Giulianova. Lo sviluppo dell’illuminazione pubblica

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 55.
di Sandro Galantini*
Lo sviluppo dell’illuminazione stradale e la sua funzione di servizio pubblico segna l’avvio di un processo di trasformazione radicale dell’ambiente urbano. Con la luce, infatti, le notti cittadine diventano rapidamente più sicure e più adatte alla vita sociale.
A Giulianova, dove il sistema di pubblica illuminazione era basato prima dell’Unità d’Italia su pochi fanali a olio minerale, detto lucellina, un significativo punto di svolta si ha nel 1866. Risale a quell’anno, infatti, la decisione di dotare la piazza Belvedere di alcuni lampioni a palo con illuminazione a petrolio sostituendo così quelli a lucellina. Le nuove lampade a petrolio, immesse sul mercato nazionale a partire dal 1859, erano costituite da un bulbo contenente il combustibile, da uno stoppino e da un “coprilampada” aperto di vetro che permetteva il passaggio dell’ossigeno. Dopo aver potenziato l’impianto già esistente nel 1882, grazie alle 34mila lire che il sindaco Gaetano De Maulo aveva ottenuto per una serie di interventi sulla piazza, nel 1884 il sistema di pubblica illuminazione su lampade a petrolio veniva esteso anche alla zona centrale della Borgata Marina, l’attuale Lido.
Con l’avvento del sistema elettrico di pubblica illuminazione, inizialmente testato a Tagliacozzo, Terni e Macerata, anche a Giulianova si pensa di introdurre il nuovo e più efficiente impianto che, progettato senza successo ad Atri già nel 1889, nella provincia di Teramo era entrato in funzione solo a Montorio al Vomano, dove il 10 dicembre 1899 erano state solennemente inaugurate le 71 lampadine installate dall’impresa Geraci di Napoli.
Ed era proprio all’impresa Geraci che si rivolgevano gli amministratori giuliesi, a tal punto ottimisti sull’esito del progetto da affidare nel 1899 al tipografo Francesco Pedicone la stampa di un Regolamento per la distribuzione dell’energia elettrica ad uso di illuminazione per i privati.
In realtà solo nel febbraio 1902 si aveva la stipula con Domenico Geraci del contratto riguardante sia la realizzazione della rete idrica, sia il completamento dell’impianto elettrico, dato per certo entro l’estate o, al più, per il prossimo ottobre. Ma il fallimento, nel dicembre 1902, dell’imprenditore napoletano spazzava via ogni speranza di attivare in tempi ragionevoli il nuovo sistema di pubblica illuminazione.
Ed infatti dovranno passare sei anni per consentire a Giulianova di disporre di un impianto di pubblica illuminazione alimentato dall’elettricità.
E’ il 25 maggio del 1908 quando il Comune, retto dal sindaco Giuseppe de Bartolomei, stanzia 700 lire per far fronte alle spese contrattuali relative all’appalto dell’illuminazione elettrica, ormai imminente, con gestione affidata alla Società Industriale del Vomano nata l’anno prima.
All’attivazione nella parte alta della città, seguiva l’entrata in funzione anche nella sottostante Borgata Marina dove, il 12 giugno 1909, si provvedeva all’ampliamento dell’impianto, grazie ad un accordo intervenuto tra il sindaco e l’ingegner Salvadori. Anche lo stabilimento balneare, vero polo-calamita dell’estate giuliese, nel 1910 ricorreva all’energia elettrica con effetto altamente suggestivo mediante una fila di lampadine che seguiva le linee principali della costruzione sicché da lontano, come evidenziava un articolo apparso su “L’Italia centrale” a fine luglio, appariva «tutta circonfusa di chiara luce», producendo «un gradevole effetto».
Nel 1925 il sindaco Amato Alfonso Migliori, nonostante le poche risorse economiche a disposizione del Comune, decideva comunque di garantire la pubblica illuminazione in alcune zone urbane della Marina che ne erano ancora prive ed in altre che ne beneficiavano in maniera insufficiente, come il viale Adriatico e le strade del rione Orsini-Massei e Porto. Per questo dava incarico al tecnico di acquistare il materiale occorrente utilizzando anche quello di risulta dell’ormai obsoleto impianto di illuminazione a petrolio ed ogni altro disponibile nel magazzino comunale.
Con la nuova gestione dell’ Unione Esercizi Elettrici (UNES), autorizzata con decreto ministeriale del 22 aprile 1932 ad impiantare ed esercitare una linea elettrica da Giulianova a Tortoreto alla tensione di 15.000 volt, il sistema di pubblica illuminazione raggiungeva anche Colleranesco. Il 1 febbraio 1935 entrava così in funzione l’impianto su 10 lampade a sospensione lungo i 400 metri della nazionale per Teramo. Quattro anni dopo, infine, si completava il piano del posizionamento dei punti luce al Lido.
* Storico e Giornalista



Giulianova. I lavori sul Corso nei primi decenni dell’ottocento

di Ottavio Di Stanislao*
La prima notizia di lavori sul corso di Giulianova, come documentato da un carteggio dell’Intendenza francese conservato nell’Archivio di Stato, risale al 1813, quando in occasione del passaggio del re fu rifatta la selciatura. Questa la descrizione dell’ingegnere Carlo Forti: “… ciottoli di fiume battuti sopra un letto di arena fra un compartimento di mattoni in coltello disposti a quadri di sei palmi di lato, e questi divisi in triangoli per mezzo delle diagonali (…) quei lavori erano di una necessità assoluta perché l’antico selciato della strada interna formato di grosse pietre fluviali, senza guide era stato messo sossopra dal passaggio continuo di carriaggi mercantili ed era ridotto una vera sassaia”. Ma nel 1826 era necessario intervenire nuovamente e il decurionato aveva deliberato di rifare il selciato e di eliminare, richiudendole, le fosse esistenti lungo la stessa via dove, per una consuetudine secolare, si era soliti conservare il grano. La strada era ridotta malissimo, non esistendo un condotto per raccogliere le acque meteoriche, queste scendevano impetuosamente dalle strade provenienti dalla parte alta della città, trasportando terra e detriti sulla sede stradale rendendola così difficilmente praticabile. Si era pensato di costruire dei “chiavicotti” in corrispondenza delle vie superiori in modo da condurre le acque piovane al di là del corso.
Queste soluzioni erano criticate aspramente dall’ingegnere Carlo Forti, secondo cui i chiavicotti erano validi per le strade esterne ma non per i centri abitati e riteneva necessario realizzare un collettore lungo tutta la strada. Ciò suscitò le proteste di tutti gli amministratori di Giulianova che si vedevano espropriati della propria autonomia decisionale. Vincenzo Ciafardoni, allora consigliere provinciale, scriveva all’intendente: “… è molto conosciuta la persecuzione del sig. Forti verso il nostro comune, mentre brama di toglierci interamente il commercio e la luce del sole benanche se potesse”. Da premettere che in quegli anni era in atto un aspro contrasto fra gli amministratori di Giulianova e l’ingegnere Carlo Forti per il tracciato della strada Teramo – Giulianova. Il Consiglio d’Intendenza approvò una soluzione di compromesso ordinando una nuova perizia per la selciatura concava e non convessa come già appalto e disponendo che le fosse che non erano al centro della strada potevano esser conservate. I lavori furono eseguiti nel 1828 dall’appaltatore Pasquale Tentarelli ma ben presto le condizioni della strada tornarono ad essere assai critiche. La selciatura sul letto di sabbia era facilmente divelta dal passaggio dei carri e l’assenza di un sistema di raccolta delle acque faceva il resto. Nel 1837 il sindaco Comi chiedeva di poter eseguire nuovamente lavori sulla strada del corso “resa quasi impraticabile”. Si riproponevano i chiavicotti in corrispondenza con le strade provenienti dalla parte superiore, il riempimento delle fosse da grano e un manto di ghiaia nella sede stradale. Per abbassare i costi si pensava di ricorre al “braccio pubblico”, obbligando uomini e donne a giornate di lavoro gratuite e i possessori di carri al trasporto gratuito di breccia. Il sindaco nella richiesta dava conto della riserva di alcuni progettisti che ritenevano prioritario la costruzione di un condotto sotto la strada, ma poiché non c’erano le risorse occorrenti era comunque necessario intervenire per migliorare le condizioni della strada. I lavori furono eseguiti fra aprile e luglio 1838 anche su impulso dell’intendente Spaccaforno: non furono realizzati i chiavicotti ma un tratto di condotto nella parte sud dall’incrocio con la strada di S.Francesco alla porta dei cappuccini e su via di porta marina, con tre pozzetti di raccolta; per tutta la lunghezza fu asportato il brecciame di antico deposito, furono ripianate ben 127 fosse da grano, furono realizzati fossi laterali con selciato e guide di mattoni e fu rifatto il manto di ghiaia. Tali lavori provocarono un sensibile abbassamento della sede stradale. Per i lavori di “sterramento e riempimento” delle fosse furono impiegati uomini e donne per 2492 giornate lavorative, per i lavori di fabbrica furono necessari 217 giornate lavorative di muratori come è documentato dal relativo voluminoso fascicolo dell’Intendenza borbonica conservato nell’Archivio di Stato di Teramo
*Funzionario Archivista



Giulianova. I rapporti storici tra la frazione di Cologna e la città acquaviviana

di Ottavio Di Stanislao*
Stimolato dalla richiesta di Giulio Sottanelli a Sandro Galantini sui rapporti storici Cologna – Giulianova, mi permetto dare un piccolo contributo proponendo una dichiarazione giurata di 24 naturali di Cologna, raccolta in un atto notarile rogato dal notaio Altobrando De Paulis Fedele, nel 1805, conservata fra gli Atti dei notai dell’Archivio di Stato di Teramo. «… asseriscono ch’essendo essi naturali della villa di Cologna e non avendo un mulino al proprio tenimento sono nella necessità di andare a molinare li loro grani ne mulini della Badia di Mosciano, dell’arcipretura di Giulianova e della camera Allodiale che sono siti di la dal fiume Tordino il quale nel corso dell’inverno e della primavera porta l’acqua in quantità in modo tale ch’essi costituiti più volte hanno perduto le farine ed anche qualche animale da soma col rischio anche della propria vita, anzi vari concittadini sono periti in detto fiume in occasione di passaggio per li loro rispettivi affari in Giulianova e in Mosciano; soggiungendo inoltre che in tempo dell’esistenza delle semine de’ risi l’acqua non solo era sufficiente per animazione de’ suddetti mulini di la dal fiume, ma era esuberante ancora per l’irrigamento di più centinaia di tomolate di terreno nel loro tenimento ch’esiste alla parte opposta e nel corso del fiume mai han (sic) mancato acqua anche in tempo di siccità».
Bisogna considerare che all’epoca non esistevano ponti; questi infatti saranno realizzati solamente dopo l’Unità con il passaggio della ferrovia litoranea. Per cui uno dei criteri della riforma delle circoscrizioni giudiziarie e di conseguenza delle università, operata da Giuseppe Bonaparte, fu proprio quello di evitare che i territori fossero attraversati da fiumi, che non era possibile guadare per gran parte dell’anno.
La pianta allegata, proveniente dal Fondo Intendenza francese dell’Archivio di Stato, già da me pubblicata proprio nell’articolo sul bicentenario della riforma amministrativa e sulle ripercussioni per il nostro territorio (Rivista Madonna dello Splendore 2006), in particolare riportata anche nella copertina de La battaglia del riso di Giacomo De Iuliis, del 2014, illustra esaurientemente la dichiarazione giurata riportata. Disegnata da Carlo Forti, era allegata alla richiesta del 1807 di costruzione di un mulino da parte di Biagio De Bartolomei, notabile giuliese affittuario del beneficio di S. Salvatore a Bozzino. Si vedono i mulini sul lato nord del Tordino e il canale delle risiere che portava parte delle acque del fiume, costeggiando il percorso su cui dopo qualche anno verrà realizzata la consolare, fino al Borsacchio, in modo da poter allagare il territorio adiacente per la coltivazione del riso. Si vede anche l’antico percorso che da Cologna portava al Tordino all’altezza della masseria Muzi, abitualmente usato per raggiungere Giulianova.
*Funzionario Archivista
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Giulianova.1732, il debito degli Acquaviva d’Aragona.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 54.
di Sandro Galantini*
Il grano, prima della maggiore diffusione a metà Settecento del granoturco, per secoli era stato un
bene di scambio, equiparato alla moneta. Era infatti consuetudine convertire il frumento in denaro,
naturalmente avendo riguardo al peso, oppure ricorrervi per gli atti di acquisto o i pagamenti di
debiti.
Non a caso questo fondamentale bene di consumo era servito a Giulio Antonio Acquaviva per la
costruzione nel 1470 della Giulianova rinascimentale. Ed al grano, di cui proprio gli Acquaviva
erano tra i maggiori detentori in Abruzzo, avrebbe fatto ricorso un suo discendente nato a
Giulianova il 24 gennaio 1695 e passato alla storia come uno dei più ricchi e potenti cardinali di Santa Romana Chiesa:
Troiano Acquaviva d’Aragona.
Sceso in campo, non potendolo fare il fratello duca Domenico, per saldare la quota residua di un
vecchio debito contratto dal defunto suo padre Gian Girolamo con il nobile fermano Giovanni
Trevisani, il 27 settembre 1732 Troiano, di qui a un paio di mesi creato cardinale da papa Clemente
XII, stringeva un accordo per atti del notaio Pavulotti con gli eredi del creditore, nell’ordine Anna Caterina Benedetti, vedova di Giovanni Trevisani, e i patrizi del Porto di Fermo (oggi Porto San
Giorgio) Antonio Nicola, Giovanni, Giacomo e Francesco Saverio Maggiori, quest’ultimo abate e dimorante a Roma presso lo stesso Troiano.
A seguito dell’intesa che gli aveva concesso la reteizzazione degli oltre 9mila ducati da versare e la
riduzione delle somme lievitate per interessi, nel 1739 Troiano saldava per intero la parte rimanente
del debito mediante la consegna di poco più di 10.066 tomoli di grano “estratti”, cioè prelevati ed
imbarcati, dal feudo di Giulianova.
Le relative operazioni, tutte effettuate con la consegna dal «lido del mare di Giulia» a Francesco Michetti, «Maestro di Casa» dei Maggiori, si erano avute a più riprese. Il 20 e 21 maggio 1739 con il carico di tremila tomoli di grano sulle barche dei paroni Giuseppe Pompei e Antonio Marotti del Porto di Fermo. Quindi il 15, 18 e 19 giugno seguenti utilizzando le solite barche di Pompei e Marotti con l’aggiunta di quella di Domenico Vecchiola, pure originario del Porto di Fermo.
Infine il 6, l’8 e 9 agosto con
il carico dei residui 2.711 tomoli ancora una volta sulle barche di Pompei e Marotti.
*Storico e Giornalista



Giulianova. Le campane del Santuario della Madonna dello Splendore

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 53.
di Sandro Galantini*
Il 16 agosto 1924 l’ingegnere Ernesto Pelagalli veniva incaricato dal commissario prefettizio Ermanno Colucci di recarsi al santuario dello Splendore per un sopralluogo alla torre campanaria. Suo compito quello di verificare la solidità e le condizioni della struttura in relazione alla collocazione delle quattro nuove campane che i Cappuccini, grazie ai fondi raccolti con l’aiuto del Terz’Ordine francescano, erano riusciti a realizzare in occasione delle imminenti celebrazioni per il decennale dell’incoronazione della Vergine dello Splendore.
Si trattava infatti di campane di peso rilevante, per un totale di 10 quintali. La maggiore, dedicata alla Regina della Pace e fusa con bronzo di guerra, da sola pesava 6 quintali.
Il 21 agosto seguente giungeva il nulla osta da parte del Comune avendo verificato il Pelagalli la massima affidabilità del campanile e il rispetto delle condizioni di sicurezza garantite dallo speciale sistema di inceppamento e dalla inchiavardatura con quattro chiavi in ferro a tenditore.
Per cui il 24 agosto 1924, a rendere memorabile il decennale, era anche la collocazione delle quattro campane previamente benedette dal vescovo di Teramo Settimio Quadraroli nell’occasione affiancato da padre Luigi Rauco da Leonessa, definitore dei Cappuccini.
Trentasette anni dopo, sempre in estate, quelle campane venivano sostituite.
Il 2 agosto 1961, nel giorno del Perdono d’Assisi, il vescovo di Teramo Stanislao Amilcare Battistelli, avendo al suo fianco i padrini Giovanni Nocera, Gilda Migliori, Domenico ed Elvira Lattanzi, procedeva alla solenne benedizione delle nuove campane fuse dalla Pontificia Fonderia Marinelli di Agnone che in tono, peso e diametro erano conformi al Corista internazionale con le note Fa-La-Do-Mi. La maggiore, dedicata alla Madonna dello Splendore, recava l’iscrizione in latino ALMA SPLENDORIS BONA MATER, HIC QUAM JULIA AUGUSTO NOVA TEMPLO HONORAT, QUANDO CAMPANAE SONITUS PER ORAS FERTUR ET AURAS, SUPPLICUM MOESTOS MISERATA CASUS, OMNIUM NOSTRUM REFOVE LABORES: FACQUE UT AD TUTUM REDEANT VAGANTES PACIS OVILE {O buona e Santa Madre dello Splendore che qui Giulianova onora con un augusto Tempio, quando il suono della Campana si spande per l’aria, per le terre e per i mari, Tu che hai sempre avuto misericordia delle meste vicende dei Tuoi devoti, addolcisci le fatiche di tutti noi e fa’ che gli erranti tornino al sicuro ovile di pace}.
*Storico e Giornalista



Giulianova. Dal “Monte” al Belvedere

DAL “MONTE” AL BELVEDERE
di Ottavio Di Stanislao*
La sistemazione del “Monte”, come allora veniva chiamato, a piazza del Belvedere comportò moltissimi anni. Fin da 1838, vista la penuria di risorse finanziarie da parte del comune, diversi proprietari avevano preso l’iniziativa di una sottoscrizione volontaria per la “formazione e livellazione della piazza innanzi la Porta da Piedi e per il riempimento del burrone che guarda a sinistra di detta porta, verso il mare”. L’intendente apprezzò vivamente l’iniziativa e contribuì alla sottoscrizione offrendo 10 ducati. Una esigenza di decoro urbano, di qualificazione degli spazi pubblici, era presente fin dagli anni quaranta, quando, il decurionato sanzionò come “inconcedibile” il pomerio esterno perché si voleva creare un’ampia strada che circondasse la città con ai margini un percorso pedonale alberato “per comode passeggiate”, e per il lato meridionale era già presente l’intento della realizzazione di un belvedere verso il mare. Nel lato sud delle mura una delibera decurionale del 1846 aveva indotto Riccardo Cerulli a ritenere che fosse stata aperta una porta a fianco della chiesa ancora dedicata a S. Francesco. In realtà solo nel 1876 il consiglio deliberò l’abbattimento della sacrestia della chiesa “per avere una comunicazione diretta e regolare tra il centro del paese e la piazza belvedere”, come suggeriva Gaetano de Bartolomei. Il varco fu realizzato, ma senza la demolizione della sacrestia, come si vede dalla planimetria del 1882. Per questo intervento bisognerà attendere un altro decennio. Quando si deliberò la livellazione della piazza, nel 1873, si pose anche il problema del cadente muro di fronte al comune che comprometteva pesantemente il decoro di tutto il sito che nella mente degli amministratori doveva divenire il luogo più rappresentativo della città. Ancora una volta era stato il consigliere Gaetano De Bartolomei a convincere il consesso che “… non sarebbe punto decoroso dopo livellata la piazza far rimanere quelle macerie crollanti di fronte ad eleganti palazzine che fan corona alla piazza suddetta”. Ed effettivamente il muro fu ricostruito, con ampio portone, come ampiamente documentato da Sandro Galantini (Giulianova fra storia e memoria). Sempre l’ingegner De Bartolomei chiese ed ottenne la concessione di un tratto di muro “tra il palazzo del sig. Trifoni Biagio e il nuovo muro comunale sul lato nord della piazza belvedere. Tale cessione ha lo scopo di abbellire quel lato (…) si obbligherebbe costruirvi un porticato”. Le domande di appoggiare le fabbriche alla nuova struttura arrivarono subito e vennero assentite alla condizione di iniziare i lavori entro tre anni attenendosi al progetto del De Bartolomei. La costruzione doveva essere “eseguita in perfetta regola d’arte, la muratura deve essere col rivestimento a buoni mattoni sgravinati ed arrotati ed il prospetto, anche se di più proprietari, deve sempre uniformarsi in tutte le sue parti”. Purtroppo ancora oggi si equivoca chiamando il “Portico De Bartolomei”, “Palazzo De Bartolomei”…
*Funzionario Archivista



Giulianova. I Monti dei Maritaggi giuliesi

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 52.
di Sandro Galantini*
La dote nuziale, prima che la legge del 1975 sulla riforma del diritto di famiglia ne decretasse la fine, per secoli era stata un’usanza mai messa in discussione né dalle famiglie aristocratiche e borghesi, né da quelle delle classi meno abbienti.
A risentirne pesantemente, ipotecando il loro futuro di spose e madri, erano le fanciulle orfane e povere. Per questo non erano mancate persone sensibili che, con generosità, erano intervenute con disposizioni caritatevoli dando vita ai Monti dei maritaggi, istituzioni miranti ad assicurare la dote alle fanciulle più povere.
A farsi promotore di un Monte dei Maritaggi a Giulianova era stato il sacerdote Giovanni Franchi. Il quale, con testamento rogato il 10 gennaio 1809 dal notaio napoletano Giuseppe Vercillo, aveva disposto il conferimento annuale di tre doti a favore delle ragazze povere ed orfane della città per lo spazio di 30 anni, assegnando all’uopo l’interesse di un capitale ammontante a 1.300 ducati.
Ma questo atto di liberalità, approvato con decreto reale del 16 gennaio 1835, aveva incontrato l’opposizione degli eredi dando luogo ad una estenuante disputa giudiziaria. Tanto che ancora nel 1855, nonostante le sentenze sfavorevoli agli opponenti, il Monte dei Maritaggi giuliese era ancora inattivo e comunque nel 1868 veniva soppresso.
Settant’anni dopo, con lo stesso obiettivo, i fratelli Filippo, Giuseppe e Augusto De Santis, ricchi titolari di una impresa leader nel settore del ferro con sede a Giulianova e succursale a Milano, davano vita alla Opera pia intestata ai genitori Michelina e Francesco, quest’ultimo fondatore della ditta e deceduto il 22 agosto 1933 nella casa di via XXIV Maggio 22, nel complesso che ospitava il grande opificio.
Dopo l’atto rogato il 3 febbraio 1938 a Melegnano dal notaio Antonio Cattaneo, il Comune di Giulianova, destinatario del beneficio e sede della fondazione dotalizia, con due delibere adottate il 6 dicembre 1939 approvava lo statuto nominando i componenti del consiglio d’amministrazione: presidente, su designazione riservata al prefetto, il ragionier Andrea Castorani; consiglieri il parroco di San Flaviano don Tito Nespeca, Ada Azzoni, Augusto De Santis e Cesare Ciaffi.
Grazie alla rendita annua di 2mila lire proveniente da due certificati di iscrizione sul Gran Libro del debito pubblico del Regno, ciascuno del capitale nominale di 20.000 lire, la nuova Opera pia garantiva ogni anno quattro doti in denaro ad altrettante fanciulle povere di età compresa tra i 14 e i 30 anni. A patto che fossero nate e domiciliate a Giulianova, che godessero del requisito della buona condotta e che fosse comprovato il loro stato di fragilità economica. Altra condizione era la promessa di fidanzamento o di matrimonio con la richiesta di pubblicazioni. Il pagamento, con somma depositata su libretto postale dell’Opera pia, sarebbe avvenuto dopo la celebrazione delle nozze. L’elargizione veniva meno in caso di condanna della nubenda, per carenza del requisito della buona condotta e per mancato matrimonio entro tre anni.
Con il regio decreto 30 maggio 1940, che al contempo ne approvava lo statuto, l’Opera pia “Michelina e Francesco De Santis” veniva eretta in Ente morale. Ma la guerra, ormai alle porte, ne avrebbe presto fiaccato l’attività.
*Storico e Giornalista



Giulianova. 12 marzo 1940, la lettera anonima al Questore per segnalare una “bisca” clandestina.

Seguendo la staffetta di Sandro Galantini, resto a Giulianova, ma nel 1940. Lettere anonime… (documento conservato presso l’Archivio di Stato di Teramo)
Prof. Elso Simone Serpentini
(Docente e Scrittore)
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Giulianova. 1934, una roulette in città

A PROPOSITO DI GIOCO D’AZZARDO… A GIULIANOVA.
Tentativo (sventato) di impiantare una “roulette” al Kursaal di Giulianova (1934). Mi dispiace che il documento (conservato presso l’Archivio di Stato di Teramo) sia un po’ sfocato.
Elso Simone Serpentini
Storico e Docente
Nessuna descrizione della foto disponibile.



Giulianova. 4 ottobre 1943, quei manifesti carichi di vendetta

di Elso Simone Serpentini*
DOCUMENTI STORICI. 4 ottobre 1943. Il Capitano Comandante della Compagnia Carabinieri di Giulianova, Giuseppe Vannucchi relaziona sul rinvenimento a GIULIANOVA di due manifestini scritti a macchina che portano il titolo “BANDO PER GLI SPECULATORI”, che seguitano con cinismo ad accumulare denaro succhiando il sangue dei lavoratori e degli impiegati. (Documento conservato nell’Archivio di Stato di Teramo)
* Docente e Scrittore
Nessuna descrizione della foto disponibile.
Tu, Luca De Leonardis e altri 2
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