Nicolò Ledwinka e la Regia Scuola Tecnica Industriale di Giulianova

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 19
di Sandro Galantini*
Nicolò Ledwinka, direttore della Scuola tecnica industriale di Giulianova nel 1940, continuava ad esserlo anche nel 1941, anno in cui alla sezione falegnami ed ebanisti veniva aggiunta quella per maestri d’ascia affidata a Gino Menetto, docente di meccanica e macchine marine, fisica, chimica, tecnologia e disegno delle costruzioni navali. Si trattava di una disciplina opportuna per una città a vocazione marinara come Giulianova, e a cui Ledwinka teneva particolarmente. Nato a Zara il 5 dicembre 1899, con il mare Ledwinka aveva infatti avuto sempre un rapporto intenso. Conseguita nella città istriana la maturità tecnica, dopo la guerra si era iscritto ai corsi di ingegneria navale presso l’università di Genova. Nel 1919, allorché la Dalmazia settentrionale veniva assegnata, contro la volontà dell’Italia, al nuovo regno serbo-croato-sloveno, come dirigente zaratino del Gruppo studenti dalmati aveva sottoscritto il manifesto relativo alla grande manifestazione indetta per il 6 maggio di quell’anno a Roma per Spalato italiana, per poi arruolarsi tra i legionari fiumani dove gli era stato assegnato il grado di caporale. Dopo la laurea si era impiegato nel Registro Navale Italiano di cui, rimanendo ispettore, il 5 novembre 1928 veniva nominato agente. E qualche giorno dopo, il 20 novembre, giungeva la nomina a insegnante titolare stabile di tecnologia, meccanica e macchine nella Scuola industriale “P. Bakmaz” della sua Zara, dove sarebbe rimasto per sette anni. Appassionato di costruzioni navali (partecipa nel marzo 1930 al concorso per battelli per pesca meccanica con il progetto di una imbarcazione di 23 metri con motore diesel da 180 cavalli), disegnatore dotato di un certo talento (espone per la prima volta in una manifestazione artistica del ’32), ed iscritto alla società canottieri “Diaspora” di Zara, Ledwinka nel 1933 pubblica il suo primo libro, Remi sull’Adriatico, con prefazione del celebre Filippo Camperio, ammiraglio e fondatore della sezione milanese della Lega Navale di cui sarà presidente.
Nel 1936 lascia Zara per trasferirsi a L’Aquila dove insegna meccanica, macchine e disegno nella Scuola tecnica industriale “T. Patini”, rappresentandola oltretutto al congresso internazionale dell’insegnamento tecnico tenutosi a Roma.
Nel 1937 c’è il salto di qualità con la nomina di direttore a Corridonia, dove rimane sino al 1939. Ed è proprio durante il suo periodo marchigiano che Ledwinka, nel frattempo iscrittosi al Regio Yacht Club Italiano in quanto proprietario di un panfilo di 2 tonnellate armato a Lussingrado, incontra, innamorandosene, una giovane civitanovese, Alda Pagnanini, laureanda all’università di Urbino e supplente di italiano, storia, geografia e cultura fascista alla Scuola secondaria di avviamento professionale della sua città. I due, dopo un breve fidanzamento, si sposano divenendo genitori proprio nel 1940, l’anno in cui entrambi vengono a Giulianova.
E dopo? Al termine della 2^ guerra mondiale Ledwinka (che aggiungerà al cognome il termine Liburnico) è uno dei tanti istriani senza più patria, rimasto fedele alle sue radici. Sicché non sorprende la sua presenza, il 22 maggio 1949 a La Spezia, alla commovente cerimonia della benedizione della bandiera dell’Istria. Tornato all’insegnamento, coltivando la saggistica e l’arte (nel 1955 pubblica il volume Le ali dell’Egeo e cinque anni dopo allestisce a Napoli una sua mostra), è tra i relatori a Roma, dove ha fissato intanto la sua residenza, al 2° Convegno nazionale sui problemi della scuola italiana. Terminata la sua attività di impegnato docente, per la quale viene insignito del titolo di Cavaliere ed Ufficiale al merito della Repubblica, Nicolò Ledwinka si trasferisce a Torre Annunziata operando come libero professionista. Consigliere, dal 1963, del Libero Comune di Zara in esilio, membro della Società Dalmata di Storia Patria, oltre ad alcuni saggi d’indole storica sulla “Rivista Dalmatica” Ledwinka nel 1967 firma il suo terzo libro: Dav il saracino. Un brano di storia dimenticata di Napoli. Sarà, quella, la sua ultima pubblicazione. Di qui a pochi anni Nicolò Ledwinka chiuderà le sue palpebre definitivamente.



Giulianova. La storia della Scuola Industriale “Raffaello Pagliaccetti”

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 18.
di Sandro Galantini*
Sin dalla sua istituzione, avvenuta con Regio decreto del 4 gennaio 1914, la Scuola industriale “R. Pagliaccetti” aveva avuto con l’umbro Giorgio Diamantini un ottimo direttore. Nel 1940, divenuta Scuola tecnica a indirizzo industriale e artigiano con annessa la scuola secondaria di avviamento professionale, disponeva di una sezione falegnami ed ebanisti. Nella “Pagliaccetti” si svolgevano inoltre corsi serali premilitari per radiotelegrafisti dell’esercito e per carpentieri. 63 in totale gli alunni: 25 della scuola tecnica, 38 quelli dei corsi aggiunti. Il farmacista Giulio D’Alessandro presiedeva il consiglio d’amministrazione mentre il corpo docente era composto da Alda Pagnanini (cultura generale), Luigi Branciaroli (matematica, fisica, chimica, elettrotecnica), Orfeo Simoncini (tecnologia e disegno professionale), Tito Marucci (cultura militare), Giulio Nenna (educazione fisica) e don Raffaele Baldassarri, parroco del Lido (religione). L’organigramma annoverava inoltre la ragioniera Raffaella Trifoni, dal 16 aprile 1933 passata da vicesegretaria a segretaria, e il capo officina Giovanni Ferri. Rimane da dire del direttore. Questi era il marito della Pagnanini, l’ingegner Nicolò Ledwinka, nato a Zara nel 1899 e sino all’anno prima direttore della Scuola tecnica industriale “F. Corridoni” di Corridonia, in provincia di Macerata, da cui era stato trasferito appunto a Giulianova forse a causa di un “incidente”. Pare infatti che il 21 aprile del 1939, giorno riservato alle celebrazioni del “natale di Roma”, alcuni studenti della Scuola industriale di Corridonia avessero approfittato della bella giornata di sole per giocare a pallone.
La cosa non fu gradita dal segretario della scuola, che fece accompagnare i ragazzi alla casa del fascio dove vennero schiaffeggiati.
Il direttore Ledwinka, venuto a conoscenza dei fatti, la mattina dopo trasformò in una sorta di ring la segreteria. Ne seguì una sfida a duello tra direttore e segretario fascista. La questione ebbe una tale risonanza da arrivare a Roma. Ed è forse a seguito di quell’episodio che si doveva il traferimento a Giulianova di Ledwinka, una figura estremamente interessante di cui si parlerà diffusamente nella prossima puntata.
* Storico e Giornalista
Tu, Elso Simone Serpentini, Adriana Viglione e altri 74
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Giulianova. L’ospitalità di Carlo Acquaviva d’Aragona nella sua villa detta “La Montagnola”.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI -17.
di Sandro Galantini*
* Storico e Giornalista



Giulianova. 1777, il debito del giuliese Vincenzo Tappatà e le due “paranze”.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 16
Sandro Galantini*
Mare pericolosissimo l’Adriatico nel ‘700. Numerose, infatti, erano ancora le incursioni turche e barbaresche. E poi, come diceva Melchiorre Delfico nel 1784, il litorale aveva poco fondo. Per cui, a causa anche dei divieti per impedire il contrabbando, Delfico diceva che in tutto il litorale abruzzese fossero poche le barche da pesca «in Ortona, Giulia Nova, in S. Vito, in Pescara». E coloro che le possedevano, spesso le vendevano per lo più a marchigiani. Oppure le ipotecavano. Lo fece il 29 settembre 1777 il giuliese Vincenzo Tappatà per due sue paranze a favore di Pietro Amato Palestini, di San Benedetto del Tronto, su un corrispettivo di 200 ducati. La decisione si doveva ad un debito, per somma equivalente, che il giuliese aveva contratto ma mai saldato. Per cui con
«mandato reale e personale
della Regal Corte di Napoli» spedito ad istanza del Cassiere di Giulianova, l’insolvente Tappatà era stato imprigionato nelle «Reggie
Carceri di Teramo». A quel punto era intervenuto il Palestini “prestando” l’aiuto
finanziario per saldare il debito, dietro la stipula di puntuali «patti
e convenzioni da rispettarsi senza eccezione alcuna». Per tornare in libertà, il giuliese era stato quindi costretto
a ipotecare le “parti” a lui spettanti sopra un paio di paranze,
padroneggiate da paron Domenico Pilati di San Benedetto. Il tutto veniva perfezionato con una procura rilasciata a Giuseppe
Tanai.
Davanti al notaio Filippo Merlini, nella casa sanbenedettese di Palestini (con lui ovviamente presente), si erano dunque presentati Tanai e la
moglie di Tappatà, Donna Benedetta. Alla quale venivano consegnati
i 200 ducati «a rischio, pericolo e fortuna» del marito per saldare
il debito.
E affinché Palestini non dovesse «tenere ozioso il suo denaro, e correr rischio e pericolo della disgrazia, che Dio non voglia, delle Paranze e soccombere all’incontro, al peso dell’amministrazione di esse
senza onesto utile», Tanai, in virtù delle piene facoltà concessegli dal
mandato di procura, cedeva a Palestini le “parti” delle paranze spettanti a Tappatà, «in conformità dello stile che già si usa e non altrimenti», e costituendolo legittimo «Amministratore».
Infine Tanai prometteva e si obbligava, a nome di Tappatà, «di far
pescare le dette paranze in questo Stato Pontificio fin all’intiera
sodisfazione del credito di esso Palestini, e che tutti li danni, spese
ed interessi, che possono incedere a dette paranze debbono cader
sempre a danno di esso Tappatà, perché così per patto».
*Storico e Giornalista



Giulianova. 1866, Isacchi: “i giuliesi sono persone bigotte, disoneste e misere”.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 15.
di Sandro Galantini*
I colportori, venditori ambulanti di Bibbie, libri e opuscoli evangelici, rivestirono un ruolo fondamentale nella diffusione delle denominazioni protestanti in Italia, percorrendo la penisola e preparando il terreno ai pastori ed evangelisti che avrebbero stabilito le nuove comunità. Nel settembre 1866 uno di essi, tal Isacchi, operò nella provincia di Teramo fornendo il quadro della situazione a Thomas Humble Bruce che sei anni prima era stato nominato agente della Società Biblica Britannica e Forestiera, il primo per tutto il nuovo Regno d’Italia.
Il contesto era molto difficile: forte, infatti, era la contestazione da parte dalla Chiesa cattolica che vedeva nella possibilità del contatto diretto con le sacre scritture un riemergere delle istanze della Riforma protestante.
A Giulianova Isacchi incontrò evidentemente una diffusa ostilità giacché annota: «le persone sono bigotte, disoneste e misere». Diverso invece è il contesto a Teramo, città nella quale vende molte bibbie e dove viene trattato con rispetto. Addirittura un ufficiale, avvicinatosi al suo banco e intrattenutosi a conversare, «espresse forte passione per il Gospel e disse che avrebbe raccomandato a tutti i suoi soldati di avvalersi dell’opportunità offerta di acquistare il Nuovo Testamento ad un prezzo così conveniente».
A Civitella del Tronto, invece, il 1 settembre accadde l’episodio più spiacevole. Il comandante della locale guarnigione della Guardia Nazionale aveva acquistato una Bibbia ma dopo due ore chiese di riprenderla indietro «perché il prete gli aveva detto che il libro era stato scomunicato». Poco dopo fece di nuovo ritorno e, «in preda alla disperazione», prese la Bibbia «e la ridusse in mille pezzi». Stessa sorte, riferii Isacchi, era toccata alle cinque Bibbie e agli otto Nuovi Testamenti che era riusciuto a vendere a Civitella. Tutti libri, scrisse con dispiacere, «distrutti dal prete».
A seguito di questo episodio Isacchi si recò dal prefetto di Teramo, l’emiliano Benedetto Maramotti, il quale dopo aver trasmesso un invito a comparire al prete e al comandante della Guardia Nazionale per garantire il rimborso della Bibbia distrutta, consegnò al colportore una lettera di raccomandazione per tutti i Delegati di PS della provincia ingiungendo di fornire a Isacchi «assistenza e protezione».
*Ringrazio Barbara Di Gioacchino per la traduzione dall’inglese della relazione, sinora mai pubblicata.
*Storico e Giornalista



Giulianova. 1904, l’eroico salvataggio di Paolo Carlier alla stazione ferroviaria.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 14.
di Sandro Galantini *
È la mattina del 6 settembre 1904 e nella stazione di Giulianova, sul primo binario, è in partenza il treno per Ancona. Mentre il convoglio è già in movimento, Antonio Barone, contadino di Bisenti, tenta comunque di salire. Tuttavia la grossa bisaccia che ha sulle spalle gli intralcia i movimenti: incespica, sta quasi per cadere e riesce ad aggrapparsi al volo alla ringhiera della vettura situata al centro del convoglio. Sospeso tra due vagoni, viene quindi trascinato dal treno che sta acquistando velocità. Ad assistere a quella che si profila come una imminente tragedia è Paolo Carlier, capostazione di Giulianova. 43 anni, settentrionale, ottimo funzionario della Società Strade Ferrate Meridionali che gestiva allora la rete, Carlier era un uomo assai risoluto. L’anno prima, nel corso di un alterco, aveva denunciato senza indugio per oltraggio Attilio Buoni e suo fratello, commercianti giuliesi in “ferrarecce”. È un attimo: Carlier corre e afferra Barone per le spalle ma il bisentino continua a rimanere aggrappato al vagone sicché il capostazione viene trascinato per parecchi metri dal treno che ormai ha preso velocità. Sin quando, con un vigoroso strattone, Carlier riesce a far staccare l’incauto contadino ruzzolando per terra. Malconci ma salvi. Un gesto di grande coraggio, quello di Carlier, a cui il ministro dell’Interno conferirà il 14 maggio 1905, quando era capostazione a Teramo, l’attestato di pubblica benemerenza. Di qui a qualche anno Paolo Carlier, funzionario non più delle Meridionali ma delle Ferrovie dello Stato, gruppo nato il 1 luglio 1905 a seguito della statalizzazione delle linee ferroviarie italiane, sarebbe stato capostazione prima a Fiorenzuola d’Arda e poi a Seregno.
* Storico e Giornalista



Giulianova. I “Giulianovesi” e la rielezione di Carlo Acquaviva d’Aragona, conte di Castellana

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 13.

Di Sandro Galantini*

Carlo Acquaviva d’Aragona, conte di Castellana (titolo che amava ostentare benché spettasse al fratello primogenito Luigi, duca d’Atri), si ricandido’ come deputato di Giulianova alle elezioni politiche del 1865. Svoltesi il 22 ottobre, quando la capitale del Regno era stata da poco spostata da Torino a Firenze, egli raccolse 143 voti. Più rispetto ai concorrenti Nicola Pompizi (123 voti) e Domenico Savini (44), ma non sufficienti secondo la legge per venire eletto. Per cui il 29 ottobre seguente si fece luogo al ballottaggio. E in quell’occasione, con 379 votanti recatisi alle urne, Carlo Acquaviva vinse di misura: 199 i voti ottenuti rispetto ai 176 dell’avversario Pompizi. I risultati del ballottaggio, nonostante qualche voto annullato e un problema poi risolto riguardante la consegna per posta e non personale del verbale da parte del presidente di una sezione, vennero validati dal Parlamento nella tornata del 28 novembre. Da quel giorno, il conte di Castellana diveniva ad ogni effetto, e per la seconda volta, deputato del collegio di Giulianova nella IX legislatura per la Destra. «I Giulianovesi lo elessero perché la famiglia dei duchi d’Atri è la prima nella provincia, e difficilmente avrebbero trovato in paese un uomo migliore di lui». A scriverlo, nel suo “I 450 Deputati del presente e i Deputati dell’avvenire”, volume d’intonazione satirica pubblicato proprio alla fine del 1865, era Cletto Righi, pseudonimo anagrammato del milanese Carlo Righetti. Scrittore prolifico, giornalista di vaglia ma intemperante e anche politico seppur per breve tempo (deputato radicale nel 1867, si dimise qualche mese dopo l’elezione per le antipatie derivanti dal suo atteggiamento scontroso e a causa di uno scandalo), Carlo Righetti fu tra i massimi esponenti della Scapigliatura, che aveva preso nome dal suo romanzo più noto edito nel 1862 (La scapigliatura e il 6 febbraio).
Parlando ancora del riconfermato deputato, Righetti scriveva: «L’onorevole Acquaviva si fece benemerito nella sua città anche nella recente paura dell’invasione del colera. Provvide, istruì, persuase, cercò di scemare i danni dei pregiudizii e delle superstizioni». Ma accanto alla carezza, lo schiaffo. Ritenuto troppo ossequioso al principio d’autorità, l’Acquaviva inoltre – scriveva in conclusione – «non sappiamo che abbia fatta udire la sua voce nella passata legislatura e potremmo metter pegno che non la farà udire mai neppure nella presente». Insomma, un nullafacente. Non era vero. Almeno non completamente. In ogni caso Carlo Acquaviva, perso il seggio nel 1876, sarebbe stato poi nominato senatore nel 1890, due anni prima della morte. Carlo Righetti invece, caduto in miseria per la sua vita dissoluta, e dopo aver rinnegato nel 1902 tutto ciò che di anticristiano era presente nelle sue opere, avrebbe concluso i suoi giorni terreni, isolato e povero, il 3 novembre 1906 a Milano.

*Storico e Giornalista

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Giulianova. Il “Doppio Arancio” della famiglia “Orsini”

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 12.

di Sandro Galantini*

I liquori della Ditta Orsini di Giulianova erano noti ed apprezzati ovunque. Sin da quando Erminio, figlio del barbiere pescarese Gennaro e di Teresa Quaglietta, dal 1848 gestiva un frequentato caffè sul Corso e nel retrobottega, utilizzando cortecce di arance e varie ‘droghe’, aveva ottenuto un liquore finissimo e di gradevole aroma: il Doppio arancio. Quel distillato era il principale ma non l’unico tra i liquori prodotti poi dal suo Stabilimento ubicato al pianterreno del palazzo omonimo nei pressi del Belvedere, innalzato nei primi anni settanta dell’Ottocento. Certamente però il Doppio arancio avrebbe fatto lungamente echeggiare, in Italia e fuori, il nome della ditta giuliese, fruttando numerosi riconoscimenti. Medaglia di bronzo a Chieti nel 1880; nel 1884 oro nella mostra di Napoli e bronzo a Torino; diplomi d’onore nelle mostre di Anversa del 1885 e di Parigi del 1886; medaglia d’argento a Teramo nel 1888 e di bronzo a Roma nello stesso anno. Ma per Giulio e Tiberio Orsini, figli dell’ormai defunto Erminio, il riconoscimento più ambito era giunto nel 1889, con il brevetto che consentiva alla casa giuliese il privilegio di potersi fregiare del simbolo araldico dei Savoia in quanto fornitori della Real Casa. Sicché non sorprende che, dopo i successi raccolti nella Fiera Colombiana di Chicago del 1893 e nell’Esposizione Universale di St. Louis del 1903, il Doppio arancio fosse stato scelto insieme con il Corfinio Barattucci per l’elitario pranzo (appena 48 coperti) imbandito nella Prefettura di Chieti da Cesarino Lizza il 12 giugno 1905, in occasione della venuta di re Vittorio Emanuele III con la consorte Elena di Montenegro. Riferiva il periodico locale “Lo Svegliarino” di una tavola raffinatissima, con un favoloso servizio in argento (posate, vassoi, zuppiere, insalatiere), e di un ricco menù. Il banchetto regale, «servito splendidamente», durò oltre un’ora mentre una folla immensa «aspettava sotto il palazzo della Prefettura che i Sovrani si ripresentassero di nuovo alla loro ammirazione».

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Giulianova. Calcio: 1938, il derby con il Teramo e l’ordine pubblico.

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 11.

di Sandro Galantini*

Nel 1937 la società calcistica Castrum-Giulianova, che proprio in quell’anno aveva visto sistemare ed ampliare lo stadio cittadino grazie ad interventi per 30.000 lire disposti dal podestà Alfonso De Santis, si era iscritta al Campionato nazionale di 1^ divisione Abruzzo-Marche-Dalmazia 1937-1938. Otto erano le squadre partecipanti tra le quali, per l’Abruzzo, oltre a quella giuliese, il Pescara e l’Interamnia-Teramo.
Proprio con i “cugini” del Teramo era stato fissato per le ore 14.30 del 23 gennaio 1938, nella sesta giornata di campionato, l’atteso derby. E che la partita potesse costituire problemi di ordine pubblico, a causa dell’accesa rivalità già allora esistente tra le due tifoserie, lo dimostrano i documenti d’archivio. Le disposizioni impartite il 21 gennaio precedente dal reggente la Questura di Teramo sono assai indicative. Per scongiurare possibili scontri, considerato appunto il «grande antagonismo che regna fra le due squadre e tenuto presente che moltissimi sportivi di Giulianova si recheranno a Teramo per assistere alla partita», la Questura disponeva il rafforzamento del dispositivo per l’ordine pubblico con 20 carabinieri, 10 agenti di PS e altrettante guardie municipali a disposizione del funzionario di Polizia. La partita, arbitrata dall’anconetano Leone, andò male per i giuliesi, che persero per 1 a 0 con goal di Berti al 25′. Per la cronaca il Castrum aveva schierato Novelli, Mancinelli, Farinelli, Di Teodoro, Dicovi, Paolini, Setti, Morselli, Bottaro, Marini e Di Berardino.
Proprio a causa del risultato, anche per l’amichevole tra le due squadre che doveva tenersi al Comunale di Teramo il 23 marzo seguente, la Questura dispose lo stesso contingente di uomini per il servizio d’ordine pubblico. In quel caso però la partita si chiuse con un pareggio (1-1), con goal di Crescini su rigore e l’altro di Di Teodoro pure su rigore.

(Testi e immagini da: Il calcio a Giulianova dalle origini al 1960. Storia Eventi Personaggi, a cura di Sandro Galantini. Testi di Cesare Marcello Conte, Walter De Berardinis, Sandro Galantini, Pescara, Paolo De Siena Editore, 2004).

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Giulianova. Dalla cittadina giuliese l’idea del contenimento della caccia

GIULIANOVA. FRAMMENTI DI STORIA DAGLI ARCHIVI – 10.

di Sandro Galantini*

8 febbraio 1892. In quel giorno da Giulianova partiva una proposta mirante ad aumentare il costo della licenza di caccia per favorire il ripopolamento dei «graziosi selvatici». La missiva, che seguiva la richiesta avanzata da alcuni cacciatori di Como di abolire le reti, veniva pubblicata su “Caccia e tiri”, periodico milanese su caccia con cani, armi e tiro a volo ideato nel 1886 dal marchese Ferdinando Delor de Ferrabouc, tra le maggiori figure della cinofilia nel nostro Paese nonché fondatore l’anno prima del Kennel Club Italiano di cui la rivista era l’organo ufficiale. La proposta di provenienza giuliese si inseriva in un articolato dibattito che coinvolgeva allora le numerosissime associazioni venatorie in vista del loro secondo congresso nazionale che si sarebbe tenuto a Genova nell’ottobre di quell’anno. Chi erano i firmatari della proposta partita da Giulianova? Si trattava di appassionati tiratori per gran parte espressione delle classi agiate. Lo erano certamente i Trifoni: Serafino, ricco bachicoltore vincitore nel 1888 della medaglia d’oro a Teramo per l’allevamento bovino e insignito all’Aquila della menzione d’onore per cereali e formaggio. Suo nipote Giustino, nonché Domenico, prozio di Serafino, dovizioso proprietario terriero e nel 1881 sindaco facente funzioni di Giulianova con il figlio di questi Bonaventura. Serafino e Domenico Trifoni, va aggiunto, nelle gare di tiro al piccione organizzate a Giulianova nel novembre 1888 si erano piazzati rispettivamente al 2° e al 3 °posto. Noti erano anche Nicola De Dominicis, segretario comunale di Tortoreto e figlio di Livio, già decurione borbonico a Giulianova, nonché i teramani Leopoldo Paris, ispettore di Dogana a Giulianova, e Gaetano Pirocchi, tra i fondatori della banca mutua popolare e più volte assessore nel capoluogo aprutino. C’erano poi Apollo Caravelli, assessore comunale, Cesare e Giulio Di Michele, Ferdinando Falini, Giovanni Brodolini, Divinangelo Zanni, Giuseppe Pedicone e Francesco Rossi. Un gruppo di appassionati chi più chi meno in rapporto con la Società di tiro nazionale e il Club provinciale cacciatori di Teramo: la prima nata nel 1866 (benché fondata ufficialmente nell’aprile 1890 con presidente Attilio Corti) e il secondo esistente dal marzo 1888 sotto la presidenza di Troiano De Filippis Delfico. Di qui a non molto, nel giugno 1901, a Giulianova sarebbe sorta per volontà di Giulio Federici l’associazione Sport Ciclisti e Cacciatori. Alfonso Trifoni, Giulio Di Michele, Francesco Pedicone e Giovanni Albani come consiglieri; Cesare Marà, Bartolomeo Cichetti e Luigi Crocetti nel ruolo di controllori.

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