Italia. Editoria: 26 settembre 1973, si spegne Anna Magnani. 43 anni fa ci lasciava l’attrice più celebre d’Italia. Oggi viene raccontata nella biografia scritta dal giovane Matteo Persica
26 settembre 1973, si spegne
Anna Magnani
43 anni fa ci lasciava l’attrice più celebre d’Italia. Oggi viene raccontata nella biografia scritta dal giovane Matteo Persica che verrà presentata il 29 settembre al Terra di Siena International Film Festival.
In un momento storico come il nostro, nel quale l’arrivismo e la smania di visibilità sono all’ordine del giorno, dovremmo domandarci se un modello pregno di valori come quello di Anna Magnani, che preferì restare fedele a se stessa e al suo pubblico fino alla fine anche quando il mondo del cinema le fece la “guerra”, dipingendola
come donna dal carattere “difficile” e mettendola letteralmente ai margini, valga la pena farlo conoscere alle nuove generazioni.
A quarantatre anni precisi dalla morte (avvenuta il 26 settembre 1973) e sessant’anni dopo la vittoria dell’Oscar, Anna Magnani resta l”attrice più popolare d’Europa, avendo conquistato tutti attraverso le sue interpretazioni indimenticabili: da “Roma città aperta” a “Bellissima”, da “La rosa tatuata” a “Mamma Roma”. Al contrario, la donna Magnani è rimasta sempre un mistero e negli anni si sono accavallati ritratti distanti dalla realtà. Ora, attraverso il libro “Anna Magnani. Biografia di una donna” di Matteo Persica (Odoya Edizioni) – verrà presentato il 29 settembre al Terra di Siena International Film Festival – possiamo dimenticare lo stereotipo della donna volgare, isterica e dal carattere scontroso. Al contrario, dal libro di Persica ne viene fuori il ritratto di una persona colta, intelligente, introspettiva, capace di analizzare la società in maniera scientifica, una donna dalla mentalità umana, moderna e controcorrente.
Il giorno dopo la sua morte, erano centinaia le persone immobili sotto la pioggia. Non c’era nulla da aspettare, ma loro aspettavano.
Alle dieci del mattino di quel 27 settembre 1973, mentre il mondo della politica esprimeva il suo cordoglio, una folla si era riversata davanti ai cancelli della clinica Mater Dei, nel quartiere Parioli, prendendola letteralmente d’assedio. L’istinto popolare prese il sopravvento: le persone erano pronte a buttare a terra il cancello di ferro pur di vedere Annarella. «Fateci entrare!» gridavano. Il direttore della clinica chiamò Valeria, che curava gli interessi dell’attrice. «Signora, che facciamo?» la supplicò. Poi repentinamente il tono di voce divenne perentorio: «Qui bisogna far qualcosa, altrimenti quelli ci demoliscono la clinica!». La folla si era raddoppiata in poche ore e, di comune accordo con Luca, il figlio, alle cinque del pomeriggio il direttore decise di aprire le porte della camera ardente.
Valeria e la collega Silvana, alle quali chiedeva di andare a vedere ogni suo film in uscita per conoscere la reazione del pubblico, questa volta erano costrette a fare da barriera tra il suo corpo esanime e la gente. Nella stanzetta c’erano solo rose rosse. Lei, truccata amorevolmente da Roberto Rossellini, aveva tra le mani un rosario di corallo rosa; in un angolo c’erano quattro suore vestite di grigio che pregavano. Si assistette a scene deliranti, con le popolane romane che si accalcavano l’una contro l’altra. Una di loro, con il volto rigato dalle lacrime, disse con un filo di voce al figlioletto di due anni che teneva in braccio: «Vedi, bello de mamma? Quella è Anna Magnani».
La sera precedente, il 26 settembre, per pura coincidenza all’annuncio della sua morte, dal piccolo schermo in bianco e nero il pubblico la rivide tornare al suo antico splendore quando il primo canale rai trasmise Correva l’anno di grazia 1870, diretto da Alfredo Giannetti. La trasmissione toccò unavetta mai raggiunta fino ad allora: quaranta milioni di telespettatori. Lei, per varie ragioni, non l’aveva mai potuto vedere completamente finito e montato: «Lo vedrò alla televisione» disse. «E mi piacerà sapere, dopo, come l’avrà giudicato il pubblico e, soprattutto, come avrà giudicato me».
L’estate era trascorsa fra un susseguirsi di conferme e di smentite sulle sue condizioni di salute. Il 20 settembre, l’ultima edizione del Momento-Sera titolava in prima pagina: “La Magnani sta morendo!”. Era la verità, ma non se lo aspettava nessuno. La malattia aveva fatto inesorabile il suo corso, e lei sentiva di stare male almeno da un anno o forse di più. Coma. Agonia. Queste due parole tremende erano nell’aria, mentre cominciava la penosa attesa dei giornalisti nell’atrio della Mater Dei, con le sue vetrate luminose, i suoi salottini ultramoderni, le due efficienti receptionist che dicevano di non saper nulla, di non poter confermare nulla. Con la sua scomparsa, il dolore maggiore l’avrebbero provato quanti avevano proiettato su di lei la propria adolescenza, scandita dal ritmo sordo e ossessivo della guerra che avrebbero avvertito meno violenta, vedendola riflessa negli occhi della popolana di Roma città aperta, che con il suo sguardo avrebbe materializzato il sentimento in una lezione di vita. Per loro nessuno avrebbe potuto nella tragedia dare un volto alla speranza come lei, che ne divenne l’icona e vi restò fedele per tutta la vita. Quarantasei anni di carriera, oltre quaranta film, dei quali almeno cinque resteranno di diritto tra i capisaldi del cinema, una galleria di personaggi che raffigureranno la storia del costume, nella faticosa ascesa della donna in una società che l’aveva relegata al ruolo di oggetto di lusso. I tempi e le mode cambiavano, ma la sua coerenza non veniva meno, finendo per prendere dimora in quella nicchia dorata e polverosa dove i fautori del “nuovo cinema” relegavano i vecchi miti, oscurando la sua persona, fino alla morte, che non le permise di vedere il tanto auspicato “nuovo corso” del cinema italiano.
Il 28 settembre, Valeria e suo marito scortarono in anticipo e in gran segreto il carro funebre dalla clinica alla basilica di Santa Maria sopra Minerva dove, alle ore undici, erano previsti i funerali. Lo stesso luogo dove era stata cresimata e aveva preso per la prima volta la comunione. Fu uno stupore trovarsi davanti a uomini, donne, giovani e vecchi di tutti i ceti sociali, che già da tre ore riempivano la basilica. Quando ormai non c’era più posto all’interno, si disseminarono per la piazza, attorno all’obelisco, fino a raggiungere il Pantheon. C’erano migliaia di persone, le strade chiuse al traffico e i negozi serrati in segno di lutto. Attorno alla cassa deposta ai piedi dell’altare, poggiata a terra, un onore che era riservato solo ai papi e ai capi di Stato, su un vecchio tappeto rosso sbiadito e con un unico grande cero davanti, si presentava la gente di Roma, la stessa che fin dalle prime ore della sua scomparsa pensava di raccogliere firme per innalzarle un monumento nel
popolare quartiere di Trastevere.
Quando, alle dieci e quarantacinque, dalla porta della sacrestia, il figlio Luca, accolto da Eduardo De Filippo, entrò in chiesa, il brusio dei presenti si fece ancora più intenso e i lampi dei fotografi bersagliarono il ragazzo senza pietà. Prima che il celebrante, padre Virginio Rotondi, un vecchio amico e padre spirituale di Anna, uscisse dalla sacrestia, un uomo anonimo e disperato, coprendosi gli occhi con le mani, riuscì a superare il cordone degli agenti e a buttarsi sopra la bara baciandola, seguito da presso da una donna bionda e grassa, vestita di bianco, che si inginocchiò in segno di affetto. Padre Rotondi si avvicinò al microfono, mentre nella sua mente tornava indietro col tempo di qualche ora: quando fu costretto a far intervenire Giulio Andreotti e Fiorenzo Angelini, assistente ecclesiastico dell’Associazione medici cattolici italiani, per consentirgli di dare il Sacramento dell’estrema unzione alla Magnani. Intanto, un bambino era riuscito ad arrampicarsi sulla statua del Cristo di Michelangelo, mentre l’altoparlante gracchiava: «Si prega il pubblico di fare silenzio», quasi ci si ritrovasse alla prima di un film o di uno spettacolo teatrale. «In queste condizioni non si può cominciare». Il brusio si acquietò, sia pure per pochi attimi, e Padre Rotondi iniziò a parlare: «Ho la tentazione di affermare che in questo momento io presto la sua voce a lei, ad Anna Magnani. In quella bara c’è il suo corpo esanime, quindi senza anima, perché la sua vita è stata trasferita altrove, per godere la pace e la gloria di Dio e per poter amare illimitatamente Dio. Mi sembra che sia lei, dunque, a parlare attraverso la mia voce. E Anna Magnani dice: ho gli occhi spalancati sulla magnifica realtà che prima intravedevo soltanto… Attraverso la mia voce, lei oggi vorrebbe dire a quanti hanno influenza nel mondo, nel campo politico, economico, artistico, di non distruggere, di non dissipare il loro genio, ma di utilizzarlo per costruire, non soltanto materialmente ma anche
moralmente, l’avvenire».
Quando la bara uscì dalla porta centrale della basilica la gente si ammassò e nell’impeto gli agenti di polizia vennero travolti. Dal tempio era impossibile uscire, dalla piazza non ci si muoveva, le viuzze erano ingorgate; qualcuno si sentì male, altri svennero ma rimasero in piedi trascinati dalla massa che si spostava. Tra i presenti c’era l’amica Marisa Merlini, che per avvicinarsi alla bara venne costretta a farsi scortare dai carabinieri. In quella basilica anche lei pianse lacrime amare, e quando le altre donne si alzarono in piedi, si unì a loro gridando: «Nannarella, non ci lasciare!». Appena le sue spoglie vennero sollevate sulle spalle dei portatori, avviandosi verso il lungo corridoio tenuto aperto al centro della navata dalle forze dell’ordine, esplose nel tempio un applauso fragoroso. L’ovazione rimbalzò nella piazza gremita di gente, tutti quelli che non erano riusciti a entrare nella basilica, mentre la bara scendeva lentamente la scalinata verso il furgone. Qualcuno
voleva toccare anche quello e ci riusciva, altri si contentavano di lanciare un bacio, altri ancora si facevano il segno della croce e sussurravano una preghiera. Il nome di Anna Magnani rimbalzava. Pareva davvero l’ultima scena di un film. Quando tutto si dissolse in un intimo corteo funebre che l’avrebbe portata al cimitero del Verano, nella piazza ormai sgombra rimasero le corone e una folla che le scrutava attenta, «Dio, come sono belle!», e leggeva i nomi sulle fasce. Il desiderio era più forte del pudore e le dita si allungarono rapidamente per carpire un fiore. Chi prendeva un bocciolo, chi strappava via senza alcun ritegno un mazzo intero. Il trofeo più bello, un mazzolino di mughetti inviato da Elizabeth Taylor, lo conquistò in tempo un donnone che, a spinte e gomitate, quasi lo divelse dalla cassa.
In chiesa e tra la folla si notarono tanti volti noti: da Alberto Sordi a Elsa Merlini, da Audrey Hepburn ad Amedeo Nazzari, da Mario Monicelli a Sergio Amidei, da Giulietta Masina a Roberto Rossellini. Fu proprio quest’ultimo, uno dei suoi più grandi amori, a starle accanto fino alla fine. Quando lui seppe che stava male gli inviò un telegramma: «Non è vero niente, comunque merda, merda, merda!». Poco dopo fu lei stessa a telefonargli: «Sono Anna. Vieni qui». Quando entrò nel suo appartamento la trovò in camera da letto, vestita per non sembrare una malata. Si strinsero l’uno all’altra, forse come mai avevano fatto. «Sono malata» gli disse «ma morire mi fa schifo, non voglio. Tu devi stare qua e impedirmi di morire. Roberto, non farmi morire». Lui le regalò una dolce bugia, promettendole che non l’avrebbe permesso. Anche quando gli ultimi attimi erano
vicini, lui le fece credere che non tutto era perduto, che una speranza era ancora viva. La accarezzava, le stava accanto, le parlava senza stancarsi di farlo, mentre si impegnava per trovare un farmaco capace di restituirla alla vita. Ma il farmaco, che in realtà non garantiva alcun miracolo, arrivò troppo tardi.
Il giorno dei funerali fece effetto la mancanza di Paolo Stoppa, che aveva condiviso con lei gli esordi. Pochi giorni dopo, su Il Globo, venne pubblicata una lettera nella quale l’attore scriveva: «Cara Anna, come mai al tuo funerale c’era tutta Roma e io no, non devo spiegarlo proprio a te, che certamente non saresti venuta al mio. Ce l’eravamo promesso – tacitamente – ogni volta che avevamo parlato insieme di questi magnifici funerali degli attori, che tutti e due sfuggivamo come fosse il nostro. “A questi galà” mi dicesti una volta “c’è sempre qualche collega del morto disposto a prenderne il posto nella cassa, pur di rubargli la parte di protagonista”. Credevo, Anna, che ai tuoi funerali almeno questo ti sarebbe stato risparmiato, per due motivi. Primo: perché la parte di protagonista, a te, nessun collega ha osato negartela mai, facendo anzi di te un monumento fin dai tempi di Roma città aperta. Secondo: perché a rubarti la parte di protagonista – in pratica – i
colleghi s’erano già abbastanza sfogati, da quei tempi a oggi, facendo di te appunto un monumento, ma un monumento disoccupato. E invece no. Anche al tuo funerale – e subito prima, e subito dopo – c’era un mucchio di gente che tentava di rubarti la battuta. Non dirò chi, non dirò come. Erano intanti, e ciascuno a suo modo, ciascuno nel suo piccolo».
Anna era morta. Qualcosa era veramente finito. «Ora non posso più nemmeno pensare di tornare a Palazzo Altieri» ricorda Franco Monicelli «di rivedere quella poltrona su cui lei sedeva. Perché quella casa, quella bellissima casa, senza di lei è morta, non vale più nulla. Come tutte le cose che toccava, che lei abitava, a cui lei partecipava. Erano vive finché c’era lei, senza di lei morivano. Un nostro amico mi ha telefonato oggi e piangendo mi ha detto: “Ora non ci litigheremo più”».
Anche in via degli Astalli 19, a Palazzo Altieri, la sua residenza da oltre vent’anni, era andato qualcuno. Fermo sull’entrata, il custode apriva il battente del portone chiuso in segno di lutto per far entrare e uscire le automobili dal cortile. Idealmente, lo stesso luogo dal quale un anno prima ci aveva salutato nella sua ultima partecipazione, seppur minuta, in un film: Roma di Federico Fellini. Quella scena non venne ripresa in strada davanti alla sua vera casa, ma la scenografia costruita dai sapienti maestri di Cinecittà riproduceva l’esterno di un palazzo in tutto e per tutto simile alla sua dimora. «Questa signora che rientra a casa, costeggiando il muro di un antico palazzetto patrizio, è un’attrice romana: Anna Magnani. Che potrebbe essere anche un po’ il
simbolo della città» la definiva, nell’ultima sequenza, la voce fuori campo di Fellini. «Che so’ io?» gli rispondeva stupita. «Una Roma vista come lupa e vestale» proseguiva lui. «Aristocratica e stracciona…». E lei: «De che?!», ancor più stupita. «Tetra» insisteva imperterrito Fellini. «Buffonesca… potrei continuare fino a domattina». «A Federì…» lo invitava lei «va’ a dormi’, va’». «Posso farti una domanda?» tentava lui disperatamente di prolungare il dialogo. «No, nun me fido, ciao» ribatteva lei seccamente, mentre chiudeva il portone del palazzo e con esso ogni speranza del regista. «Buonanotte!».
Davanti a quel portone, a chi si presentava in cerca di notizie, con malinconica fermezza, il custode rispondeva: «Qui ormai non c’è più nulla da vedere».
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Il libro “Anna Magnani. Biografia di una donna” è stato recentemente presentato con successo al Festival di Venezia, considerato dalla critica il migliore sull’attrice: «È un libro monumentale, zeppo di rivelazioni e di cosiddetti virgolettati significativi: un testo che rimarrà» per Mariano Sabatini; «Un’autobiografia postuma» per Giancarlo Governi; «Il più bel libro su Anna Magnani» per Maurizio Costanzo.
Un libro che ha sorpreso gli addetti ai lavori per la qualità del testo e per la giovane età dell’autore: Matteo Persica, romano classe 1982, autodidatta, che ha speso otto anni della sua vita per concludere le ricerche.
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Contatti:
Matteo Persica
matteo.persica@yahoo.it