna del Mercato del pesce, tanto che il potente istituto di credito metteva da subito a disposizione appositi fondi.
Atri progetti, frutto di un’attenzione mai riservata prima alla categoria dei marittimi giuliesi, concernevano un Consorzio Marinaro cui affidare il collocamento della mano d’opera, la tutela degli interessi ed il rispetto delle norme contenute in varie leggi, nonché l’edificazione, prevista nei programmi dell’ Istituto Autonomo Case Popolari per gli anni 1939-40, di quattro palazzine riservate ai pescatori, per complessivi nove alloggi. L’ultimo progetto riguardava la creazione della Casa del Pescatore, cioè una sorta di dopolavoro ricreativo.
Il Consorzio Marinaro sarebbe rimasto sulla carta diversamente dalla case popolari, di fatto costruite dove sono ancora sul Lungomare Spalato, dalla Scuola di addestramento e dalla Casa del Pescatore. Quest’ultima, pensata appunto come luogo ricreativo ma anche di formazione includendo
la Scuola, sarebbe sorta in tempi rapidi nonostante il clima bellico e qualche intralcio iniziale.
Infatti il 18 maggio 1940, poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia, il Comune prelevava 46.000 lire, sui 60mila che il Banco di Napoli aveva messo a disposizione, versandoli alla segreteria provinciale dell’OND (Opera Nazionale Dopolavoro) che aveva eseguito a sua cura i primi lavori sotto la direzione dell’ingegnere Giuseppe Iannetti. Tuttavia l’OND di Teramo nell’ottobre seguente, ormai in piena guerra, rinunciava a dare seguito ai lavori sicché il Comune appaltava gli interventi per l’ultimazione della struttura alla “Cooperativa Industria Pesca Litorale Teramano”
deliberando, il 9 novembre, di prelevare l’ulteriore somma di 11.476 lire da versare alla ditta.
Il 25 giugno 1941 il Genio Civile effettuava finalmente il collaudo sull’edificio, da tempo ultimato, dichiarando la buona esecuzione dei lavori, del tutto conformi a quanto richiesto dal Commissariato per la Pesca.



Giulianova. Lo sviluppo dell’illuminazione pubblica

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 55.
di Sandro Galantini*
Lo sviluppo dell’illuminazione stradale e la sua funzione di servizio pubblico segna l’avvio di un processo di trasformazione radicale dell’ambiente urbano. Con la luce, infatti, le notti cittadine diventano rapidamente più sicure e più adatte alla vita sociale.
A Giulianova, dove il sistema di pubblica illuminazione era basato prima dell’Unità d’Italia su pochi fanali a olio minerale, detto lucellina, un significativo punto di svolta si ha nel 1866. Risale a quell’anno, infatti, la decisione di dotare la piazza Belvedere di alcuni lampioni a palo con illuminazione a petrolio sostituendo così quelli a lucellina. Le nuove lampade a petrolio, immesse sul mercato nazionale a partire dal 1859, erano costituite da un bulbo contenente il combustibile, da uno stoppino e da un “coprilampada” aperto di vetro che permetteva il passaggio dell’ossigeno. Dopo aver potenziato l’impianto già esistente nel 1882, grazie alle 34mila lire che il sindaco Gaetano De Maulo aveva ottenuto per una serie di interventi sulla piazza, nel 1884 il sistema di pubblica illuminazione su lampade a petrolio veniva esteso anche alla zona centrale della Borgata Marina, l’attuale Lido.
Con l’avvento del sistema elettrico di pubblica illuminazione, inizialmente testato a Tagliacozzo, Terni e Macerata, anche a Giulianova si pensa di introdurre il nuovo e più efficiente impianto che, progettato senza successo ad Atri già nel 1889, nella provincia di Teramo era entrato in funzione solo a Montorio al Vomano, dove il 10 dicembre 1899 erano state solennemente inaugurate le 71 lampadine installate dall’impresa Geraci di Napoli.
Ed era proprio all’impresa Geraci che si rivolgevano gli amministratori giuliesi, a tal punto ottimisti sull’esito del progetto da affidare nel 1899 al tipografo Francesco Pedicone la stampa di un Regolamento per la distribuzione dell’energia elettrica ad uso di illuminazione per i privati.
In realtà solo nel febbraio 1902 si aveva la stipula con Domenico Geraci del contratto riguardante sia la realizzazione della rete idrica, sia il completamento dell’impianto elettrico, dato per certo entro l’estate o, al più, per il prossimo ottobre. Ma il fallimento, nel dicembre 1902, dell’imprenditore napoletano spazzava via ogni speranza di attivare in tempi ragionevoli il nuovo sistema di pubblica illuminazione.
Ed infatti dovranno passare sei anni per consentire a Giulianova di disporre di un impianto di pubblica illuminazione alimentato dall’elettricità.
E’ il 25 maggio del 1908 quando il Comune, retto dal sindaco Giuseppe de Bartolomei, stanzia 700 lire per far fronte alle spese contrattuali relative all’appalto dell’illuminazione elettrica, ormai imminente, con gestione affidata alla Società Industriale del Vomano nata l’anno prima.
All’attivazione nella parte alta della città, seguiva l’entrata in funzione anche nella sottostante Borgata Marina dove, il 12 giugno 1909, si provvedeva all’ampliamento dell’impianto, grazie ad un accordo intervenuto tra il sindaco e l’ingegner Salvadori. Anche lo stabilimento balneare, vero polo-calamita dell’estate giuliese, nel 1910 ricorreva all’energia elettrica con effetto altamente suggestivo mediante una fila di lampadine che seguiva le linee principali della costruzione sicché da lontano, come evidenziava un articolo apparso su “L’Italia centrale” a fine luglio, appariva «tutta circonfusa di chiara luce», producendo «un gradevole effetto».
Nel 1925 il sindaco Amato Alfonso Migliori, nonostante le poche risorse economiche a disposizione del Comune, decideva comunque di garantire la pubblica illuminazione in alcune zone urbane della Marina che ne erano ancora prive ed in altre che ne beneficiavano in maniera insufficiente, come il viale Adriatico e le strade del rione Orsini-Massei e Porto. Per questo dava incarico al tecnico di acquistare il materiale occorrente utilizzando anche quello di risulta dell’ormai obsoleto impianto di illuminazione a petrolio ed ogni altro disponibile nel magazzino comunale.
Con la nuova gestione dell’ Unione Esercizi Elettrici (UNES), autorizzata con decreto ministeriale del 22 aprile 1932 ad impiantare ed esercitare una linea elettrica da Giulianova a Tortoreto alla tensione di 15.000 volt, il sistema di pubblica illuminazione raggiungeva anche Colleranesco. Il 1 febbraio 1935 entrava così in funzione l’impianto su 10 lampade a sospensione lungo i 400 metri della nazionale per Teramo. Quattro anni dopo, infine, si completava il piano del posizionamento dei punti luce al Lido.
* Storico e Giornalista



Giulianova. I lavori sul Corso nei primi decenni dell’ottocento

di Ottavio Di Stanislao*
La prima notizia di lavori sul corso di Giulianova, come documentato da un carteggio dell’Intendenza francese conservato nell’Archivio di Stato, risale al 1813, quando in occasione del passaggio del re fu rifatta la selciatura. Questa la descrizione dell’ingegnere Carlo Forti: “… ciottoli di fiume battuti sopra un letto di arena fra un compartimento di mattoni in coltello disposti a quadri di sei palmi di lato, e questi divisi in triangoli per mezzo delle diagonali (…) quei lavori erano di una necessità assoluta perché l’antico selciato della strada interna formato di grosse pietre fluviali, senza guide era stato messo sossopra dal passaggio continuo di carriaggi mercantili ed era ridotto una vera sassaia”. Ma nel 1826 era necessario intervenire nuovamente e il decurionato aveva deliberato di rifare il selciato e di eliminare, richiudendole, le fosse esistenti lungo la stessa via dove, per una consuetudine secolare, si era soliti conservare il grano. La strada era ridotta malissimo, non esistendo un condotto per raccogliere le acque meteoriche, queste scendevano impetuosamente dalle strade provenienti dalla parte alta della città, trasportando terra e detriti sulla sede stradale rendendola così difficilmente praticabile. Si era pensato di costruire dei “chiavicotti” in corrispondenza delle vie superiori in modo da condurre le acque piovane al di là del corso.
Queste soluzioni erano criticate aspramente dall’ingegnere Carlo Forti, secondo cui i chiavicotti erano validi per le strade esterne ma non per i centri abitati e riteneva necessario realizzare un collettore lungo tutta la strada. Ciò suscitò le proteste di tutti gli amministratori di Giulianova che si vedevano espropriati della propria autonomia decisionale. Vincenzo Ciafardoni, allora consigliere provinciale, scriveva all’intendente: “… è molto conosciuta la persecuzione del sig. Forti verso il nostro comune, mentre brama di toglierci interamente il commercio e la luce del sole benanche se potesse”. Da premettere che in quegli anni era in atto un aspro contrasto fra gli amministratori di Giulianova e l’ingegnere Carlo Forti per il tracciato della strada Teramo – Giulianova. Il Consiglio d’Intendenza approvò una soluzione di compromesso ordinando una nuova perizia per la selciatura concava e non convessa come già appalto e disponendo che le fosse che non erano al centro della strada potevano esser conservate. I lavori furono eseguiti nel 1828 dall’appaltatore Pasquale Tentarelli ma ben presto le condizioni della strada tornarono ad essere assai critiche. La selciatura sul letto di sabbia era facilmente divelta dal passaggio dei carri e l’assenza di un sistema di raccolta delle acque faceva il resto. Nel 1837 il sindaco Comi chiedeva di poter eseguire nuovamente lavori sulla strada del corso “resa quasi impraticabile”. Si riproponevano i chiavicotti in corrispondenza con le strade provenienti dalla parte superiore, il riempimento delle fosse da grano e un manto di ghiaia nella sede stradale. Per abbassare i costi si pensava di ricorre al “braccio pubblico”, obbligando uomini e donne a giornate di lavoro gratuite e i possessori di carri al trasporto gratuito di breccia. Il sindaco nella richiesta dava conto della riserva di alcuni progettisti che ritenevano prioritario la costruzione di un condotto sotto la strada, ma poiché non c’erano le risorse occorrenti era comunque necessario intervenire per migliorare le condizioni della strada. I lavori furono eseguiti fra aprile e luglio 1838 anche su impulso dell’intendente Spaccaforno: non furono realizzati i chiavicotti ma un tratto di condotto nella parte sud dall’incrocio con la strada di S.Francesco alla porta dei cappuccini e su via di porta marina, con tre pozzetti di raccolta; per tutta la lunghezza fu asportato il brecciame di antico deposito, furono ripianate ben 127 fosse da grano, furono realizzati fossi laterali con selciato e guide di mattoni e fu rifatto il manto di ghiaia. Tali lavori provocarono un sensibile abbassamento della sede stradale. Per i lavori di “sterramento e riempimento” delle fosse furono impiegati uomini e donne per 2492 giornate lavorative, per i lavori di fabbrica furono necessari 217 giornate lavorative di muratori come è documentato dal relativo voluminoso fascicolo dell’Intendenza borbonica conservato nell’Archivio di Stato di Teramo
*Funzionario Archivista



Giulianova. I rapporti storici tra la frazione di Cologna e la città acquaviviana

di Ottavio Di Stanislao*
Stimolato dalla richiesta di Giulio Sottanelli a Sandro Galantini sui rapporti storici Cologna – Giulianova, mi permetto dare un piccolo contributo proponendo una dichiarazione giurata di 24 naturali di Cologna, raccolta in un atto notarile rogato dal notaio Altobrando De Paulis Fedele, nel 1805, conservata fra gli Atti dei notai dell’Archivio di Stato di Teramo. «… asseriscono ch’essendo essi naturali della villa di Cologna e non avendo un mulino al proprio tenimento sono nella necessità di andare a molinare li loro grani ne mulini della Badia di Mosciano, dell’arcipretura di Giulianova e della camera Allodiale che sono siti di la dal fiume Tordino il quale nel corso dell’inverno e della primavera porta l’acqua in quantità in modo tale ch’essi costituiti più volte hanno perduto le farine ed anche qualche animale da soma col rischio anche della propria vita, anzi vari concittadini sono periti in detto fiume in occasione di passaggio per li loro rispettivi affari in Giulianova e in Mosciano; soggiungendo inoltre che in tempo dell’esistenza delle semine de’ risi l’acqua non solo era sufficiente per animazione de’ suddetti mulini di la dal fiume, ma era esuberante ancora per l’irrigamento di più centinaia di tomolate di terreno nel loro tenimento ch’esiste alla parte opposta e nel corso del fiume mai han (sic) mancato acqua anche in tempo di siccità».
Bisogna considerare che all’epoca non esistevano ponti; questi infatti saranno realizzati solamente dopo l’Unità con il passaggio della ferrovia litoranea. Per cui uno dei criteri della riforma delle circoscrizioni giudiziarie e di conseguenza delle università, operata da Giuseppe Bonaparte, fu proprio quello di evitare che i territori fossero attraversati da fiumi, che non era possibile guadare per gran parte dell’anno.
La pianta allegata, proveniente dal Fondo Intendenza francese dell’Archivio di Stato, già da me pubblicata proprio nell’articolo sul bicentenario della riforma amministrativa e sulle ripercussioni per il nostro territorio (Rivista Madonna dello Splendore 2006), in particolare riportata anche nella copertina de La battaglia del riso di Giacomo De Iuliis, del 2014, illustra esaurientemente la dichiarazione giurata riportata. Disegnata da Carlo Forti, era allegata alla richiesta del 1807 di costruzione di un mulino da parte di Biagio De Bartolomei, notabile giuliese affittuario del beneficio di S. Salvatore a Bozzino. Si vedono i mulini sul lato nord del Tordino e il canale delle risiere che portava parte delle acque del fiume, costeggiando il percorso su cui dopo qualche anno verrà realizzata la consolare, fino al Borsacchio, in modo da poter allagare il territorio adiacente per la coltivazione del riso. Si vede anche l’antico percorso che da Cologna portava al Tordino all’altezza della masseria Muzi, abitualmente usato per raggiungere Giulianova.
*Funzionario Archivista
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