Cose italiane: un misterioso “albero delle streghe” a Giulianova. Di Dom Serafini

Franco Nazionale

Nel centro di Giulianova, c’é un albero sul lato ovest del marciapiede di via Trieste, che sembra bruciacchiato, in mezzo a tanti alberi verdi. Alcuni residenti lo chiamano “l’albero delle streghe”, altri “l’albero di halloween”, come visibile nella foto.

Resta il fatto che a volte all’alba l’albero diventi un ritrovo per le cornacchie nere dal rumoroso e stridente gracchiare (uccello noto appunto nelle leggende popolari come il “messaggero delle streghe”), prima di partire alla ricerca di cibo.

            L’albero é morto da oltre due anni e poco dopo ha assunto un aspetto funesto: tutto nero con il tronco sbucciato e annerito. Nessuno nel vicinato sa come si sia ridotto in quello stato, ma non é possibile per adesso rimuoverlo perché, a detta di un residente, é “sotto inchiesta dal Comune”, forse appunto per verificarne il motivo della morte. Resta comunque il fatto che l’albero rappresenta un pericolo per i passanti.

            Per rimuovere qualsiasi albero serve sempre l’autorizzazione del Comune; per abbattere un albero in uno spazio privato a Giulianova (tutto a spese del privato) é necessario un permesso rilasciato dal Comune dopo una perizia eseguita da un tecnico agronomo la cui parcella puó variare dai 150 ai 350 euro. Per approvare la motivazione per la rimozione (che di solito riguarda alberi pericolanti) il Comune impiega fino a 30 giorni, dopodiché viene dato il via libero ad un’impresa che si occupa dell’abbattimento, con costi che arrivano oltre i 700 euro.

            Per gli alberi situati in luoghi pubblici, pericolanti o che presentano un pericolo per il pubblico, le spese di rimozione sono a carico del Comune, il quale non é celere in questi tipi di interventi, specialmente quando si pensa ci sia di mezzo qualche azione dolosa. Infatti, alcuni residenti pensano che l’albero delle streghe sia stato bruciato da qualcuno, altri pensano che sia stato semplicemente il sole bollente delle estati giuliesi. Non si é sicuri nemmeno su che tipo di pianta si tratti, ma un rappresentante del Comune sospetta che l’albero “sia stato avvelenato” ed é il motivo per cui é sotto inchiesta.

            Dopo che la notizia é finita su “AmericaOggi”, il quotidiano italiano negli Usa, Franco Nazionale, il proprietario della casa davanti “all’albero delle streghe” si é fatto fotografare davanti all’albero con l’articolo ingrandito.




Giulianova. Arts Academy presenta il nuovo libro del professor Elso Simone Serpentini “La morte nel bicchiere” edito da Artemia Nova Editrice. 

Domani, 4 agosto alle 21,00 presso il bar La Cupola, nella splendida cornice di piazza Buozzi a Giulianova alta, l’Arts Academy presenterà il nuovo libro del professor Elso Simone Serpentini “La morte nel bicchiere” edito da Artemia Nova Editrice.

Il libro espone i fatti del processo Montini del 1967 in seguito alla morte per avvelenamento della signora Santa Campanaro, moglie dell’accusato, fatto avvenuto proprio a Giulianova.
Invitiamo chi interessato ad assistere alla presentazione.

Lo spazio all’aperto consentirà il rispetto delle distanze di sicurezza.

Arts Academy Giulianova




Giulianova. Cena sul caliscendi con menu “tutto non comprato”, di Dom Serafini

Nella foto, in senso orario: Luigi Fidani, Alberto Di Giovanni, Dante
Iampieri, Dom Serafini e Carlo Tribuiani

 

I “caliscendi” sono nove e sparsi lungo il chilometro (circa) del Molo Sud del porto di Giulianova. Sono lí dai primi del 900, da quando fu costruito il porto peschereccio: uno dei tre in Abruzzo, oltre a Pescara e Ortona. Nella zona di Ortona, i caliscendi si chiamano “trabocchi”, e sono costruzioni in legno molto grandi che partono dalla riva del mare ed ospitano interi ristoranti.

I “caliscendi” utilizzano lo stesso sistema di pesca dei trabocchi (cioé una rete che si abbassa sul mare), ma sono piccoli casotti ancorati sui massi che costeggiano il molo. Per i “caliscendari” purtroppo la pesca non é piu’ quella di una volta, “il pesce é scomparso dalle nostre reti”, raccontano all’unisono, “oggi ogni tanto si pescano i polipi, che peró si sono mangiati i piú ambiti granchi”.

Il nome ufficiale dei caliscendi, tipicamente giuliese, é una parola ridondante che significa “bilancia”. Attualmente é prevista la costruzione di altri 10, seppur tutti siano ora in pericolo di estinzione per via di alcuni lavori di manutenzione al porto di Giulianova. Una direttiva dell’amministrazione regionale (molto dibattuta, se non addirittura inutile e dannosa) prevede infatti la loro demolizione, invece che predisporre lavori adeguati attorno alle strutture dei caliscendi per poterli preservare.

Da quando il Molo Nord si é ampliato per ospitare piú pescherecci e barche da diporto, con conseguente aumento del traffico mercantile, il Molo Sud é diventato un’ “oasi” per lunghe passeggiate, giri in bicicletta e… cene tra amici nei caliscendi, spesso con un menu a base di prodotti rigorosamente “non comprati”, che é un modo giuliese di dire ” fatto in casa a chilometro zero”. I nostri ospiti ci hanno preparato una cena a base di antipasto di alici, insalata di polipo e patate con contorno di pomodori, e fettuccine all’uovo ai frutti di mare. I vini offerti sono stati prosecco, Trebbiano e Cerasuolo d’Abruzzo. Per dessert tiramisú e crostata di prugne, il tutto servito con amari assortiti, un’ottima crema di limoncello e caffé.

Durante la cena sono passati a salutarci i vicini di caliscendi, Domenico Milone e moglie Francesca Rastelli (di Teramo), la ricercatrice dell’Universitá di Durham, Mikaela Iacobelli, che, assieme al marito Alessio Figalli (matematico Premio Fields a Zurigo) ha salutato il nonno Luigi Fidani, organizzatore della cena, assieme a Carlo Tribuiani, Alberto Di Giovanni e Dante Ianpieri.

 

Nella foto, in senso orario: Luigi Fidani, Alberto Di Giovanni, Dante Ianpieri, questo giornalista, Carlo Tribuiani

 

 

 

 




Giulianova. IL BASTIONE “CASTORANI”

di Ottavio Di Stanislao*

Il bastione di nord-est, oggi inglobato nel palazzo Re, era chiamato “torrione Castorani” perché dato a censo a questa famiglia, che abitava nei pressi, per gran parte dell’Ottocento. Filippo Castorani nel 1816 infatti aveva chiesto la concessione, dietro il pagamento di un canone, sia del torrione, descritto come “… quasi cadente ed abbandonato al solo uso delle immondizie”, sia del sito adiacente per appoggiare il resto della sua casa con le mura del paese. Filippo Castorani era il fratello minore di Andrea, arciprete parroco di S. Flaviano e di Vincenzo, impegnato in diverse attività economiche (fra l’altro fu il primo armatore giuliese). Filippo fu cassiere comunale, sindaco facente funzioni, esattore della fondiaria, ricevitore doganale e procuratore a Giulianova della mensa vescovile. Per la cura e la lealtà dimostrate in questo incarico il vescovo Nanni lo ricordò nel testamento: «In segno poi di mia gratitudine li lascio e dono una coperta da letto di damasco rosso ed un taglio di abito a sua elezione del valore di ducati 30. All’arciprete suo fratello poi lasciò in dono il mio mantello violaceo con cordoncino d’oro».

Palazzo RE

All’età di 16 anni aveva sposato Teresa Ciafardoni di venti anni più grande ma, per il gossip dell’epoca, artefice dell’operazione era il fratello Andrea, accusato dall’intendente in un rapporto al Ministero dell’Interno con queste espressioni: “Seduce egli una signorina per darla in moglie ad un piccolo fratello”.

Filippo Castorani morì nel 1826 a 35 anni lasciando quattro figli: Rachele nata nel 1807, Marianna nata nel 1809, Flaviano nato nel 1813 e Maria Addolorata nata nel 1815. Quest’ultima si coniugò con il medico Tommaso Gaspari di Teramo, mentre agli altri fratelli si deve il lascito che ha dato origine all’omonimo istituto educativo assistenziale. Già Flaviano, morto anche lui prematuramente nel 1849, aveva disposto con atto privato reso pubblico, di lasciare eredi usufruttarie le sorelle, ma alla morte di queste tutti gli averi dovevano andare all’Ospedale S. Rocco. E così disposero Rachele e Marianna per testamento rogato dal notaio Volpi il I marzo 1899.

Le antiche mura di Giulianova

Tornando al torrione, nel 1871 Antonio Re ed i cognati, fratelli Valentini, chiesero in concessione “…un piccolo tratto di suolo pubblico fuori Porta Madonna e precisamente quello adiacente alla circonferenza del torrione Castorani…”. Dieci anni più tardi le sorelle Rachele e Marianna Castorani vendettero il torrione, “ora addetto a stallone”, ad Antonio Re e ai fratelli Valentini, dichiarando di possederlo come facente parte della loro abitazione, insieme ad una porzione “del largo interno scoperto e precisamente quello in confine con le mura del paese”, in modo che gli acquirenti potessero aprire una nuova porta d’accesso al torrione dalla parte del corso. In tal modo si posero le condizioni per costruire attorno al torrione il palazzo Re come lo vediamo oggi.
Secondo chi scrive di questo bastione abbiamo anche una testimonianza artistica dovuta allo scultore Raffaello Pagliaccetti. Infatti il disegno a matita conservato presso il museo civico di Teramo dal titolo “il torrione”, firmato dall’artista, raffigura un tratto di cinta muraria con un bastione in primo piano. Poiché accanto alle mura sono raffigurate tre donne con le conche sulla testa, che evidentemente fanno ritorno al paese dopo aver raccolto l’acqua alla fontana, si può ragionevolmente ipotizzare che queste provengano dalla “fontanella” esistente sul lato est sotto le mura, percorrendo il sentiero che porta al torrione Castorani e quindi alla Porta da Capo.
Nelle foto il disegno di Pagliaccetti e il soffitto a volta ribassata del locale superiore del torrione Castorani, ora inglobato nel Palazzo Re.
 *direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



Giulianova. Quando Cologna spiaggia era di Giulianova

di Ottavio Di Stanislao*

Antica mappa di Cologna spiaggia e Giulianova

Chi non ha mai avuto l’impressione che gli abitanti di Cologna si sentano più “vicini” a Giulianova che a Roseto? Tale sensazione ha un solido fondamento storico in quanto fino al 1806 il villaggio di Cologna, con il territorio fino al Borsacchio, apparteneva all’università di Giulianova. Con l’avvento del governo filo-francese di Giuseppe Bonaparte si introdussero molteplici riforme tra le quali quella delle circoscrizioni giudiziarie e di conseguenza delle università. Uno dei criteri seguiti per riformare le circoscrizioni territoriali fu quello di evitare che queste fossero attraversati da fiumi, che non era possibile guadare per gran parte dell’anno e che costituivano una pesante limitazione per la mobilità, attesa l’assoluta mancanza di ponti che saranno realizzati solamente dopo l’Unità con il passaggio della ferrovia litoranea. Il territorio dell’antica università di Giulianova, attraversato dal fiume Tordino, costituiva quindi una fattispecie tipica da sottoporre a riforma. D’altronde gli inconvenienti erano reali. Ecco una dichiarazione giurata di 24 naturali di Cologna, raccolta in un atto notarile rogato dal notaio Altobrando De Paulis Fedele, nel 1805, conservata fra gli Atti dei notai dell’Archivio di Stato di Teramo. «… asseriscono ch’essendo essi naturali della villa di Cologna e non avendo un mulino al proprio tenimento sono nella necessità di andare a molinare li loro grani ne mulini della Badia di Mosciano, dell’arcipretura di Giulianova e della camera Allodiale che sono siti di la dal fiume Tordino il quale nel corso dell’inverno e della primavera porta l’acqua in quantità in modo tale ch’essi costituiti più volte hanno perduto le farine ed anche qualche animale da soma col rischio anche della propria vita, anzi vari concittadini sono periti in detto fiume in occasione di passaggio per li loro rispettivi affari in Giulianova e in Mosciano; soggiungendo inoltre che in tempo dell’esistenza delle semine de’ risi l’acqua non solo era sufficiente per animazione de’ suddetti mulini di la dal fiume, ma era esuberante ancora per l’irrigamento di più centinaia di tomolate di terreno nel loro tenimento ch’esiste alla parte opposta e nel corso del fiume mai han (sic) mancato acqua anche in tempo di siccità».

La pianta allegata, proveniente dal Fondo Intendenza francese dell’Archivio di Stato, già da me pubblicata proprio nell’articolo sul bicentenario della riforma amministrativa e sulle ripercussioni per il nostro territorio (Rivista Madonna dello Splendore 2006), in particolare riportata anche nella copertina de “La battaglia del riso” di Giacomo De Iuliis, del 2014, illustra esaurientemente la dichiarazione giurata riportata. Disegnata da Carlo Forti, era allegata alla richiesta del 1807 di costruzione di un mulino da parte di Biagio De Bartolomei, notabile giuliese affittuario del beneficio di S. Salvatore a Bozzino. Si vedono i mulini sul lato nord del Tordino e il canale delle risiere che portava parte delle acque del fiume, costeggiando il percorso su cui dopo qualche anno verrà realizzata la consolare, fino al Borsacchio, in modo da poter allagare il territorio adiacente per la coltivazione del riso. Si vede anche l’antico percorso che da Cologna portava al Tordino all’altezza della masseria Muzi, abitualmente usato per raggiungere Giulianova.
Con la predetta riforma Cologna con il suo territorio fu aggregata a Montepagano, mentre a Giulianova fu “riunita” l’università di Montone che si oppose strenuamente a tale provvedimento ma non riuscì a conservare l’autonomia, finendo per esser compresa nel comune di Mosciano. Ma questa è un’altra storia …
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LO STEMMA MISTERIOSO DI PIAZZA BUOZZI

di Ottavio Di Stanislao*
—————–

Stemma di Piazza Buozzi Giulianova

La compianta professoressa Giovanna Manetta, da poco scomparsa, aveva affermato (Albero genealogico della famiglia Acquaviva d’Aragona) che questo stemma fosse quello originariamente apposto sull’antica e vicina Porta Marina. Io ho invece dimostrato, grazie alla minuziosa descrizione di Angelo Antonio De Bartolomi, che lo stemma di Porta Maria è quello oggi sulla facciata di Casa Immacolata.
Dall’osservazione attenta dello stemma di piazza Buozzi emergono questi elementi: Lo scudo è del tipo gotico antico inclinato, con una sottile bordura perimetrale. È attraversato da una banda contro merlata alla guelfa, accompagnata in capo e in punta da una stella a 6 raggi. L’elmo è posto sopra lo scudo con pieno profilo verso sinistra. Tale posizione, secondo gli araldisti, è riservata agli stemmi dei figli naturali. Dalla cima dal cercine dell’elmo, con valore di ornamento esteriore, partono quattro svolazzi detti lambrecchini. Il cimiero è la figura araldica, usualmente tratta dai contenuti dello scudo, posta sulla cima dell’elmo. Nel nostro caso la composizione non è in sintonia con le stelle e la banda contro merlata. Pare il busto di un guerriero col braccio sinistro, che doveva essere sporgente, troncato e quello destro appoggiato sul fianco dal quale fuoriesce un cartiglio dove è leggibile una parte del motto araldico della dinastia: “PICE…FINEM”. Pertanto ci sembra di poter escludere che si trattasse di uno stemma acquaviviano. La casa in cui è posto era una pertinenza del palazzo ducale posto sull’altro lato della piazza e nell’Ottocento era chiamata la vecchia taverna ducale. Fu acquistata dagli ultimi discendenti degli Acquaviva dalla famiglia dei nonni materni dell’attuale proprietaria nei primi decenni del secolo scorso.
Potrebbe trattarsi dello stemma di uno dei primi governatori o comunque di un alto funzionario dell’amministrazione feudale. Per la verità lo stemma parrebbe essere della antichissima famiglia lombarda degli Sfodrati. E un rapporto fra gli Sfondrati e gli Acquaviva esiste! Niccolò Sfondrati e Ottavio Acquaviva erano accomunati, sulla scia dell’insegnamento di Carlo Borromeo, dalla volontà di applicare rigorosamente la riforma cattolica sancita nel concilio tridentino. Nicolò Sfondrati, divenuto papa Gregorio XIV, nel 1590 nominò Ottavio Acquaviva suo maggiordomo, per crearlo cardinale subito dopo. Personaggio prestigioso e di grande influenza Ottavio Acquaviva ebbe un peso notevole nei quattro conclavi cui partecipò all’inizio del ‘600. Successivamente fu arcivescovo di Napoli, dove si distinse oltre che per lo zelo nell’applicare la riforma tridentina, per l’impegno che profuse a favore dei poveri specie nella carestia del 1607, durante la quale fece giungere duecentosettanta navi, cariche di circa 730.000 tomoli di grano. Inoltre per sottrarre i meno abbienti all’usura potenziò il Monte di Pietà con un suo contributo di 20.000 ducati. Per cui quando l’arciprete di S. Flaviano si lamentava con il vescovo in visita pastorale perché della pingue rendita poteva beneficiare solo di 100 ducati perché il cardinale Ottavio “si piglia tutto il resto del intrate che arriva alla quantità di mille et più ducati di regno ogn’anno”, possiamo essere tranquilli che il danaro sottratto all’arcipretura di Giulianova era stato usato a buon fine. Da segnalare inoltre che i cardinali della famiglia Sfondrati e lo stesso Niccolò, come pure i cardinali della famiglia Acquaviva furono titolari di Santa Cecilia, una delle più antiche e prestigiose chiese di Roma.
Allo stato degli studi manca però un riscontro diretto per attribuire lo stemma di piazza Buozzi alla famiglia Sfondrati.
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. DAL “MONTE” AL BELVEDERE

di Ottavio Di Stanislao*
La sistemazione del “Monte”, come allora veniva chiamato, a piazza del Belvedere comportò moltissimi anni. Fin da 1838, vista la penuria di risorse finanziarie da parte del comune, diversi proprietari avevano preso l’iniziativa di una sottoscrizione volontaria per la “formazione e livellazione della piazza innanzi la Porta da Piedi e per il riempimento del burrone che guarda a sinistra di detta porta, verso il mare”. L’intendente apprezzò vivamente l’iniziativa e contribuì alla sottoscrizione offrendo 10 ducati. Una esigenza di decoro urbano, di qualificazione degli spazi pubblici, era presente fin dagli anni quaranta, quando, il decurionato sanzionò come “inconcedibile” il pomerio esterno perché si voleva creare un’ampia strada che circondasse la città con ai margini un percorso pedonale alberato “per comode passeggiate”, e per il lato meridionale era già presente l’intento della realizzazione di un belvedere verso il mare. Nel lato sud delle mura una delibera decurionale del 1846 aveva indotto Riccardo Cerulli a ritenere che fosse stata aperta una porta a fianco della chiesa ancora dedicata a S. Francesco. In realtà solo nel 1876 il consiglio deliberò l’abbattimento della sacrestia della chiesa “per avere una comunicazione diretta e regolare tra il centro del paese e la piazza belvedere”, come suggeriva Gaetano de Bartolomei. Il varco fu realizzato, ma senza la demolizione della sacrestia, come si vede dalla planimetria del 1882. Per questo intervento bisognerà attendere un altro decennio. Quando si deliberò la livellazione della piazza, nel 1873, si pose anche il problema del cadente muro di fronte al comune che comprometteva pesantemente il decoro di tutto la piazza che nella mente degli amministratori doveva divenire il luogo più rappresentativo della città . Ancora una volta era stato il consigliere Gaetano De Bartolomei a convincere il consesso che “… non sarebbe punto decoroso dopo livellata la piazza far rimanere quelle macerie crollanti di fronte ad eleganti palazzine che fan corona alla piazza suddetta”. Ed effettivamente il muro fu ricostruito, con imponente portone, come ampiamente documentato da Sandro Galantini (Giulianova fra storia e memoria). Sempre l’ingegner De Bartolomei chiese ed ottenne la concessione di un tratto di muro “tra il palazzo del sig. Trifoni Biagio e il nuovo muro comunale sul lato nord della piazza belvedere. Tale cessione ha lo scopo di abbellire quel lato (…) si obbligherebbe costruirvi un porticato”. Le domande di appoggiare le fabbriche alla nuova struttura arrivarono subito e vennero assentite alla condizione di iniziare i lavori entro tre anni attenendosi al progetto del De Bartolomei. La costruzione doveva essere “eseguita in perfetta regola d’arte, la muratura deve essere col rivestimento a buoni mattoni sgravinati ed arrotati ed il prospetto, anche se di più proprietari, deve sempre uniformarsi in tutte le sue parti”. Purtroppo ancora oggi si equivoca chiamando il “Portico De Bartolomei”, “Palazzo De Bartolomei”…
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LAVORI SUL CORSO. DALL’IMBRECCIATURA ALLA PAVIMENTAZIONE (1839-1871)

di Ottavio Di Stanislao*
Gli interventi del 1838 si rivelarono presto inefficaci tanto che a pochi mesi dalla fine dei lavori, il sindaco Massei chiedeva di poter procedere di nuovo all’imbrecciatura del corso perché la strada era di nuovo invasa dal fango. Stessa richiesta riproponeva nell’aprile 1839 chiedendo di essere autorizzato ad imporre un turno di trasporto gratuito di breccia dalla marina a tutti i “possessori di carri a bovi, traini, ed animali da basto”. Ed infatti, da allora, compresa l’inutilità di ricostruire il selciato, si provvedeva a rifare periodicamente il manto di breccia per rendere la strada almeno trafficabile. Le pessime condizioni delle strade della città, non solo del corso, sono testimoniate anche da segnalazioni all’intendente da parte di giudici regi che si succedettero nel giudicato di pace negli anni ’50 dell’Ottocento. Sul finire del 1852 il giudice D’Amore scriveva: “Quando piove le strade interne di questo comune fanno schifo e paura (…) V’à poi la strada del corso che ad ogni leggiera pioggia si rende intraficabile per tanto loto che si addensa”. Quasi un anno dopo il nuovo giudice Guarino denunciava “… intorno alla squallida luridezza delle strade interne di questo paese, per cui gran detrimento ne viene alla pubblica salute, atteso anche il vagamento di porci”. Proprio in quegli anni era però maturata la consapevolezza che occorreva una soluzione radicale prevedendo il completamento della raccolta delle acque e una pavimentazione durevole come quella che si stava realizzando sul corso di Teramo. Fu incaricato l’architetto De Maulo di predisporre il progetto che fu approvato dal decurionato alla fine del 1852. (Purtroppo nel relativo fascicolo del fondo “Intendenza borbonica” dell’Archivio di Stato di Teramo, manca la rappresentazione grafica, c’è solo la stima dei lavori occorrenti con il calcolo della spesa che riportai in ampi stralci in “Giulianova. Le modifiche ottocentesche alla città acquaviviana”). La spesa prevista, quasi 1.500 ducati, non era però nella disponibilità del comune in un solo esercizio, perciò si decise di realizzare intanto il condotto per la raccolta delle acque, opera comunque propedeutica alla pavimentazione della strada. Nel procedere con la fondazione si incontrarono “antiche e profonde fosse da grano”, per cui fu necessario realizzare 39 arcate a mattoni su cui mettere in sicurezza il condotto della larghezza di palmi5,50 a 5 palmi di profondità. Tali opere, non previste nel progetto originario, provocarono un contenzioso con l’appaltatore Giovanni Brattini di Tortoreto che terminò nel 1856, dopo che i lavori eseguiti furono “riconosciuti” da una commissione costituita ad hoc dal Servizio di Acque e Strade. Furono realizzate 26 bocchette, della larghezza di 4 palmi, per raccogliere le acque lungo il corso e altre 6 di maggiore ampiezza per raccogliere le acque dalle strade superiori chiuse da pietre forate. Alla prova dei fatti tali caditoie si rivelarono inefficaci in quanto non riuscivano a captare tutta l’acqua piovana che quindi provocava danni alle botteghe che si affacciavano sulla strada. Si pensò di ovviare sostituendo tre pietre forate con griglie ad inferriata. Ma per la pavimentazione bisognerà aspettare ancora molti anni, per la mancanza delle risorse occorrenti e per l’assenza di maestranze esperte in lavori che richiedevano materiali adeguati e precise cognizioni. Già nel 1856 il sindaco Cavarocchi chiedeva di poter rivolgersi a “un tal Schiavoni di Ascoli adibito anche per la costruzione del corso di Teramo, espertissimo in siffatti lavori”, ma il Consiglio di Intendenza era invece d’avviso che bisognava avvalersi “de muratori del nostro Regno”. Non mancava la consapevolezza dell’indifferibilità dell’opera per cui il decurionato la indicava come assolutamente prioritaria in quanto si trattava della “… principale [strada] per essere più di tutte trafficata per essere la più comoda e più adatta al passaggio e per formare il punto di riunione di questi amministrati …”. In particolare, fino agli anni ’60 del secolo scorso la domenica mattina vi si riversavano tutti i contadini del territorio circostante, che si recavano in paese per fare acquisti nelle innumerevoli botteghe. Comunque la selciatura del corso sarà realizzata tra il 1871 e il 1872 dall’impresa dell’ingegnere Angelo Ara di Ancona con cui il comune aveva stipulato il contratto il I giugno 1871. Fu impiegata pietra di Fano e Pesaro, posta in opera da selcini marchigiani. L’importo dei lavori fu di £ 20.117, 35. Fra copostrada e marciapiedi furono pavimentati 2.157, 85 m2.
Nella foto, dell’Associazione Braga, del 1889, l’estremità nord del corso. Si nota la pavimentazione realizzata nel 1871-72. Altre immagini del corso nei primi decenni del ‘900 e caditoie in pietra e in ghisa ancora visibili fino agli anni ’70 del ‘900.
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LAVORI SUL CORSO NEI PRIMI DECENNI DELL’OTTOCENTO

di Ottavio Di Stanislao*
La prima notizia di lavori sul corso di Giulianova, come documentato da un carteggio dell’Intendenza francese conservato nell’Archivio di Stato, risale al 1813, quando in occasione del passaggio del re fu rifatta la selciatura. Questa la descrizione dell’ingegnere Carlo Forti: “… ciottoli di fiume battuti sopra un letto di arena fra un compartimento di mattoni in coltello disposti a quadri di sei palmi di lato, e questi divisi in triangoli per mezzo delle diagonali (…) quei lavori erano di una necessità assoluta perché l’antico selciato della strada interna formato di grosse pietre fluviali, senza guide era stato messo sossopra dal passaggio continuo di carriaggi mercantili ed era ridotto una vera sassaia”. Ma nel 1826 era necessario intervenire nuovamente e il decurionato aveva deliberato di rifare il selciato e di eliminare, richiudendole, le fosse esistenti lungo la stessa via dove, per una consuetudine secolare, si era soliti conservare il grano. La strada era ridotta malissimo, non esistendo un condotto per raccogliere le acque meteoriche, queste scendevano impetuosamente dalle strade provenienti dalla parte alta della città, trasportando terra e detriti sulla sede stradale rendendola così difficilmente praticabile. Si era pensato di costruire dei “chiavicotti” in corrispondenza delle vie superiori in modo da condurre le acque piovane al di là del corso.
Queste soluzioni erano criticate aspramente dall’ingegnere Carlo Forti, secondo cui i chiavicotti erano validi per le strade esterne ma non per i centri abitati e riteneva necessario realizzare un collettore lungo tutta la strada. Ciò suscitò le proteste di tutti gli amministratori di Giulianova che si vedevano espropriati della propria autonomia decisionale. Vincenzo Ciafardoni, allora consigliere provinciale, scriveva all’intendente: “… è molto conosciuta la persecuzione del sig. Forti verso il nostro comune, mentre brama di toglierci interamente il commercio e la luce del sole benanche se potesse”. Da premettere che in quegli anni era in atto un aspro contrasto fra gli amministratori di Giulianova e l’ingegnere Carlo Forti per il tracciato della strada Teramo – Giulianova. Il Consiglio d’Intendenza approvò una soluzione di compromesso ordinando una nuova perizia per la selciatura concava e non convessa come già appalto e disponendo che le fosse che non erano al centro della strada potevano esser conservate. I lavori furono eseguiti nel 1828 dall’appaltatore Pasquale Tentarelli ma ben presto le condizioni della strada tornarono ad essere assai critiche. La selciatura sul letto di sabbia era facilmente divelta dal passaggio dei carri e l’assenza di un sistema di raccolta delle acque faceva il resto. Nel 1837 il sindaco Comi chiedeva di poter eseguire nuovamente lavori sulla strada del corso “resa quasi impraticabile”.

Antica mappa di Giulianova

Si riproponevano i chiavicotti in corrispondenza con le strade provenienti dalla parte superiore, il riempimento delle fosse da grano e un manto di ghiaia nella sede stradale. Per abbassare i costi si pensava di ricorre al “braccio pubblico”, obbligando uomini e donne a giornate di lavoro gratuite e i possessori di carri al trasporto gratuito di breccia. Il sindaco nella richiesta dava conto della riserva di alcuni progettisti che ritenevano prioritario la costruzione di un condotto sotto la strada, ma poiché non c’erano le risorse occorrenti era comunque necessario intervenire per migliorare le condizioni della strada. I lavori furono eseguiti fra aprile e luglio 1838 anche su impulso dell’intendente Spaccaforno: non furono realizzati i chiavicotti ma un tratto di condotto nella parte sud dall’incrocio con la strada di S.Francesco alla porta dei cappuccini e su via di porta marina, con tre pozzetti di raccolta; per tutta la lunghezza fu asportato il brecciame di antico deposito, furono ripianate ben 127 fosse da grano, furono realizzati fossi laterali con selciato e guide di mattoni e fu rifatto il manto di ghiaia. Tali lavori provocarono un sensibile abbassamento della sede stradale. Per i lavori di “sterramento e riempimento” delle fosse furono impiegati uomini e donne per 2492 giornate lavorative, per i lavori di fabbrica furono necessari 217 giornate lavorative di muratori come è documentato dal relativo voluminoso fascicolo dell’Intendenza borbonica conservato nell’Archivio di Stato.

direttore dell’Archivio di Stato di Teramo



GIULIANOVA. LA DONAZIONE INSPIEGABILE

di Ottavio Di Stanislao*
Il torrione dell’angolo nord-ovest, chiamato la Rocca, nel 1595 venne donato dal duca Alberto ad un suo vassallo, Antonio Lucque di Campli per i servizi resi e per la fedeltà dimostrata.
“Albertus de Acquaviva de Aragonia Dux Hadrie Deciemus et Terami Princeps. Mag.co Antonio Lucque della terra di Campli nostro carissimo i continui serviggi che da molti anni havemo da voi con molta soddisfazione ricevuto (…) ci inducono ad usarvi ogni ufficio di gratitudine, e però avendo con nostro contento inteso che siete per fare abitazione nella nostra Terra di Giulianova (…) havemo pensato donarvi, (…) a voi e vostri successori in perpetuo il nostro torrione detto la Rocca (…) con terreno adiacente (…) nel quale possiate fabbricare a vostro modo ed appoggiare alle muraglie di detta nostra Terra …”.
Tale documento fu esibito nel 1789 in una causa civile (Fondo Regia Udienza Processi Civili dell’Archivio di Stato di Teramo) sostenuta dal notaio Melchiorre De Panicis di Mosciano, abitante in Giulianova proprio nel suddetto torrione e nei locali adiacenti, per confutare l’accusa di averlo usurpato all’università. L’intento del convenuto era dimostrare che tale struttura era entrata nella disponibilità dei privati da circa due secoli, come era avvenuto anche per il torrione di S. Francesco inglobato nell’omonimo convento.

Torrione della Rocca

Torrione della Rocca. Collezione Jonata Di Pietro

Torre del Salinello

La donazione del duca Alberto appare però incongruente da molti punti di vista. Nel momento in cui il signore feudale donava ad un privato cittadino un immobile nato come struttura di difesa della città verrebbe da pensare che evidentemente tale funzione era da ritenersi assolutamente superata. Ma, come documentato da Riccardo Cerulli, nel 1576 il capitano Brancadoro, incaricato proprio da Alberto Acquaviva responsabile della difesa della costa adriatica dal Tronto al Pescara, era stato a Giulianova in ricognizione per ordinare i lavori necessari per tenere in efficienza la cinta muraria. Ciò perché la seconda metà del ‘500 fu caratterizzata dal timore delle incursioni turche e barbaresche, tanto da indurre l’amministrazione vicereale a costruire torri costiere di avvistamento in prossimità delle foci dei fiumi. Furono realizzate nel 1568 lungo tutto il litorale e due di queste a Giulianova, sul Tordino e in prossimità del Salinello. Sempre dal codice cinqucentesco studiato da Cerulli apprendiamo che “i torrioni e le mura erano popolate dalli homini deputati alla guardia de le porte”. Una testimonianza del 1700 ci fa sapere che di notte le tre porte venivano chiuse e le chiavi erano tenute dal governatore, mentre da aprile ad ottobre si faceva la guardia sia alle porte che per le vie della città “per sospetto di turchi”. Da un’altra testimonianza della fine del ‘700 apprendiamo che proprio sul torrione della Rocca, punto più alto della città, nei momenti in cui si temeva potessero avvenire sbarchi di pirati, i cittadini organizzavano turni di sentinella. Le incursioni di pirati barbareschi, provenienti dalle coste settentrionali dell’Africa, genericamente chiamati “turchi”, costituirono un pericolo per le popolazioni rivierasche fino ai primi decenni dell’ottocento. Per tale motivo si sorvegliava il mare e se si avvistavano legni sospetti che si avvicinavano alla riva si dava l’allarme e si correva in spiaggia con le armi da fuoco per impedire lo sbarco. Particolarmente temuta era la possibilità di essere catturati dai pirati e ridotti in schiavitù, eventualità tutt’altro che remota. In uno “stato della scuola primaria del comune di Giulia” del 1809, nella colonna dove era indicata la condizione dei genitori degli scolari, accanto al nome di Alessandro Palestini, figlio di Pietro e Maria Grazia, si trova l’annotazione che lo stesso genitore era “schiavo in Tunisi”.
Per tale motivo, alla fine del ‘700, appariva incoerente e presumibilmente illegittimo il possesso di un bastione da parte di un privato tanto da dare adito al processo riferito. Il contesto descritto e documentato, caratterizzato dalla “paura dei turchi”, che aveva avuto il suo punto più critico proprio nella seconda metà del ‘500, quando le strutture difensive non solo vengono controllate nella loro efficienza, ma se ne costruiscono di nuove, porta a ritenere inspiegabile la donazione del bastione da parte da parte del duca Alberto. Si può però ipotizzare che il signore feudale, a corto di finanze come spesso accadeva anche agli Acquaviva, dovendo compensare il Lucque, abbia esercitato il suo potere insindacabile donando l’immobile, che era nella sua disponibilità, anche se aveva un valore strategico per la difesa della città. Si può anche ipotizzare che “…i continui serviggi che da molti anni havemo da voi con molta soddisfazione ricevuto…”, fossero servizi militari cui i grandi feudatari erano particolarmente sensibili perché disporre di una propria milizia conferiva autorevolezza e potere politico.
Due immagini della Rocca, la seconda dalla collezione di Jonata Di Piero e una foto della torre sul Salinello degli anni’50.
*direttore dell’Archivio di Stato di Teramo